I l nichilismo del nostro tempo di Costantino Esposito (Carocci, 2021) porta il sottotitolo “Una cronaca”. Si tratta infatti di “una sorta di reportage” su fenomeni diversi, tra filosofia, narrativa e società, secondo un’ipotesi di fondo: che “oggi il nichilismo non sembra più consistere – come nella sua forma classica – in una perdita di valori e di ideali, ma piuttosto nell’emergere di un bisogno irriducibile”. E proprio l’irriducibilità del bisogno di senso, e dell’io che lo sente e che guarda il mondo, mi pare il tema che accompagna i pezzi brevi di questo libro e spesso diventa dominante. Se Esposito – storico della filosofia, studioso, tra l’altro, di Agostino e Suárez, Kant e Heidegger – usa il reportage come formato è per prendere il problema e “farlo vedere”, mostrando dove riemerge anche in luoghi inaspettati – in una teoria scientifica, in un articolo sulle fake news, in una serie tv – “mostrando nell’esperienza umana dei punti di resistenza o fattori ‘irriducibili’ a ogni riduzionismo”.
Può essere utile, in proposito, precisare qualcosa sul “tempo” di cui si tratta. La categoria del nichilismo ha origine nella cultura romantica del primo Ottocento, dalla contemplazione di un vuoto di senso universale che si apre allo sguardo umano. Questa mancanza viene articolata, nei decenni successivi, fino ad arrivare al nichilismo di Nietzsche come critica di tutti i valori in quanto costruzioni artificiali e negazioni della vita. Ma il contesto più prossimo di queste cronache è l’epoca in cui queste tesi nietzscheane sono tornate alla ribalta nel postmodernismo, cioè gli ultimi decenni del secolo scorso. O almeno questa è una delle impressioni di lettura che propongo nella conversazione che segue.
GUARDARE IL MONDO DIVERSAMENTE
Il paesaggio intellettuale in cui ti aggiri in questo libro è familiare. Vorrei partire da un libro recente di Telmo Pievani, Finitudine, che immagina un’opera postuma di Jacques Monod (il grande biologo autore di Il caso e la necessità) scritta a quattro mani con l’amico Albert Camus. A un certo punto Monod scrive: “Noi vogliamo essere necessari, inevitabili, scolpiti nell’ordine delle cose da sempre (…) Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie con poche eccezioni, anche quelle esistenzialistiche, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità di negare la propria contingenza e la propria finitudine”. Ma le nostre società non colgono “il messaggio più radicale e sovversivo della scienza: la rottura dell’antica alleanza animistica”, per cui il senso non può più essere trovato nelle cose, ma deve essere liberamente elaborato dagli uomini, consapevoli della propria finitudine.
Queste parole sembrano adattarsi al tuo profilo del nichilismo, o meglio di quel lato del nichilismo che al bisogno di significato risponde così: la vita è “nudo volere”, energia cieca, mentre il significato è una “incerta costruzione culturale”. Di fronte a questa impasse tu commenti: c’è senso e destino solo quando l’io riconosca “un altro da sé”. Il nichilismo sarebbe in realtà l’“emergere di un bisogno”.
Ma – per non arrestare il contraccolpo, per seguirlo fin dove esso ci porta – bisogna prestare attenzione alla natura di questo fatto che siamo: a questa natura appartiene, non come un’aggiunta o un’elaborazione estrinseca, ma come una dimensione costitutiva, il fatto che noi ce ne accorgiamo. Accorgersi di essere quello che siamo fa parte di quello che siamo; ma ai miei occhi questo vuol dire che quello che siamo implica, di suo, la domanda sul perché ci siamo. La domanda, dico: non la spiegazione culturale della faccenda. Fa parte del nostro esserci il fatto che noi ne facciamo “esperienza”, chiedendone il senso.
E allora ci si può accorgere che il senso, se c’è – e non possiamo escluderlo a motivo di questa stessa domanda irriducibile che ci troviamo addosso, anche senza volerlo –, se c’è dunque il senso, esso è nella natura stessa, nelle cose, nel nostro stesso essere. Quella domanda di senso che insorge nelle pieghe dell’esistenza, bella ma anche importuna, perché non riusciamo a liberarcene a buon mercato; quella domanda è parte di noi, noi “la” siamo.
Il dispositivo tipico del nichilismo classico (da fine Ottocento a fine Novecento) è stato quello di risolvere il problema semplicemente negandolo. Diciamo, semplificando, che il meccanismo era più o meno questo: noi tutti abbiamo bisogno di un senso per vivere, è evidente, e non di un senso parziale, che non reggerebbe al nulla, ma di un perché ultimo, del significato per cui ciascuno di noi è al mondo. Ma questo “perché” non esiste, è un’illusione o un’invenzione. Dunque, accontentiamoci di questa dolce illusione (o di quest’inganno acre) per non morire di insensatezza, ma accettiamo che la domanda di altro sia vana, inutile, ingannevole. Se non c’è la risposta è impossibile la domanda.
Sennonché, la mossa inaspettata dell’esperienza ribalta il verdetto ritenuto inappellabile: se la domanda permane, essa è come un invito, un appello a scoprire cosa mai l’attira, la suscita, la “eccita” (secondo il termine più appropriato, suggerito da Agostino d’Ippona). Ebbene nel mio reportage sul nichilismo del nostro tempo ho cercato di rintracciare queste domande, come “barlumi nel buio”. Il desiderio del senso è scabroso e torna di continuo a inquietarci – altro che essere un prodotto culturale per elaborare il lutto della nostra finitezza. E ci inquieta perché ci richiama a quell’“altro” che è in noi stessi, che siamo noi stessi. Nel dire “io”, io sono già altro da me.
C’è una dimensione etica nella questione del senso. Tu citi il discorso di David Foster Wallace, Questa è l’acqua, a proposito della possibilità di “scegliere di guardare in un altro modo” quel che si sembra insensato e ripugnante, come la signora che sta in fila alla cassa del supermercato e sgrida a sproposito il bambino. Per Wallace si può tentare una comprensione amorevole di chi ci disturba: “sta a voi decidere di vederlo o meno”. Mi sembra che qui Wallace stesse indicando un’opzione etica secca, un dilemma; tu, se non sbaglio, ti domandi a quali condizioni possiamo concepire questa alternativa.
Noi non possiamo accorgerci del reale – per riprendere una parola che avevo già usato in precedenza –, e non possiamo neanche formulare un giudizio adeguato su di esso, se non ne siamo “affetti” (il termine-chiave usato da Kant nella sua “Estetica trascendentale”), e dunque se la conoscenza non è accompagnata, direi marcata da un’affezione. Se non siamo interessati, se non siamo coinvolti, se non siamo affezionati non ci rendiamo neanche conto di quel che c’è. E direi che questo non vale solo per le scelte morali, ma anche per le conoscenze cosiddette “esatte”, che sembrerebbero piuttosto richiedere il distacco e la neutralità misurativa. Anche in questo caso se non “amiamo” il dato, se non diamo il nostro “amore” – nella sua forma più elementare, quasi embrionale che è una libertà o disponibilità a imparare, a seguire, a corrispondere ai dati – vince semplicemente il pregiudizio, il già-saputo, uno schema a priori. Bisogna essere poco o tanto “scioccati” per poter accusare il colpo degli eventi. Bisogna vivere un briciolo di libertà per farsi interpellare dal reale e permettergli di dirci il suo senso.
Qui sta la possibilità – come dice ancora Foster Wallace – che una “lenta, calda, affollata esperienza da inferno del consumatore” possa essere vissuta come un’esperienza “sacra, ispirata dalle stesse forze che formano le stelle”. E tutto questo dipende dalla nostra decisione, “se vederlo o meno”. Ma ecco il mio punto: come nasce questa decisione? Cosa riattiva la libertà che ci fa accorgere dell’essere? Cosa ridesta l’affezione come sguardo? Forse solo il fatto di essere stati noi guardati da qualcuno così. In questa preferenza può nascere una morale non orientata da quello che non siamo ancora e che dobbiamo essere, ma dall’essere chiamati dall’urto del reale.
INTELLIGENZA: LA GRANDE RIDUZIONE
La “grande riduzione”, come la chiami, è forse il tema principale in cui converge la tua fenomenologia del nichilismo contemporaneo. La ritrovi nelle neuroscienze, e nella riduzione del soggetto a algoritmo di alcuni teorici dell’intelligenza artificiale. A un certo punto citi Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, un libro che a me pare parzialmente viziato appunto da questa pacifica riduzione dell’individuo a algoritmo.
L’intelligenza umana, scrivi, non è riducibile a un algoritmo, ma, come scrive Simone Weil: “L’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio”. Qui mi pare che il tuo punto sia intendere il desiderio non come interesse (alla maniera del pragmatismo) o come slancio vitale, ma come “affetto”.
Capire cosa sia e come funzioni l’intelligenza degli umani è tanto poco un dato scontato, che noi rischiamo di non vedere più il problema che essa sempre porta con sé, vale a dire la nostra apertura consapevole alla realtà, la nostra capacità di attraversarla senza censurarla. Ed è un problema che non riguarda appena le conseguenze etiche, quanto piuttosto i presupposti noetici. Ed è singolare che, mentre gli ingegneri che progettano mediante gli algoritmi le prestazioni dell’IA cercano di carpire il segreto dell’intelligenza, chiamiamola così, “naturale” delle persone – in cui l’intuizione e la deduzione, il computo analitico e il colpo d’occhio sintetico vanno sempre assieme –, da parte dei più al contrario si crede di poter assumere tout-court la capacità calcolatoria, che è uno degli effetti più imponenti e più potenti dell’intelligenza umana, come l’essenza stessa di questa facoltà, con la sua intera ed estrema apertura. La falsa alternativa tra un’esaltazione acritica della portata performativa ed emancipativa dell’IA, e l’oscura paura per la minaccia che essa potrà portare al nostro lavoro e ai nostri stessi gusti e pensieri, esige che si torni a porre la domanda: che cosa accade quando io intendo il mondo? Cosa si dà a vedere nel cono di luce del mio sguardo? Fin dove riesco a penetrare nel reale? “Intelligenza” è il nome di un incontro, non di una prestazione.
LA COSCIENZA E L’IO
Uno dei temi filosofici associati alla riduzione è il problema (e mistero) della coscienza. Da dove viene la capacità di essere cosciente? Quattro secoli fa, per Cartesio, il problema era capire come la mente possa essere corporea. Oggi, in autori come Chalmers, la domanda ritorna da una prospettiva opposta: come è possibile che l’attività cerebrale sia accompagnata dall’esperienza soggettiva? Tu scrivi: “il mistero non è la mancata risposta a questa domanda, ma coincide esattamente con questa domanda stessa”. Le “cause biologiche determinanti nell’emergenza dell’io” sempre già “lo implicano, lo richiedono, lo accompagnano”.
Partiamo pure dalla versione del “riduzionismo” cognitivista di un Dennett (caso estremo ma indicativo), secondo il quale ritenere la nostra coscienza un tipo specifico di essere è un’illusione destinata a scomparire, nella misura in cui si riuscirà (questo il programma, o l’auspicio) a riportare l’esperienza qualitativa dei soggetti personali alle loro rispettive “cause” neurali. E tra un po’ accadrà quello che secoli fa è accaduto quando si è diffusa la spiegazione eliocentrica del nostro sistema astronomico: continueremo a dire che il sole sorge al mattino, ma sapremo bene che è una convenzione linguistica e un’illusione percettiva, perché è la terra a girare attorno al sole. Così la coscienza sarà solo un simulacro narrativo, quando finalmente sapremo che essa è la denominazione convenzionale di una serie complessa di funzioni cerebrali.
A questa sicura previsione dennettiana si oppone però John Searle, non certo in nome di un coscienzialismo di tipo dualistico (cosiddetto “cartesiano”), ma proprio dall’interno del comune campo del naturalismo biologico. L’analogia con il sistema astronomico non regge: quand’anche noi ci sbagliassimo nel ritenere reale la coscienza, potremmo farlo perché stiamo già esercitando la nostra stessa coscienza. Vogliamo cioè contestare l’esistenza di qualcosa che di fatto stiamo già sperimentando. Naturalmente il gioco non è puramente dialettico, ma sta a dire che il nostro io è sempre per così dire “in ritardo” rispetto a sé stesso. Esso non è il prodotto delle nostre attività mentali, ma piuttosto la loro condizione. E questo scarto, questo dis-allineamento è proprio l’attestazione del mistero: esso ha a che fare non tanto con un default di conoscenza ma con il fatto stesso di esserci.
Un altro aspetto della questione è la realtà dell’io. Molti filosofi lo reputano una mera costruzione, un artificio retorico. Tu citi anche il Nathan Zuckerman di Philip Roth ne La controvita: io “non ho un io” ma “uno stock in continua evoluzione di copioni e parti che formano un repertorio”.
Deleuze ha teorizzato una felice perdita dell’io personale e un ritorno alla “pura immanenza” della vita dei neonati, richiamandosi a Spinoza e Nietzsche per invocare un gioioso riconoscimento di una necessità che ci oltrepassa e ci anima. Alle dissoluzioni dell’io rispondi con un ottimo argomento: se anche “tutto si riduce a una potenza impersonale che produce sé stessa, senza che nient’altro e nessun altro ci manchi, non c’è forse bisogno di un ‘io’, cioè di uno che attende, che desidera, che domanda, per poter godere, cioè per poter essere felice?”
ESERCIZI SPIRITUALI E FELICITÀ
Oggi una delle risposte alla crisi di valori condivisi e alla solitudine dell’io è la proposta della filosofia come educazione a essere felici, un orientamento che ha avuto un importante sostenitore in Pierre Hadot, e la riscoperta delle filosofie ellenistiche come scuole di vita. Tu dissenti da questo orientamento, che talvolta oggi diventa oggetto di corsi e formazioni a pagamento, sostenendo che la filosofia mostra qualcosa di profondamente diverso sulla felicità e sul suo essere qualcosa che non ci conquista ma si riceve gratuitamente.
Il nichilismo ha voluto decostruire questa traccia dell’infinito trascendente nell’essere umano – la traccia lasciata dal cristianesimo nella nostra tradizione – e perciò ci ha anche invitato a lasciar perdere tutto ciò che non fosse auto-compimento o auto-poiesi, intesi come la massima virtù dell’essere umano. Interrompendo però la storia del nostro stesso desiderio, che è sempre apertura infinita e all’infinito. E naturalmente da questo dipende l’idea – e l’esperienza stessa – della felicità: essa è il prodotto di una nostra costruzione o è la scoperta di qualcosa che possa corrispondere e soddisfare il nostro desiderio infinito? Chiaro che in questo secondo caso non c’è deduzione o spiegazione di sorta che possa assicurarci di essere felici, perché si tratta piuttosto di entrare nell’ordine dell’evento, dell’incontro, della sorpresa. L’essere umano è capace di felicità, ne intuisce il significato, ne avverte il bisogno, ne sente la mancanza. Essa è certamente un “impossibile”, nel senso che non possiamo sensatamente produrla noi; ma se ne neghiamo a priori la possibilità – la possibilità di ciò che per noi sarebbe impossibile – negheremmo il nostro stesso io.
IL WEB TRA GIOCO E INGANNO
Nell’introduzione a questa conversazione ho suggerito che molto nichilismo contemporaneo, a livello di elaborazione filosofica, dipenderebbe dal postmodernismo e dal pensiero debole del secolo scorso, con l’idea di un felice superamento della “verità”. Nel libro dedichi alcune pagine a Baricco, che sembra condividere questo orizzonte postmoderno – forse per un radicamento nella cultura filosofica torinese di qualche decennio fa. Baricco scrive, a proposito della nostra esperienza di interazione con il web:
“Fai l’unico gesto che quel sistema sembra suggerirti: metti tutto in movimento. Incroci. Colleghi. Sovrapponi. Mescoli. Hai a disposizione cellule di realtà esposte in modo semplice e velocemente usabile: ma non ti metti a usarle, ti metti a lavorarle […] se hai lavorato bene, non sarà difficile trovare nei tuoi passi una sorta di strano effetto, una sorta di modificazione che altera il testo del mondo, che sembra rimetterlo in movimento: come una sorta di vibrazione. Guarda te: è l’anima: è tornata”.
A me pare che, oltre a una certa vaghezza, il rischio di queste posizioni disinvolte e della critica della pretesa di verità sia una surrettizia e disarmata accettazione dell’esistente così com’è. Baricco dice di adattarsi e stare al gioco: ma non si rischia di essere ingannati, se il gioco – come suggeriva la Zuboff – ha un “doppio testo”, cioè se dietro la superficie del web ci sono meccanismi che l’utente non conosce e da cui può essere ingannato? Su questo a mio avviso occorrerebbe un lavoro di formazione, invece che di adattamento. Tu come la pensi?
E tuttavia io penso che ci sia un altro modo di affrontare la questione: non limitarci a chiedere noi qualcosa alla tecnica, sia come prestazioni che come controllo etico-sociale, ma di arrivare a capire cosa la tecnica (cioè il nostro tempo!) chiede a noi. È vero, come cerco di far vedere nel mio libro, che la tecnica è il volto ambiguo del nichilismo; ma è altrettanto vero che proprio la tecnica chiede di noi. Per essere tecnica, per funzionare come tale, la tecnica chiede che noi “ci siamo”. Sembra una cosa strana, perché ci verrebbe da dire che siamo piuttosto noi ad aver bisogno della tecnica. Ma è vero anche il contrario, e cioè che la tecnica ci pone una domanda, la tecnica chiede di noi come se quegli stessi strumenti tecnici avessero continuamente bisogno non soltanto di uno che li usi, ma di uno che “ci sia” perché essi possano essere quello che sono. È soltanto a questo punto che può avviarsi un giusto atteggiamento critico nei riguardi della tecnica, che non vuol dire rifiuto ma verifica, vaglio, messa in questione che non si accontenta mai di ciò che si è già pre-deciso e mantiene aperta la prospettiva.
LIBERTÀ
Nel tuo percorso emerge gradualmente il concetto di libertà. Ti opponi a due forme speculari di condizionamento: quello di una morale razionale del dovere astratto, di tipo kantiano, che non ci appartiene e non ci coinvolge in quanto persone in carne e ossa; e quello di un abbandono nichilistico al condizionamento individuale e collettivo, presentato talvolta come riscoperta del “dionisiaco”. A questi opposti condizionamenti contrapponi un’altra libertà.
NARRAZIONE
Come abbiamo visto anche in questa conversazione, in tutto il libro fai uso di romanzi. Oltre agli scrittori citati sopra, compaiono tra gli altri McCarthy, Houellebecq. Un ruolo simile lo svolgono le serie tv. Perché hai chiamato in causa romanzi e altre narrazioni? Ho pensato che la tua insistenza sul rapporto con l’altro, che filosoficamente mi sembra di matrice fenomenologica, trova una naturale manifestazione nel campo della narrazione. Ma anche che questo campo permette di tenere insieme sguardo umanistico e lo sguardo religioso cristiano a cui fai riferimento spesso nel testo. Del resto, come mostrava Auerbach, il realismo del romanzo moderno e contemporaneo si radica nella narrazione dei Vangeli.
Ora, proprio la narrazione ci dice che noi non possiamo separare questi due lati dell’unica questione del nostro stare al mondo. Pena la perdita di entrambi. Faccio un esempio che forse può risultare utile. Oggi si “portano” molto le relazioni, sia a livello antropologico ed etico che a livello epistemologico (con una certa insistenza sul mondo che sarebbe fatto di mere relazioni, tipica di una certa versione della fisica quantistica). Ma di che tipo sono queste relazioni? Il più delle volte si tratta di quello che ho chiamato una cibernetica zen. Come dice lo zen classico, ciascuno di noi (come le cose del mondo), in base ai principi della “non-permanenza” e della “non esistenza” del sé individuale, è un plesso, una sinapsi di relazioni: io sono il figlio di mio padre e il padre dei miei figli, il professore dei miei studenti e il lettore dei libri di filosofia ecc., capillarmente, indefinitamente, come nella tela del “World Wide Web”. E questo è vero, ed è anche affascinante, perché ci restituisce un’immagine di noi in movimento, come un filo che si annoda e si riannoda sempre sull’estensione potenzialmente inesauribile dei nessi. Ma “chi” è quello che entra in relazione? La domanda nel Tao della tecnica risulterebbe insensata, perché io “sono” relazione, non “ho” relazioni. E l’essere relazione va pagato al prezzo – a mio modo di vedere altissimo – di non essere più un “me stesso”. Ma la relazione stessa poi finisce per destituirsi, per auto-annullarsi, e tutti i nodi con cui leghiamo le nostre vite agli altri si sciolgono, perché gli altri – come me – non ci “sono” realmente più. Per questo le serie televisive costituiscono per me un formidabile meta-testo filosofico del nostro tempo: in esse (nel mio libro ne cito solo due, “True detective” e “Westworld”, ma se ne potrebbero citare molte altre) la narrazione ci poeta immancabilmente a vedere che senza relazioni non esiste l’io; e che senza l’io le relazioni sono solo illusioni, o incubi.