C ontro il panorama (nottetempo) è un libro dedicato a Napoli che, come suggerisce il titolo, “volta le spalle al panorama”, con l’obiettivo di evitare la narrazione dominante del pittoresco. Il testo è di Lucia Tozzi, studiosa di politiche urbane e giornalista. Nata a Napoli, si trasferisce a Milano, nel quartiere Isola, in tempo per osservarne la trasformazione: da zona popolare a emblema della gentrificazione più spinta, suggellata dall’erezione del Bosco Verticale. Il suo ebook del 2020 Dopo il turismo (nottetempo) rivela le fragilità strutturali del turismo di massa, un sistema che distrugge l’ambiente, la cultura, le città, il lavoro.
L’apparato fotografico è invece di Giovanna Silva, fotografa milanese con una formazione in Architettura. Nel 2012 fonda Humboldt Books, casa editrice dedicata alle narrazioni ed esperienze di viaggio con un approccio interdisciplinare. Dalla sede di Humboldt Books ha visto crescere, negli anni, lo skyline di Isola. Nel 2019 ha iniziato una serie di progetti fotografici dedicati alle città italiane: Milano, Roma, Napoli e, prossimamente, Genova.
Contro il panorama ricostruisce la storia urbanistica di Napoli dal Dopoguerra in avanti riportando l’attenzione ai grandi interventi pubblici, e rivalutandone, in particolare, l’edilizia popolare, sia nelle sue funzioni sociali e culturali che a livello di qualità architettonica. Portare alla luce questa storia dimenticata, se non addirittura vituperata, vuol dire schierarsi contro chi vorrebbe vedere la città cedere definitivamente alle spinte della terziarizzazione e della turistizzazione, ormai ridotti da fini a mezzi per aumentare la rendita sul metro quadro. Le foto di Giovanna Silva restituiscono uno sguardo frammentato, osservano la città da vicino, ad altezza occhio, eliminando il contesto e lo skyline, attivando l’attenzione verso i dettagli architettonici e la sedimentazione del tempo e delle persone sugli edifici.
La conversazione che segue fa avanti e indietro tra Napoli e Milano, generalmente considerate, con una buona dose di pregiudizio, come due estremi concettuali della progettazione urbanistica italiana.
Stella Succi: Com’è nato questo progetto? Chi ha chiamato chi?
Giovanna Silva: Io e Lucia ci conosciamo da tanto tempo, quando ero editor da Abitare lei era caporedattrice, e anni fa avevamo già collaborato a un reportage sulla Cina. Nel febbraio 2021 sono stata invitata a fare una residenza a Napoli e ho pensato di mappare e fotografare le architetture della città, così ho chiesto aiuto a Lucia.
Lucia Tozzi: Anche perché tutti hanno lo stesso pregiudizio, in primis i napoletani, “Ma dove t’avvii per Napoli da sola”. Io le ho detto “Guarda, è un po’ ridicolo, anche perché sei stata in città ben peggiori. Detto questo ti accompagno molto volentieri e ti uso per vedere delle cose”. Il target di Giovanna in genere è l’architettura firmata dagli anni Trenta in poi e ho preso la scusa per vedere cose che non avevo mai visto.
SS: Le immagini del libro ritraggono edifici inconsueti – ospedali, quartieri INA-Casa, piloni, condomini: come li avete selezionati?
GS: Siamo partite con una mappa – quando devo lavorare su una città riempio GoogleMaps di pin facendo ricerca sui libri.
LT: Io ne ho aggiunti altri, abbiamo preso il motorino e siamo andate in giro come delle pazze.
SS: Come si sono influenzati a vicenda i vostri diversi sguardi sulla città?
GS: All’inizio c’è stato un adeguamento di Lucia al mio sguardo: lei mi conosce da un punto vista sia fotografico che personale, quindi sa che non vado a cercare determinate cose di un paesaggio turistico. Però, giustamente, essendo Napoli e non Milano, all’inizio mi portava anche in punti panoramici non necessariamente belli, ma da cui si vedeva la città
LT: Infatti all’inizio non capivo: io la portavo in posti meravigliosi che però presupponevano che tu guardassi il panorama. Napoli è così, più che qualunque altra città: la prima cosa che fai quando compri una casa è capire quanto si vede, che pezzo di mare o di città. Ogni costruzione ha questo tipo di relazione. Quindi mi chiedevo come facesse Giovanna a fotografare questi edifici senza contestualizzarli, ma ad un certo punto ho capito cosa stava facendo, e che andava bene così.
GS: Il tipo di taglio che volevo dare al lavoro era molto più vicino e meno panoramico. Il titolo Contro il panorama ha un duplice significato: riguarda da una parte i contenuti del testo di Lucia su ciò che è successo a Napoli dal Dopoguerra in poi, ma anche il mio punto di vista fotografico. Le vedute panoramiche che ci sono a Napoli, anche per la conformazione geografica della città, a me non interessavano, ho utilizzato un’ottica molto vicina al soggetto architettonico. Grazie a Lucia ho visto molte architetture che non avrei mai visto, e non solo per una questione logistica, ma anche perché sono poco conosciute, forse perché sono interpretate dall’establishment come dei fallimenti e quindi non se ne legge. Io ho studiato Architettura, e gli interventi dell’INA-Casa, come Monteruscello, o tutto ciò che è successo nell’area di Bagnoli, non si approfondiscono. Uno dei motivi per cui faccio la fotografa e spesso collaboro con scrittori è proprio perché io credo che sia fondamentale imparare attraverso le parole e gli occhi degli altri.
SS: Uno dei pregiudizi che il libro cerca di scardinare è l’impressione che la progettazione urbanistica della Napoli moderna, dal Dopoguerra in poi, sia da considerare un’esperienza interamente negativa, in particolare per quanto riguarda l’edilizia pubblica.
LT: In molti pensano che quando si è scatenato l’inferno edilizio del Dopoguerra ci sia stato solo marciume, ma non è vero. Il keynesismo generale ha provocato anche a Napoli un fortissimo intervento pubblico, con esperienze di qualità che adesso si fa fatica a comprendere – anche perché sono meno manutenute rispetto, per esempio, a QT8 a Milano, ma a Milano ormai è quasi tutto privato. A Napoli invece molto è rimasto pubblico, affidato a società di gestione che hanno curato poco e male le case, e quindi le costruzioni cadono a pezzi, sono completamente deformate, ognuno ci ha fatto la sua veranda, la sua torre, è anche difficile riconoscerle: devi andare con la cartina, con le fotografie dell’epoca e fare un confronto visivo. Quell’esperienza però c’è stata eccome, e ha portato un benessere incomparabile. Molti antropologi e moltissimi teorici anarchici hanno contribuito alla condanna dell’edilizia pubblica e del welfare abitativo in generale, spesso in favore di una romanticizzazione dell’abitare spontaneo, delle favelas. Ma ai miei occhi le critiche, in alcuni casi più che condivisibili, non rendono neanche lontanamente giustizia all’equità garantita dall’edilizia pubblica. Ottantamila famiglie hanno avuto una casa, un bene economico durevole che gli ha permesso di usare i soldi per fare altre cose: non ne parliamo proprio.
SS: L’estetica brutalista e decadente, alla Gomorra, sembra essere tornata di moda in serie TV, film, video musicali.
LT: Le immagini di Gomorra hanno avuto un impatto visivo fortissimo. Napoli è stata rappresentata come una di quelle città delle serie più efferate, tipo The Wire. Poi c’è stato tutto il filone dei trapper, di Liberato, che si fanno fare dei video straordinari, che tra l’altro vengono copiati da Milano. Ciò che si perde in queste rappresentazioni un po’ di plastica è il valore civile, che adesso sembra una cosa pallosissima, ma di fatto il Dopoguerra è stata l’epoca della redistribuzione. Io litigo sempre con i nostri amici di sinistra che dicono che il welfare è una formazione di compromesso. Io invece dico che il welfare è stata l’invenzione più radicale della storia dell’uomo, mai le ricchezze sono state distribuite in maniera così democratica come in quegli anni in cui si facevano le case popolari, la sanità per tutti, e ora ce lo stiamo rimangiando. Chi l’ha detto che non si può tornare indietro? Scusa, mettiamo in asse le cose, vediamo: è necessario che per sviluppare la città, per farle crescere, dobbiamo per forza fare gli interessi delle società immobiliari, dei Catella, inginocchiarci a Hines, agli emiri arabi?
SS: Un’altra idea centrale del libro è che Napoli si sia salvata da alcuni processi edilizi predatori che invece altre città hanno conosciuto negli ultimi decenni, prima di tutte Milano. E che paradossalmente si sia salvata proprio grazie al suo immobilismo.
LT: Napoli non è stata toccata, o perlomeno, è stata fallimentare dal punto di vista dello sfruttamento neoliberista per diversi motivi, tra cui il terremoto che ha consentito di realizzare un enorme piano di edilizia popolare quando era già considerato tabù, negli anni Ottanta. Con la globalizzazione si è deciso – non essendo più gli Stati l’unica autorità a decidere del territorio – di puntare tutto sulle famose città globali, in competizione tra loro. Questa cosa ha fatto sì che, nell’ultimo decennio, tutto il resto d’Italia ha avuto -20% di spesa pubblica e Milano +10%, e non è una questione di merito ma di accentramento. I capitali atterrano poi dove lo Stato investe. Tutte le altre città, non solo Napoli, hanno perso capitali privati, perché il capitale è conformista e va dove rischia di meno. In più, Napoli ha avuto un piano regolatore con regole molto certe, di grande vincolo sul centro storico e sul verde, che ha sicuramente intimidito gli investitori. Certo, non c’è dubbio che a Napoli servano, però, soldi e manutenzione.
GS: Mi stupisco molto quando amici non italiani vengono a Milano e rimangono estasiati dalla città, io invece la trovo molto vuota. Lucia ne fa un discorso politico, io ne faccio una questione umana. Penso che l’immobilismo di Napoli ne abbia salvato i sentimenti. Gli ultimi anni hanno trasformato Milano in un luogo privo di reali contenuti, Milano offre una finzione: tutte queste week di finta cultura, ma se poi osservi bene non c’è niente. Ho passato l’anno più bello della mia vita a Roma, anche lì l’immobilismo è di tutti i giorni però trovo un’umanità vera.
LT: Gli eventi, anche quelli che non attraggono persone da fuori, sono la stessa cosa del turismo, e lo sfruttamento è sistematico. BookCity, che potrebbe dare qualche spicciolo agli studenti o ai precari della cultura, si vanta di impiegare 1.500 volontari. Piano City: non paghi l’orchestra del tuo teatro e dai l’idea che qualcosa stia succedendo, stia venendo restituito, che la comunità sia “vibrant”, ma non è vibrant per niente, e la qualità poi è molto bassa. Anche quando si parla di spazi per la cultura, sono luoghi che sono stati organizzati e strutturati per avere come core business l’affitto di spazi. Ormai si fanno solo spazi ibridi. Un edificio non può essere una biblioteca e basta: non bastano le sale di lettura, si devono includere anche spazi per la produzione culturale. Ma si faccia la produzione culturale in altri luoghi, e lì invece si faccia ricerca, si faccia lettura, si faccia studio, perché sennò che cosa produci? E invece creano sale da affittare per incontri, per eventi, ma che cosa avranno da dirsi le persone se non hanno più tempo e luogo per studiare più nulla? L’idea è che la produzione possa avvenire perché hai fatto delle sale eventi, ma non è così!
GS: Quando stavo preparando il libro su Milano ho affrontato una materia che per me è conflittuale, in fondo non l’avevo mai fotografata. Mi sono messa a fotografare ciò che salvo di Milano: la mattina molto presto, quando è ancora sospesa e il suo aspetto efficiente non è ancora manifesto, perché non c’è in giro nessuno. Le persone che si vedono in queste fotografie sono le persone che manutengono questa facciata: chi mette a posto i binari, chi porta via la pattumiera. Poi non è che si debba arrivare agli eccessi opposti, perché se vai a dire a un napoletano che tutto deve rimanere così com’è, uno alza gli occhi al cielo: “sì, però ci vai vivere tu a Napoli”.
LT: È importantissimo capire che ci sono stati scempi incredibili a Napoli, ma ci sono stati ovunque. Magari a Napoli fa più effetto perché hanno scempiato la collina di Posillipo, uno dei posti più belli del mondo.
SS: E questo è l’alibi, invece, per chi vorrebbe adottare anche qui il “modello Milano” e affidare lo sviluppo urbanistico della città ai privati.
LT: A Napoli la nuova giunta sta dicendo che ci vuole un nuovo piano regolatore, e che sarà diverso: vorranno imitare quello di Milano. Invece questo è un momento storico in cui a livello internazionale si sta ragionando in senso opposto. La pianificazione è stata criticata sia da destra che da sinistra e invece ora moltissimi studiosi dicono di tornare a pianificare in modo più democratico, perché adesso sono i privati a pianificare. Quindi, prima di distruggere una cosa avanzata come la pianificazione pubblica, varrebbe la pena di estenderla ad altri.
SS: Come si sta muovendo la nuova giunta in questo senso?
LT: Quando è arrivato Manfredi, per mesi non si è capito cosa volesse fare. Poi ha iniziato a parlare di fondazioni attraverso le quali privatizzare e vendere una serie di beni culturali e immobili di pregio – per forza, per il Patto per Napoli che ha firmato con Draghi. Un caso emblematico è quello della Biblioteca Nazionale. Franceschini vuole trasferirla dal Palazzo Reale all’Albergo dei Poveri, un luogo difficilissimo, che richiederebbe l’utilizzo di 100 milioni del PNRR per attrezzarsi. E per fare cosa? Per affittare Palazzo Reale come spazio per cerimonie, feste, matrimoni, Dolce&Gabbana. E poi per aprire un varco dove far passare i turisti che sbarcano delle crociere, che vanno a vedere il Cristo Velato, Totò e Caruso e queste cose di folklore. Ma ha trovato opposizione da parte del personale della biblioteca e di diversi movimenti. In risposta, la Confindustria Napoletana sta mobilitando tutti gli intellettuali che gli capitano a tiro per sparare a zero sull’opposizione attraverso i giornali locali – il Corriere del Mezzogiorno, il Mattino. Però un’opposizione c’è e dà fastidio. Sta tutto nell’organizzarsi. E l’opposizione c’è più là che a Milano proprio grazie allo stallo di cui parlavamo.
SS: Il rischio è che Napoli e Milano, in maniere diverse, diventino vetrine come Venezia o Firenze.
LT: Milano e Napoli hanno ancora delle strutture produttive, nulla ci vieta di puntare di nuovo su economie differenziate, dove la produzione industriale e manifatturiera hanno un ruolo importante. Quella specie di assioma da sussidiario delle elementari per cui l’economia primaria è primitiva, quella secondaria è mezzo e mezzo, quella terziaria è avanzata, è una grandissima cazzata! Penso che sia importante reintrodurre l’agricoltura in zone vicine e anche la produzione manifatturiera. A livello sociale permette alle persone di lavorare in maniera meno precaria. Non possiamo vivere solo di logistica e turismo.