“Amare un micelio”, la natura secondo Ciro Fanelli
Una conversazione con l’autore del romanzo Nel bosco del nostro splendore.
Demented Burrocacao è musicista, scrittore, critico musicale. Conduce Italian Folgorati per Vice e ha pubblicato, tra gli altri, l’album psichedelico Shell a nome Trapcoustic.
C
iro Fanelli è alla sua prima esperienza come romanziere: fino ad oggi è stato illustratore, fumettista, tatuatore, musicista. Ha disegnato copertine di dischi, anche per la sua etichetta, Jus Des Balles records, dedita a suoni sperimentali, e per i suoi dischi a nome Alcomongo. Le sue opere sono state pubblicate da grandi editori come Le Dernier cri, Kovra, Frigidaire, ma anche a fieri indipendenti come Lamette comics, Epoc Ero Uroi. Per un certo periodo ha organizzato il festival di fumetti Deragliamenti a Urbino. Scrive articoli per Esquire e ha tenuto su Vice una rubrica nella quale illustrava i suoi sogni: ne nacque un libro, Live Freud Die Jung. Tutte queste esperienze sembrano convergere nell’ultima sfida, che raccoglie il testimone dei migliori romanzi illustrati d’avventura in un contesto contemporaneo in cui c’è poco tempo per pensare e immaginare; proprio quando è più necessario per non farsi distruggere dalla macchina.
Nel bosco del nostro splendore di Ciro Fanelli (Rizzoli Lizard) è la storia di un ritorno a casa di un novello figliol prodigo che si trova improvvisamente lanciato dalla sua solitudine verso una situazione para-umana in cui potenze sconosciute lo manovrano, la realtà finalmente viene scoperchiata ed è incredibile, come qualcuno che per la prima volta vede il sole e pur di guardarlo si acceca. È colpa dell’entità “sacra” del libro, un micelio che si insinua nella vita del protagonista, diventando lui stesso, da invisibile, ingombrante personaggio del dramma.
Il libro è nato per il tuo amore verso la natura, o per il tuo odio verso l’umanità?
Be’ innanzitutto una cosa non esclude l’altra, addirittura si alimentano tra di loro. Ma non è quello il punto. Il punto è che personalmente ho delle difficoltà a relazionarmi con gli altri. Per certi versi sono migliorato, ho smussato certi angoli del mio carattere, ma sono difficoltà che mi hanno sempre accompagnato, per cui mi viene più facile, come racconto nel libro, relazionarmi a questa sorta di isolamento, questo vivere nella natura. Non uno “stare nella natura” da freak, ma una sorta di solitudine forzata. È più un esilio, che la condizione dell’eremita.
Tornando agli animali, mi piacciono molto ma non voglio umanizzarli. Nel libro, quando l’animale “parla” o ti “racconta” qualcosa non ha mai sentimenti umani, le cose che fa sono il fare degli animali. Anche se non sei un esperto basta una ricerca per scoprire che in etologia ci sono caratteri precisi di certi animali, certi comportamenti che tengono. Gli animali non fanno cose umane, anzi: per me il bello è proprio quello. Parlando di insetti – sono appassionato di entomologia, per quanto non abbia fatto studi di quel tipo – gli animali si mangiano tra di loro e generalmente partono dalla faccia. Non sono neanche così gentili come noi umani, che per abbattere un animale abbiamo l’obbligo di utilizzare il tramortitore (già la parola stessa è un po’ buffa). Io sono uno che se mi dovesse morire il gatto lo butterei nella spazzatura, non gli farei una tomba, la croce e le preghierine. C’è un passaggio molto bello dello sceneggiato Rai su Ligabue – la sceneggiatura era di Zavattini, un gigante – in cui Ligabue è nello studio di Mazzacurati che l’ha praticamente adottato, gli fornisce materiale per lavorare; e gli chiede perché disegna gli animali, perché è così attratto dalla natura. Mazzacurati gli risponde: “ma Toni tu puoi disegnare un animale, ma un animale non può disegnare te!”. Ecco, nel libro ho scritto degli animali perché evidentemente loro non possono scrivere di me.
Non è che non parlano di noi, solo per noi non è comprensibile. Le piccole cose, i piccoli dettagli che mi attirano nella natura sono importanti. Nel libro parlo di un dialogo che ho avuto con una ragazza: le stavo indicando delle piante che puoi riconoscere dalle foglie (d’inverno dalla corteccia, dal legno, dalla forma) e vedevo che lei – come la maggior parte delle persone, giustamente – non ne sapeva nulla. E mi chiedevo: ma come si può vivere senza conoscere certe cose? Ed è probabilmente fattibile, anzi forse vivi meglio. Però sono questi dettagli a fare la differenza. Più li conosci e più li vedi. Se non li conosci vivi in un mondo sterile. C’è gente che in mezzo a un bosco vede più o meno le stesse cose che vede in città. Cioè nulla. Anzi, magari provano anche fastidio, ma al di là di quello non puoi cogliere le cose in generale se non conosci quelle piccole. Per esempio quello che fanno gli insetti, l’impollinare, il mangiare i cadaveri per poi cacarli e concimare il terreno e fornire nutrimento – insomma tutto quello che è l’ecosistema – non è evidente. Quindi tornando alla tua domanda iniziale, ti direi che è un libro sulla difficoltà a relazionarsi con gli altri e la facilità e la spontaneità con cui riesco, al contrario, a relazionarmi con la natura. E, come ti ho detto prima, soprattutto con le piccole cose della natura.
La cosa che poi ritorna e che mi interessava capire è che questo romanzo è molto autobiografico. Non si capisce però bene quando inizia l’autobiografia e dove finisce il romanzo. Alla fine uno pensa che veramente tu abbia avuto un rapporto con questa creatura dei boschi… sembra che sia davvero esistita. È questo il taglio che gli hai voluto dare, quello di un romanzo “psicotropo”, più che un diario?
Non la chiamerei tanto fantasia quanto magia. Ci sono vari media all’interno di questo libro, c’è un’appendice fotografica che ti disorienta, perché le foto sono le foto di quei luoghi, foto addirittura mie da bambino, per cui vedi che certe storie di cui ti parlo sono davvero accadute quando ero piccolo. Mescolare dei piani, creare un mondo dove non si risponde alle leggi della fisica a cui siamo abituati ma che funziona, per cui tu lettore non ti poni il problema del realismo, tutto è possibile, in quel caso. Anche quando parlo di biologia, di insetti, di funghi, di piante, sono nozioni che puoi controllare. Tant’è che anche i disegni all’interno del libro sono disegni di fantasia, e più che altro suggeriscono delle atmosfere, mentre le illustrazioni sono scientifiche. Tra l’altro anche graficamente sono proposte in modo un po’ differente dal resto, sono illustrazioni che puoi trovare nelle tavole entomologiche, micologiche, di fine Ottocento. Quindi c’è questa continua alternanza tra un piano reale e quello che tu chiami del sogno, che io invece preferisco chiamare magico. Ma è un piano altro in cui, secondo me, tutto diventa plausibile, tutto è reale, non c’è una differenza tra irreale e reale. Se vogliamo citare qualcuno che questa cosa l’ha fatta tante volte e bene mi viene in mente Philip K. Dick, lui l’ha fatta meglio di tutti.
Quello che mi ha molto colpito è il fatto che nelle parti che uno potrebbe pensare autobiografiche c’è questo aspetto della malattia, il diabete, con il quale tu ti rapporti in maniera molto particolare, nel senso che diventa un punto di forza più che un punto debole. Ti è venuto naturale?
Be’ era uno degli ingredienti che avevo a casa per cucinare il romanzo… è una parte importante perché è una cosa che va gestita nel quotidiano. E quindi, vuoi o non vuoi, ci pensi in continuazione. Non è stato un modo per esorcizzarla, perché questo libro non è qualcosa di psicanalitico. Sono fatti che ho raccontato; tra l’altro la malattia mi è anche servita come espediente per inserire delle situazioni, rapportarla a cose che appartengono a quel piano altro di cui ti parlavo. Non la penso però come chi vede la malattia come un dono. Se esiste un’entità che ti fa questi doni, ecco, sarei grato se si scordasse di me, ne farei a meno. Prima di questo libro non parlavo volentieri di certe cose, e tuttora continuo a non parlarne volentieri perché non vorrei essere identificato come quello che ha quel tipo di problema. Ci sono persone che mi conoscono da anni e non lo sapevano, non perché io l’abbia tenuto segreto ma perché non c’è stato modo di parlarne, non c’è stata occasione.
Quali sono stati i tuoi punti di riferimento nella scrittura? Tenevi questo progetto nel cassetto e forse nel passato avevi già provato a fare una cosa simile?
Se per punti di riferimento intendi degli autori a cui mi sono ispirato, ho degli autori che mi piacciono molto soprattutto per la capacità di creare storie nelle storie, piani di realtà differenti che coesistono, come appunto Philip Dick, Antonio Moresco che secondo me è un gigante, Terence McKenna per certe cose sulla psichedelia che si ritrovano all’interno del libro, anche certe sue teorie sull’evoluzione umana; molti hanno accostato questo libro a Kurt Vonnegut, che io non conoscevo bene, ma in cui ho trovato una corrispondenza. Ho recuperato il tempo perduto, mi sono appassionato proprio quando me l’hanno fatto notare.
Nel libro tornano spesso riferimenti storici, biblici, mistici. Mi fa pensare che in qualche modo tu sia a tuo agio all’interno di questo mondo. Inoltre, nel libro tramite delle sostanze allucinogene naturali viene rivelata un’altra chiave di lettura della realtà. Qual è la tua esperienza con gli allucinogeni?
I riferimenti mistici vengono più dall’ambiente in cui sono cresciuto, non perché io provenga da una famiglia religiosa (anzi, è fortemente anticlericale), ma mia madre è una storica dell’arte. Quando ero piccolo, mentre gli altri bambini andavano in vacanza in luoghi di villeggiatura fantastici, noi andavamo in posti dove il mare era brutto. Non c’era motivo per andare lì se non per il fatto che al mattino ci portavano al mare, poi magari mia madre stava facendo una ricerca su un particolare autore e passavamo i pomeriggi ad andare per chiese, chiesine, chiesette a cercare dipinti, a scoprire questi autori minori, che lei ha sempre trattato. Sono cresciuto in mezzo all’iconografia cristiana, l’immaginario visivo è sempre stato quello. Ricordo anche che con mio fratello praticavamo questo sport: appena si entrava in chiesa cercavamo le reliquie, perché ci affascinava vedere questi corpi di santi, in realtà sempre tutti piccoletti, con le ossa messe in un certo modo… Nasce sicuramente da lì.
Per quanto riguarda la psichedelia e le sostanze: no, non mi drogo, in giovane età l’ho fatto, come tutti. O meglio, come tutti quelli che mi circondavano. È una cosa lontana anni luce da me, anzi in questo momento mi terrorizza. Però mi è rimasta la conoscenza, la passione per l’etnobotanica, l’ho anche sviluppata dopo con internet. Ci sono certe piante che fortunatamente ho scoperto da adulto perché magari uno da ragazzino poteva anche farsi male. Essendo a conoscenza delle tante – e ti assicuro che sono tante – erbe, piante, funghi allucinogeni, sembra che la natura intorno a noi sia proprio lì a suggerirci di drogarci. Suggerimento che alcuni colgono e da cui altri sono incuriositi, come me.
Quali sono state le colonne sonore di questo lavoro? Perché ho notato una certa ispirazione musicale, anche all’interno delle illustrazioni. Mi ha ricordato delle cose dei Residents, anche a livello di immaginario. Ti ha influenzato anche nella narrazione quel tipo di musica? L’ho trovato un libro molto visionario ma collegato a una tradizione di input psichedelici e sonori che si ritrova anche nella cultura pop disneyana. Come hai impostato la ricerca multimediale su questa faccenda?
Quella citazione residentsiana che hai intravisto fa sicuramente riferimento ad Animal lover, che è un disco che ho amato e amo tantissimo. Anche se questo libro lo accosterei più a Wormwood, il disco che hanno fatto sulla rilettura della Bibbia. Soprattutto a una canzone, “Burn baby burn”, dove c’è una voce femminile che canta il ritornello (“God digs my daddy”). Secondo me rappresenta molto di più il contenuto del racconto.
A prescindere da questo: come è nata l’idea?
Alla fine è un libro che parla di un ritorno. Ero in un altro paese, stavo facendo delle cose, e sono tornato nel posto dove sono cresciuto; stando via per parecchi anni hai dei ricordi, delle idee, anche romantiche sul tuo luogo di origine. Poi quando ci sei scopri che non è quello, che le idee sono legate ai periodi migliori che hai vissuto lì – forse anche ai migliori della tua vita, e non ritrovandole rimani ancora più deluso. Partendo da questo ho ricostruito un po’ del mio passato; c’è poi questa svolta magico-fantascientifica e il libro diventa altro, e quell’altro è legato al riconciliarsi con la natura. Non nel modo di Mauro Corona, dei libri fricchettoni su quanto è bello il bosco, ma concentrandomi su quella che per me è la vera realtà della natura, su quanto possa essere anche cattiva. Da lì poi parte lo spunto sulle difficoltà di comunicare, di legare con gli altri, dei rapporti, questo correlarsi a un essere altro, che viene da un altrove. Diventa un discorso sul linguaggio. Con questo essere si parla un altro linguaggio che non è il nostro, ed è quello che alla fine crea fraintendimenti. Ecco, sarebbe bello in generale non parlare, potersi esprimere senza parlare.
È un libro che parla della morte, della vita, del sesso (nel libro abbondano le metafore sessuali); dell’andare oltre la vita e la morte, avere un rapporto con la terza dimensione, con le forze oscure e quelle nascoste, anche non oscure, che ci circondano. Esoterico, animista.
Sì, c’è del sesso nel senso più legato alla riproduzione, a cose naturali dei funghi, degli animali… ma non c’è sesso tra le persone. È più una questione vitale che pornografica. Tra l’altro se osservi la struttura del libro ci sono dei racconti dentro il racconto che a un certo punto quadrano nella composizione generale, e questo per me è un aspetto legato ai funghi: si tratta della gemmazione. La gemmazione è un tipo di riproduzione asessuata. Proprio il contrario del sesso: esseri unicellulari che per riprodursi non fanno altro che riprodurre se stessi. Tu immagina questa cosa, questa cellula singola come qualcosa che cresce, cresce, cresce e a un certo punto si stacca, no? Si sdoppia e riproduce qualcosa di uguale a se stesso. E tutti i racconti che trovi dentro al racconto sono come delle piccole gemme che partono dal discorso principale per poi spargersi e colonizzare tutto.