I l 14 gennaio del 1999 moriva Bryn Jones, musicista elettronico noto con lo pseudonimo di Muslimgauze. Un paio d’anni prima dell’undici settembre e di tutto quello che sarebbe seguito, prima che certi temi diventassero dibattito quotidiano, è venuta a mancare con la sua morte una voce che non siamo sicuri ci sarebbe piaciuta, ma che sicuramente si sarebbe fatta sentire.
Jones era nato a Manchester il 17 giugno del 1961 da una famiglia della middle class. Disoccupato, viveva nello studio che si era ricavato in casa dei genitori, producendo musica e conducendo una vita da recluso. Non si era mai mosso da lì che per una manciata di live, di cui uno in Giappone.
Quando ero studente ricordo che per parlarci dell’alienazione contemporanea nel mondo globalizzato, non so bene in quale corso, citarono il caso di un camionista inglese, quasi analfabeta e isolato dal mondo: grazie all’ascolto di una serie di audiocassette, era praticamente diventato un esperto di politica estera. Non troppo diversamente, il mondo socioantropologico è pieno di studi su comunità che riescono – con più o meno successo – a far propri i costumi di mondi distantissimi dal loro.
Bryn Jones aveva un’ossessione: il conflitto israelopalestinese. Più in generale, il Medio Oriente e il mondo islamico – Iran, Afghanistan, guerra del Golfo. I suoi dischi non hanno mai smesso di manifestare punti di vista non esattamente sfumati, fin dagli artwork e dalle copertine (in cui figurano armi, donne velate e bambini soldato) e dai titoli degli album e dei singoli brani (Fatwa, Izlamaphobia, Vote Hezbollah, The Rape of Palestine…).
Jones non era un credente, non era vicino alla religione, non era un militante attivo, non andò mai in Medio Oriente nemmeno quando lo invitarono. Era solo una persona molto interessata alla questione, e con le idee chiare. Come queste poi potessero convivere con il suo Thatcherismo dichiarato, resta questione aperta.
I suoi album vengono pubblicati in pochi esemplari da piccole etichette, in un disinteresse (quasi) generale che lo porta a sviluppare una certa dose di complottismo, nella convinzione che gli mentissero sui reali riscontri della sua musica. Così Simon Crab, suo produttore:
Era ossessionato dall’idea che lo avessimo fregato in qualche modo – e penso fosse così anche con altre persone – il che è ridicolo. Abbiamo venduto a malapena qualche copia di
Eg Oblique Graph, ho finito per regalarli – e pochissime di Buddhist On Fire. Non ci siamo neanche lontanamente avvicinati al rientro sui costi. E lui era CERTO che ne avessimo stampate migliaia di copie e che le avessimo vendute di nascosto. Per un po’ ho provato a farlo ragionare ma poi ho lasciato perdere. Non abbiamo mai fatto pace. Non ne valeva la pena.
È sempre Crab a dirci che la fascinazione di Jones per il mondo islamico fu abbastanza improvvisa, e secondo lui – almeno all’inizio – dovuta semplicemente al fatto che di quello parlavano i giornali del periodo. L’idea iniziale non era molto diversa da quella dell’immaginario di tanti gruppi industrial, fatto semplicemente di “cose violente e scioccanti”.
Sappiamo a ogni modo che era un ragazzo dalla personalità difficile, timido e introverso: troppo strano per essere popolare, ma strano in un modo troppo normale per risultare interessante. Complice l’insuccesso, la famiglia – che praticamente lo vedeva solo alle ore dei pasti – non avrà idea della portata della sua produzione musicale, scoperta soprattutto post-mortem; lui stesso, quando gli capitava di parlarne, pare esibisse un misto di entusiasmo e imbarazzo.
Tutto quello che abbiamo detto fin qui potrebbe ridurre questa storia a una curiosità da Settimana Enigmistica. C’è però il contenuto della sua produzione. È un delitto che Muslimgauze resti semplicemente una “figura di culto”, nota più che altro a un ristretto giro di appassionati, un po’ snobbata dalla critica, raramente trattata anche in pubblicazioni di nicchia e tenuta a debita distanza dai manuali enciclopedici. Come nel caso di Jandek, altro oscuro e misconosciuto musicista “di culto”, non aiuta la produzione sterminata, ed è facile bollarlo come un mezzo matto che ha pubblicato troppi dischi (nell’ordine delle centinaia: si dice che ne registrasse più o meno uno a settimana). Com’è ovvio ci sono stati punti alti e punti bassi; ciò non toglie si sia trattato di un discorso estremamente interessante e in anticipo sui tempi.
Non solo aggressività ma anche grande musicalità e una certa raffinatezza: la costruzione dei pezzi, il modo sapiente di incorporare i sample, la varietà degli elementi percussivi, gli strati di basse, le saturazioni, il controllo totale, la ripetizione e la rottura delle aspettative… tutti aspetti dei quali Jones si rivela un maestro.
E sono molti i musicisti che lo hanno ascoltato con attenzione: l’ultimo decennio di musica elettronica è pieno delle sonorità che Jones aveva preconizzato. Ovunque sentiate techno ibridata con l’industrial, pesanti influenze arabo-orientali, percussioni traballanti – lì c’è l’ombra di Bryn Jones. Di certo si staglia nel lavoro di un peso massimo come Sam Shackleton, fondamentale nel delineare il suono dell’elettronica dell’ultimo decennio; come praticamente in tutto il fortunato progetto Vatican Shadow di Prurient (Dominick Fernow).
Più difficile è tracciare il percorso contrario, dato che Jones non si diceva interessato ad ascoltare musica che non fosse la propria (probabilmente non ne aveva il tempo materiale), ed era anche assai evasivo circa le fonti dei suoi sample. Le uniche cose che sappiamo apprezzasse sono Brian Eno e i Throbbing Gristle, e poi Wire, Can e Faust – pochi ma buoni, insomma – e ovviamente molta musica tradizionale, dal Giappone, dall’India e soprattutto dal Medio Oriente; fonti da cui trarre ispirazione e infinite possibilità di campionamento.
Si può azzardare una suddivisione in periodi, che spesso però si mescolano o si sovrappongono: Jones ha realizzato album di ogni tipo, talvolta pubblicando nello stesso lavori che parrebbero realizzati in epoche completamente diverse. Quasi impossibile delineare una discografia essenziale; possiamo nominare una serie di lavori interessanti, tutti più o meno consigliati, e provare a costruirci una strada.
Partendo dall’industrial, e dai primi capolavori (Buddhist On Fire, Flajelata – che più che industrial è stato definito un My Life In The Bush Of Ghosts più duro e con uno spirito techno-primitivista – il minimale Hajj, lo scurissimo Coup d’Etat, Abu Nidal che mette a fuoco la formula fatta di loop, ambient, disturbi e tanto field recording: un camion che passa, degli spari, una donna che prega…), il progetto Muslimgauze allarga ancora più gli orizzonti con gli anni Novanta e i dischi su Extreme (Zul’m – contemporaneamente tra i suoi più accessibili e meglio prodotti, che suggella l’incontro con l’elettronica più propriamente detta, e United States of Islam).
Approda poi a etichette come Soleilmoon e soprattutto Staalplaat e pubblica alcuni dei lavori più interessanti, innervati di elettronica etnica, suggestioni cinematiche (Vote Hezbollah, che unisce all’elettronica una pronunciata vena psichedelica, e Citadel), di drone music atmosferica (Veiled Sisters – flusso minimale ispirato all’India, tra i suoi più belli – e Return Of Black September, forse il suo disco “ambient” più riuscito), dub (il postumo Baghdad) e musica etnica tradizionale dalla forte impronta percussiva (Narcotic, molto vario e per questo un buon disco di introduzione).
Si trova addirittura qualche accento noisey-hop (Zuriff Moussa, Hussein Mahmoud Jeeb Tehar Gas e Jaal Ab Dullah), accanto a dischi semplicemente non inscrivibili in alcuna delle categorie di cui sopra (quel capolavoro di Azzazin, fatto solo di ondulazioni e corrente, una specie di permanenza forzata sull’astronave di Alien), ma senza dimenticare le radici industriali (Blue Mosque, tra i suoi più malati, fatto di intuizioni e terrore, e Izlamaphobia, altrettanto disturbante e frammentato).
L’alluvione di uscite non è finita: Muslimgauze ha lasciato nastri su nastri, DAT su DAT, per altri mille album. Solo nel 2015, Staalplat ha tirato fuori una decina di cd tra inediti e autoremix, e la pubblicazione, da parte della stessa label, dell’LP (quindi un’uscita sentita come più importante) di stampo praticamente autechriano Ali Zarin.
Se tra i miei preferiti ci sono Veiled Sisters e Azzazzin, un posto d’onore va concesso a Mullah Said (1998), forse l’ultimo capolavoro tra gli album prodotti in vita. Suite etno-ambientale, un arazzo di percussioni, magia e claustrofobia per un suono quasi tangibile, arido e caldissimo. Un testamento perfetto, prima di una morte del tutto inaspettata per le complicazioni di una polmonite.
Ultima controversa nota a margine è quella della cosiddetta appropriazione culturale, vero elefante nella stanza quando parliamo di Muslimgauze.
All’epoca non era certo un tema all’ordine del giorno e Jones può esserne stato un lussuoso precursore: ma a guardarla un po’ più da vicino, potremmo vedere una discografia genuinamente consumata intorno a queste tematiche, che pure all’epoca non gli garantivano certo grande popolarità o coolness. Con tutta l’ingenuità del caso, sono le cose dietro le quali ha speso una vita. “La gente può ascoltare un pezzo, leggere il titolo, chiedersi a cosa faccia riferimento, scoprirlo, pensarci, studiare la questione. Se poi lo faccia o meno, io non ne ho idea. Però lo spero”.
JD Twitch, che lo conosceva, dice di Jones che nella vita non faceva affatto proselitismo, che lui e un suo amico la sera di un concerto avevano provato e riprovato a farlo parlare di politica ma lui aveva sempre svicolato. Anche Jill Mingo, ufficio stampa per varie etichette, che ha lavorato con lui fino alla fine, dice che non era davvero così radicale: era filopalestinese, amava fare musica, ma non aveva un approccio così profondo e analitico alla materia. Geert-Jan Hobijn dell’etichetta Staalplaat ribatte che Jones era estremamente serio sulla questioni e sì, ci credeva davvero, ma non era un fanatico. Ad esempio non era interessato alla religione, e quando in un’occasione venne con molta cautela approcciato da un gruppo di israeliani per un’intervista, Jones si stupì della loro sorpresa quando acconsentì tranquillamente a chiacchierare. Ricorda Hobijn:
La sua opinione era ferma e non la cambiava se era con me o con degli israeliani. Ma ascoltava, e se avevano senso accettava le risposte. Ho letto tutte le sue dichiarazioni, e non sono d’accordo con tutte quante, ma non erano mai razziste o antisemite, nonostante la gente lo accusasse di esserlo.
Resta la domanda legittima: perché un tizio della middle class di Manchester decide di dedicare tutta la sua attività creativa ai conflitti in Medio Oriente? Probabilmente, mentre in questa sovrapproduzione e in questa ossessione consumava la sua vita (e incidentalmente gettava la sua ombra sulle musiche elettroniche più all’avanguardia della prima metà degli anni Dieci), dai drammi di un popolo e di una zona del mondo Bryn Jones riusciva a tirare fuori sé stesso: i suoi problemi, la sua personalità tortuosa, i suoi fantasmi.
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Fonti importanti per questo articolo sono stati From Azzazin To Gun Aramaic: Muslimgauze Two Decades On di Louis Pattison, pubblicato su The Quietus; e il monumentale libro Muslimgauze: Chasing the shadow of Bryn Jones di Ibrahim Khider (VOD, 2014). Segnaliamo anche il completissimo muslimgauze.org.
Questo articolo è stato pubblicato originalmente sul sito Pixarthinking; l’autore desidera ringraziarne l’editor Mattia Coletti.