D opo gli anni Novanta li avevano dati per morti, ma se negli anni Ottanta solo negli Stati Uniti si vendevano 250 milioni di dischi all’anno, per il 2024 si prevede che le vendite arriveranno almeno a 50 milioni. A cosa è dovuta questa rinascita? Il rapporto messo in campo dal disco rende “plastico” il fatto che la musica non sia solo comunicazione di dati sonori. L’artwork che da sempre definisce il corredo e l’identità iconica soprattutto del “dodici pollici”, nel suo generoso offrirsi allo sguardo e alla manualità, è stato uno dei segreti della popolarità del disco, saldandosi alle “obsolete” caratteristiche sonore dettate dalla riproduzione meccanica e imperfetta del vinile e creando così un universo unico di senso. Un “evento” – come ha raccontato efficacemente una delle testimonianze raccolte in una ricerca di qualche anno fa di Oronzo Trio e Raffaele Campo – al contempo uditivo, visivo, tattile e olfattivo, che reclama speciali cure e attenzioni:
[…] Lo portavo a casa dal negozio in grandi buste, mi sentivo come se stessi facendo qualcosa di speciale. Non vedevo l’ora di arrivare nella mia camera, di scartare la confezione, di annusare l’odore della copertina, ponendo estrema attenzione a non lasciare impronte sulla parte interna dove erano scritti i testi, o sullo stesso vinile, ancora immacolato. Ricordo gli istanti che precedevano l’ascolto delle note della canzone di apertura dell’album, magari un brano non ancora passato dalle radio, quindi sconosciuto. Era come trovarsi davanti al sipario di un teatro ed attendere l’apertura per scoprire la prima scena della rappresentazione, la voce del primo attore
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Questa sorta di teatro domestico è un potente strumento di elaborazione identitaria. Si tratta probabilmente dell’onda lunga di quel momento epifanico della nostra esistenza adolescenziale quando “il corpo ci appare e prendiamo atto non solo di avere un corpo ma di essere proprio quel corpo”, secondo il racconto di Fabio Cantelli Anibaldi sul suo incontro con “la Gioconda del rock”, la copertina di Aladdin Sane di Bowie (ripreso recentemente dallo scrittore durante una appassionata conferenza all’Università di Torino). Che sia merito della technonostalgia di Timothy D. Taylor o della retromania di Simon Reynolds, il disco in vinile è tornato oggi a essere un prodotto tendenzialmente di massa, benché il 50% del mercato, a quanto pare, sia destinato al collezionismo e rimanga dunque sigillato nella sua confezione originale. Alcune realtà produttive indipendenti si sono inserite in questo bipolarismo, tra un rinnovato interesse di carattere generalista e uno specialismo di ordine feticista, proponendo non tanto, o non solo, un modo alternativo di realizzare e distribuire “dal basso” il prodotto discografico, quanto una prospettiva di disco “artigianale”, a tiratura limitata, curato minuziosamente nei dettagli. Un prodotto, dunque, che non si pone l’obiettivo di cavalcare le consistenti dimensioni quantitative recuperate dall’attuale mercato del disco, quanto piuttosto la ferma volontà di lavorare sull’unicità materiale, rituale ed esperienziale.
Un approccio che concepisce la multidisciplinarità non come esito parziale di singoli ambiti, ma come transdisciplinarità, cioè come ibridazione genetica dell’arte.
In Italia, un bel caso di questa sensibilità curatoriale è la collezione di “dischi d’artista” Xong, l’etichetta inaugurata nel 2021 da Xing, organizzazione indipendente nata nel 2001 dalle ceneri di quello straordinario laboratorio multidisciplinare che fu il Link Project di Bologna. L’idea si colloca in continuità con il percorso ormai più che ventennale di Xing dedicato all’esplorazione del contemporaneo, delle sue articolazioni legate all’ambito delle live arts e della dimensione performativa dell’arte. Un approccio che concepisce la multidisciplinarità non come esito parziale di singoli ambiti, ma come transdisciplinarità, cioè come ibridazione genetica dell’arte. Gli artisti protagonisti di questa collezione, benché molto diversi l’uno dall’altro, condividono un metabolismo che scarta il musicale in senso stretto, aprendosi così all’universo del sonico e del sonoro per come è stato affrontato dagli artisti più radicali dal Novecento a oggi. Furono loro a concepire per primi la registrazione sonora, e poi la sua manifestazione fonografica, come terreno di sperimentazione svincolata dalle regole della mera riproduzione. Al di là e oltre la successiva e ormai scontata prospettiva della copertina come catalizzatore delle istanze artistiche dell’oggetto.
Si può dire che il disco in vinile, da questa prospettiva, consenta la rilettura della storia dell’arte contemporanea e delle sue possibilità espressive.
Una tradizione performativa che ha inizio con le avanguardie storiche, arrivando fino ai giorni nostri anche in ragione delle conquiste tecnologiche e della sempre più forte presenza del disco, a partire dagli anni Cinquanta, nell’orizzonte culturale delle società occidentali. Dal Futurismo, al Dadaismo e al Surrealismo, ma poi John Cage, Fluxus, l’happening, la performance, l’arte concettuale, la Pop Art, la poesia sonora, la ricerca vocale, il minimalismo, e così via. Fino a forme che appartengono esplicitamente alla nuova spettacolarità teatrale e alla ricerca più avanzata in ambito rock ed elettronico alternative, come in Italia è stato il caso dei Magazzini Criminali e dei Krypton negli anni Ottanta, o dei recentissimi esperimenti di Cosmesi. Si può dire che il disco in vinile, da questa prospettiva, consenta la rilettura della storia dell’arte contemporanea e delle sue possibilità espressive.
Proprio perché il “disco d’artista”, fin dalle sue origini novecentesche e a dispetto di una ancora persistente difficoltà di interpretazione, “non è – come ha giustamente rilevato Giorgio Maffei – la spiegazione o la documentazione di un’opera d’arte sonora. Il disco è l’opera”. Cioè uno dei diversi ambiti di intervento a disposizione degli artisti, realizzato con le medesime logiche di un quadro, di una scultura, di un video, di un libro, o ancora di un’installazione, per elaborare ed esprimere, in maniera potremmo dire “olistica” e sulla base di una percezione spaziale e relazionale, la propria personale invenzione creativa. Se però concentriamo la nostra attenzione unicamente sull’aspetto sonoro, i dischi d’artista possono contenere praticamente qualsiasi risorsa: musica, rumore, suono concreto o poesia. Possono documentare un evento, costruire un archivio o proporre suoni registrati in contesti urbani o naturali. Opere affini a quella che, forse con eccessiva disinvoltura, chiamiamo “musica contemporanea”, ma che in realtà rivelano la loro appartenenza all’ampio spettro dell’arte e, in particolare, della performance.
Ed è proprio su questa rifrazione performativa che insistono i curatori della collezione Xong, Silvia Fanti e Daniele Gasparinetti di Xing, che, intervistati per Exibart, interpretano lo spazio del disco come una “scena su cui focalizzare e amplificare la poetica come fenomeno sonico e fisico”, come “spazio da performare” – una intuizione testata nel 2010 con un disco di sole risate dell’artista tedesca Antonia Baehr. L’intuizione diventa sistema con la pandemia e la contestuale interdizione dello spazio pubblico, che vedeva la maggior parte degli artisti impegnati nelle arti dal vivo disperatamente aggrappati a quel surrogato di presenza che, in quei giorni, le tecnologie cercavano di evocare attraverso l’immagine. “Per noi – continuano i due curatori – è stato chiaro che l’unico spazio di creazione mentale era l’ascolto e l’oralità, il suono e la parola”. Una condizione che, nel suo ancorarsi a un fatto solido come il disco, svelava anche il portato politico della scelta, in contraddizione al primato culturale della visione e all’imperativo categorico dell’intrattenimento virtuale spacciato per autentica partecipazione. Si è dunque fatta strada l’idea di una raccolta che, con consapevolezza storica, potesse riconnettersi idealmente alle eroiche stagioni in cui l’Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta, rappresentava per molti artisti, non solo italiani, un forte polo di attrazione, anche per quel che riguarda i dischi d’artista e l’elaborazione teorica ad essi connessa.
Il pensiero va al ruolo pionieristico esercitato negli anni Settanta in Italia da critici come Achille Bonito Oliva e Germano Celant, quest’ultimo anche collezionista di dischi d’artista, nell’interpretare il disco come esplosione dello specifico visuale, come espansione dei limiti del processo artistico e delle sue rivendicazioni di ricerca vocale, acustica, tattile e corporea. Una riflessione che conduceva per la prima volta a porre in sequenza le sperimentazioni fonografiche di Marinetti e Dubuffet, di Klein e Beuys, e poi di Cage e Curran, Copke e Goldstein, di Warhol e Schifano, di Chia e Rotella.
È intorno a questi progetti che vedono la luce i primi dischi sperimentali di tanti artisti che, sotto il magistero di John Cage e Fluxus, interpretavano il disco come partitura grafica, ricettacolo di musica elettroacustica, action music, vocalità estrema, happening o spiazzante evento sonoro.
Oppure si pensi all’attitudine sfacciatamente arty di etichette discografiche come la Al.Sa e la Bla Bla (prima) e la Cramps (poi), fondate sempre negli anni Settanta da Sergio Albergoni e Gianni Sassi con l’obiettivo di creare intorno alla comunicazione del disco un fertilissimo territorio di sperimentazione linguistica, con riferimenti all’arte d’avanguardia e al situazionismo, rimodellati con carattere provocatorio in una proiezione di mercato politicamente “antagonista”. È intorno a questi progetti che vedono la luce i primi dischi sperimentali di Battiato e che si raccolgono in seguito esperienze decisive come quelle di Demetrio Stratos e di tanti artisti che, sotto il magistero di John Cage e Fluxus, interpretavano il disco come partitura grafica, ricettacolo di musica elettroacustica, action music, vocalità estrema, happening o spiazzante evento sonoro. O ancora, è doveroso citare, tra gli anni Settanta e Ottanta, le mitiche collane Radiotaxi per le Edizioni Lotta Poetica di Studio Morra, con opere, tra gli altri, di Sarenco, Chopin, Jori e Nitsch; o la 3ViTre, specializzata in poesia sonora, con interventi di Minarelli o Lora Totino.
Una costellazione complessa di riferimenti, che per Xing agisce come laboratorio immaginifico e ponte storico a servizio però di una scena attualissima del presente. Il disco diviene per questi artisti un vero e proprio “ambiente” performativo. Una dinamica che non si risolve né nella musica, né nella centralità della parola, ma piuttosto nell’eccesso e superamento di entrambe, in un orizzonte generato dell’uso del corpo nello spazio della relazione, che il disco cattura e trasforma in qualcosa di assolutamente originale. In alcuni contesti di approfondimento teorico (su tutti, i contributi del pur controverso studioso americano Philip Auslander) si è parlato, a questo proposito, di expanded o extended performance. Cioè l’attitudine inscritta in alcune pratiche artistiche a generare drammaturgie del tempo, del corpo e della percezione in grado di depositarsi in un continuum performativo che oltrepassa l’evento della liveness, oggettivandosi, per esempio, in un vinile o una video installazione. Processo che però non esisterebbe se non fosse comunque legato a condizioni immersive di embodiment che rifiutano il tradizionale rapporto unidirezionale tra pubblico e scena, spostando così il confine della spettatorialità.
Detriti punk, noise e hardcore si fanno tramite di una scena vissuta come relitto. Il flusso sonico, digitalmente manipolato, aggredisce fisicamente chi ascolta in un vortice inarrestabile di intensità. La parola produce calembour, nonsense, grana pulviscolare di suono, oppure si azzera.
Esattamente questa capacità anfibia e transmediale degli artisti ha guidato il criterio curatoriale della collana. Venticinque uscite in tutto, per altrettanti capitoli che alimentano la messa a fuoco di una scena contemporanea delle live arts, eterogenea e al contempo solidale alla sensibilità di Xing. Senza cadere nella retorica di una sterile elencazione delle tredici uscite finora disponibili e senza attardarci sui singoli episodi di questa straordinaria iniziativa, basti dire che si trovano, tra gli altri, lavori di Kinkaleri con Jacopo Benassi, Marcello Maloberti insieme a Lydia Mancinelli (la “musa” di Carmelo Bene); e ancora Romeo Castellucci e Scott Gibbons, Mette e Iben Edvardsen, Mattin, con le ultime uscite al momento di Muna Mussie/Massimo Carozzi e Alessandro Bosetti. Ma altri ancora sono annunciati di Cesare Pietroiusti, Nico Vascellari, Silvia Costa/Claudio Rocchetti, Zapruder, Riccardo Benassi.
In alcuni casi, detriti punk, noise e hardcore si fanno tramite di una scena vissuta come relitto; mentre in altri, il flusso sonico, digitalmente manipolato, aggredisce fisicamente chi ascolta in un vortice inarrestabile di intensità. La parola, quando è presente, produce calembour, nonsense, grana pulviscolare di suono, anche ironica; oppure si azzera, per lasciare campo libero a sospensioni interrotte da ambienti sonori rarefatti, da frantumi glitch, da apparenti errori, meccanici o informatici, che si impongono all’attenzione dell’udito come graffi, ronzii e scorie. E ancora voci, rumori, canti, fischi, accenni armonici, fonemi. Musica, insomma, ma anche Non-Music, secondo la tassonomia proposta da Discogs, che da quasi 25 anni traccia in profondità e nel dettaglio pressoché qualsiasi pubblicazione del presente e del passato.
L’ascolto, come abbiamo detto, non esaurisce l’esperienza del disco, e tanto meno di questi dischi. I loro artwork, insieme alla gestualità indotta dalla materialità dell’oggetto e alla ritualità che esso convoca, coinvolgono nella progettazione e realizzazione performer, fotografi, designer, curatori. Ecco che allora si fa chiara anche la scelta, perpetuata in ogni uscita della collezione Xong, di un vinile rigorosamente bianco, “travestito” da tante ipotetiche pagine quanti sono gli artisti protagonisti. Quasi a ostentare, in questo elegante aplomb cromatico, la siderale distanza dall’attuale mercato ufficiale del disco, che propina arlecchinate dai nomi indicibili: splatter pink, translucent banana, bloody marble, e via così.
La collana Xong si fa interprete di inesauribile equilibrismo, nel suo essere al contempo oggetto d’arte esclusivo e bene pop di consumo.
Trovate che risalgono agli albori della storia del vinile. Fu infatti la RCA, nel lontano 1949, a stampare per prima dei 45 giri colorati per distinguersi dalla concorrenza. Il pop era nero, il musical blu, la classica rossa, il country (ovviamente) verde, il rhythm and blues ciliegia, la musica per bambini gialla, i titoli stranieri ciano. Un espediente alle volte ripreso e ribaltato in efficacia concettuale da artisti come Jack Goldstein, che nel 1976 realizza una serie di dischi i cui colori del vinile corrispondono e riflettono la dimensione sonora ad essi associata (il rosso per il suono di una foresta che brucia, il blu per quello di una nuotata marina, ecc.), integrando la manifestazione visiva a quella sonora.
La collana Xong si fa interprete di questo inesauribile equilibrismo, nel suo essere al contempo oggetto d’arte esclusivo (a tiratura limitata di 150 copie per ogni uscita, di cui 30 griffate, distribuite principalmente attraverso Soundohm e la rivista Flash Art), e bene pop di consumo (per la natura stessa del disco come espressione dell’industria culturale). D’altronde, non fu già la Pop Art a presagire quello che sarebbe accaduto nel rapporto tra arte e cultura di massa? Cioè la tensione dell’arte a un processo di progressiva “democratizzazione”, nella misura in cui si sovrapponeva alla serialità e riproducibilità del prodotto industriale? La cultura pop ci ha dato modo di cogliere l’aspetto sfidante di questo processo, nella sua volontà di rompere le cristallizzazioni del gusto e delle narrazioni contemporanee, mettendo in campo anche un’accessibilità all’arte che fino ad allora non aveva avuto precedenti dopo la rivoluzione industriale. Allora, come alcuni ravvisano, è forse proprio il 1967 di The Velvet Underground con Warhol curatore, di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band di Beatles e Blake, di Dedicato a… di Schifano – tutti maestri della Pop Art – che dobbiamo indicare come l’anno in cui il disco è diventato adulto, anche il disco d’artista.
Celant, ancora lui, in occasione della sua mostra bolognese Vertigo del 2007 ci poneva di fronte al fatto che l’arte del presente fosse diventata un’entità proteiforme, una “vertigine” senza soluzione di continuità di “pitture e fotografie, sculture e film, libri e dischi, musiche e spettacoli, video e architetture, reti e sistemi virtuali”, ovvero “un soggetto multimediale assoluto”. I dischi d’artista, e questa collana in particolare, sono anche lo specchio di tale fluidità di sistema, dove i contorni estetici si fanno sempre più labili, circolando liberamente senza gerarchie e mettendo in crisi qualsiasi visione immobile e separata dell’arte. Senza però mai dimenticare, in questo circuito frastornante, la differenza prodotta dalla natura – se non altro fantasmatica – del corpo.