P arto dall’incipit di un saggio intitolato “Undoing Sex: Against Sexual Optimism”, pubblicato sotto le iniziali C.E. nel 2012, cinque anni prima dell’inizio del movimento che sarebbe diventato noto come #MeToo. Parto da qui perché, nonostante lo stimolo che anima quel saggio sia perlopiù estraneo per me, esprime qualcosa dell’umore attuale:
Una storia che ci raccontano: Sei sull’orlo della libertà sessuale; è qui a tua disposizione. Devi soltanto trovarla o crearla. Se prima eravamo brutte, ora potremo essere belle […] Eri traumatizzata ma puoi rimetterti, basta prendere il controllo di te. È un lavoro da fare ma è un bel lavoro. Lavora sulla tua vergogna, forse addirittura combatti contro chi ti umilia, e sarai libera. Alla fine sarai intera e avrai rivendicato il tuo piacere naturale. L’uomo ha il diritto di scopare e raggiungere l’orgasmo. Sentiti libera di farlo con il tuo corpo perché è bello. Le femministe e chi lottava per la libertà sessuale lo sapevano, per questo il loro movimento si è spento. Ora lo sanno anche Cosmo e Oprah, quindi lo sanno tutti. Il sesso è bello e il piacere è potente, questa combinazione ci salverà dal dolore […] Se un tempo era radicale o marginale rivendicare che il sesso aveva una sua bontà intrinseca, facilmente raggiungibile, ora la rivendicazione viene dal centro, è istituzionale. Lontano dal territorio radicale, è un’ideologia del patriarcato e al tempo stesso dei suoi oppositori, una raccolta eterogenea e disparata di discorsi uniti da uno scopo comune. È l’ottimismo che ci riporta con insistenza, crudelmente, al lavoro di scopare. Mi schiero contro questo ottimismo.
Se la libertà sessuale non è diventata altro che la crudele insistenza a “riporta[rci] al lavoro di scopare” – e se l’ordine sembra provenire da tutti, dagli Incel a Beyoncé, dai queer radicali alle “femministe sfatte della seconda ondata con i loro rossetti bordeaux e le brutte mèche” (per usare un’espressione recente nella lotta femminista intergenerazionale) – capisco perché rifiutarlo sembri fondamentale. Ma C.E. non sta solo rifiutando la pressione a essere sessuali. Porsi contro l’ottimismo sessuale qui significa rifiutare qualunque legame tra il sesso e la liberazione, la guarigione, il benessere, l’emancipazione o la politica. Questa presa di posizione non distingue se l’ottimismo arriva dall’area femminista, queer, oppure etero/mainstream. L’imperativo “è necessario imparare a desiderare la libertà sessuale” potrebbe provenire dalle pagine di Cosmo oppure dal filosofo queer Paul Preciado (in questo caso, è Preciado), ma gli si opporrebbe in ogni caso resistenza o rifiuto.
Il saggio di C.E. è apparso su una rivista accademica, ma la storia che racconta si espande in lungo e in largo. Nella maggior parte delle sue versioni, è una riscrittura scadente di decenni di variegata storia femminista e queer, che porta a concludere, come fa Moira Donegan in un riesame di Andrea Dworkin del 2019, che “la fine delle lotte sessuali non ha portato con sé il mondo liberato che auspicavano femministe come [Ellen] Willis. Al contrario, la posizione sfumata pro sex caldeggiata da Willis ha ceduto il posto a un approccio più individualistico e conciliatorio rispetto ai diritti delle donne – un approccio che non si concentra sul progetto di ‘liberazione’ della seconda ondata ma sull’idea più semplice, meno ambiziosa, più vendibile di ‘empowerment’. Nel tempo, la sex positivity della terza ondata, nella sua promozione di tutti gli aspetti della cultura sessuale, è diventata tanto stridente e disinteressata quanto lo era il femminismo antiporno nella condanna di tutte le pratiche sessuali sotto il patriarcato”. In Nation, la giornalista JoAnn Wypijewski fa eco a questo ragionamento, aggiungendoci la forza cannibalizzante del capitalismo:
Cos’è accaduto alla rivoluzione sessuale, se non un contraccolpo? Il capitalismo ha colpito, ha assorbito l’impulso liberatorio, ha attuato una produzione di massa del sesso svalutando ovunque l’esperienza, la realtà multiforme; e le forze liberatorie erano troppo assediate o lacerate internamente per resistervi. Quel che rimane è un simulacro della libertà: a un capo, i simboli per eccellenza della sessualità femminile commercializzabile protestano contro l’oggettificazione; all’altro, orde di uomini qualunque aprono e-mail che li incoraggiano a “farlo diventare più grosso, durare più a lungo, diventare la bestia che lei ha sempre desiderato”.
Ci sono molte critiche legittime rispetto al contraccolpo, all’assimilazione, ai limiti dell’emancipazione individuale e alla mercificazione dell’impulso liberatorio. Aggiungiamoci il flusso di storie del movimento #MeToo che testimoniano la diffusione e la portata della violenza e delle molestie sessuali, e diventa evidente perché alcune persone sentano il bisogno di prendere le distanze dalla retorica liberatoria, di concentrarsi sulla descrizione dei dettagli raccapriccianti e pervasivi delle relazioni di potere (etero)sessuali e di rammaricarsi per l’idiozia dei sex positive che, per quanto in buona fede, pensavano di aver cambiato le cose ma, per una serie di ragioni, non ce l’hanno fatta.
Ma anche questa è una storia, e investirci troppo a fondo ha dei costi. Questa storia non si distingue tanto per il valore di verità, ma per la sua manifestazione di delusione, l’espressione di una sensazione di tradimento o frustrazione, l’urlo primordiale per le ingiustizie che ancora ci attanagliano, la paranoia di non volersi far scoprire aggrappati al sogno ingenuo della “libertà sessuale” rifilato da chi un tempo era stato abbastanza sciocco da crederci, per se stesso o per gli altri. Questa delusione forse è insita nella logica di liberazione, perché riporre una fiducia eccessiva nei momenti di liberazione (specialmente se sperimentati da qualcun altro, nel passato), anziché nella pratica continua di libertà (che deve essere attuata, seppur in modo imperfetto, da noi e nel presente), produce inevitabilmente la dannata speranza che qualcuno, da qualche parte, avrebbe potuto o dovuto attuare o assicurare la nostra liberazione, ma non ne è stato capace. Forse, così vuole la storia, stiamo ancora peggio proprio a causa di quegli sforzi, perché ora dobbiamo abitare nelle rovine dei loro sogni, nella disillusione distopica. Questa narrazione sfiora il religioso nel suo lutto per un Eden perduto e nella ricerca di soggetti da incolpare. (Può essere particolarmente dolorosa quando arriva dall’area femminista, offrendo un’altra opportunità di incolpare le proprie antenate per non aver fatto abbastanza o di compatirle per essere state schiacciate da forze troppo potenti da sconfiggere.)
La cultura mainstream, brandizzata, di massa, sembrerà sempre “un simulacro della libertà” o una “versione più vendibile di ‘empowerment’” perché è un prodotto, e non, oserei dire, il luogo dove in realtà viviamo la nostra vita erotica.
Se l’ottimismo sessuale è la convinzione totalizzante che il sesso, il desiderio e il piacere siano essenzialmente buoni, essenzialmente curativi, essenzialmente emancipatori, essenzialmente politici, essenzialmente una cosa o l’altra; anch’io lo rifiuto. Mettere il sesso al centro di qualunque politica ha degli svantaggi enormi, in parte per la natura presumibilmente amorale del sesso, in parte perché ogni imperativo invita inevitabilmente a essere rigettato, e in parte perché il sesso ha un significato e un’importanza diversa per le persone e quell’importanza fluttua nel corso della vita. La rivendicazione che il sesso sia inequivocabilmente buono e che dovrebbe essercene di più nelle nostre vite si scontra, in un modo o nell’altro, con la celebre battuta del teorico queer Leo Bersani: “C’è un grosso segreto sul sesso: a molti non piace”. Inoltre, chi credeva che l’orgasmatron di Reich o le orge queer avrebbero decretato la morte del capitalismo o del fascismo ha sempre frainteso le possibili relazioni tra piacere, desiderio, capitale e potere. (Non Gilles Deleuze e Félix Guattari: “La sessualità è ovunque” scrivevano. “Nel modo in cui un burocrate accarezza i suoi incartamenti, un giudice amministra la giustizia, un uomo d’affari fa scorrere il denaro, la borghesia incula il proletariato, ecc… Le bandiere, le nazioni, gli eserciti, le banche fanno arrapare parecchia gente.”) E Dio solo sa se il capitalismo ha il potere stupefacente di “assorbire gli impulsi liberatori”, di apporre un “Srl” quando i primi leopardi irrompono nel tempio.
Ma così vanno le cose – lo sapevamo già, è successo centinaia di volte. Niente resta per sempre avanguardia; bisogna continuare a muoversi. Se la possibilità dell’esperienza emancipatoria (o anche solo proficua) fosse giudicata in base all’eventualità che alcuni suoi elementi siano cooptati, contaminati, ritorti contro, spogliati del loro apporto radicale, pubblicizzati, acquistati e venduti, la nostra intera vita ci passerebbe davanti senza nessuna sensazione di scoperta, invenzione, espansione o fuga. La cultura mainstream, brandizzata, di massa, sembrerà sempre “un simulacro della libertà” o una “versione più vendibile di ‘empowerment’” perché è un prodotto, e non, oserei dire, il luogo dove in realtà viviamo la nostra vita erotica.
Sono convinta che i nostri predecessori abbiano fatto il loro lavoro e abbiano conquistato vittorie reali. (Come ha raccontato Sylvia Rivera al Latino Gay Men of New York Club in un discorso sulle rivolte di Stonewall, un anno prima di morire, a cinquant’anni, di cirrosi epatica: “Quella notte avevamo deciso che saremmo stati una comunità libera, liberata, e l’abbiamo ottenuto. O meglio, non ‘noi’: voi avete ottenuto la libertà, la liberazione, grazie a quella notte. Io non ho un cazzo, proprio come allora. Ma lotto ancora, continuo a lottare”.) Quello che non hanno fatto – perché nessuno può farlo – è stato realizzare un mondo dove il fardello e la benedizione della pratica di libertà non pesasse sui vivi. Malgrado i proclami disinvolti negli editoriali e nei feed di Twitter in tutto il paese, le nostre alternative non si riducono a una libertà sessuale felicemente ottenuta una volta per sempre vs Il racconto dell’ancella. Bisogna sempre aspirare a creare condizioni più favorevoli per la pratica della libertà, e questo significa, come dice Foucault (e Arendt), fare spazio, aumentare i gradi di possibilità e diminuire i gradi di dominio. Ciò non vuol dire aspirare a una terra promessa, sgombra di tutti i rapporti di potere e della possibilità di soffrire. A maggior ragione quando parliamo di sesso, perché le nostre motivazioni sessuali non dipendono sempre da una ricerca del piacere o del benessere. Il sesso può significare anche avvicinarsi alle difficoltà e lottare contro il dolore, per usare le parole della scrittrice Katherine Angel. Accettarlo, anziché insistere che il sesso più etico o efficace sia quello che ci allontana incontrovertibilmente dalle difficoltà, dal dolore o persino dalla repulsione, può darci più spazio per accettare i nostri io variegati, sessuali e non.
Estratto da M. Nelson, Sulla libertà – un canto d’amore e di rinuncia (traduzione di Alessandra Castellazzi, Il Saggiatore, 2021).