“S u Marte entro il 1980”: così si potrebbe tradurre il titolo dell’ultimo libro di David Stubbs, Mars By 1980, pubblicato in queste settimane in Inghilterra da Faber & Faber. Slogan che riassume efficacemente la vicenda della musica elettronica, in particolare quella novecentesca: una lunga sequenza di inventori visionari e solitari, di filosofi idealisti, di utopie latenti, di futuri realizzati oppure mai concretizzatisi. Una storia che Stubbs, storica firma del giornalismo musicale britannico, autore qualche anno fa di Future Days, monumentale volume sul rock sperimentale tedesco degli anni Settanta, ripercorre indagando ad ampio raggio, raccontando le innumerevoli declinazioni di una idea che continua, nonostante tutto, a nutrire il nostro immaginario e a farlo progredire. Lo abbiamo intervistato.
Nel tuo libro descrivi la musica elettronica come una specie di spinta utopica che attraversa le epoche, più che un puro e semplice genere musicale favorito dalle innovazioni tecnologiche. Un insieme di idee che a un certo punto, grazie alla tecnologia, si concretizza, ma che ha alle spalle radici antiche.
La storia della musica elettronica è una storia di pionieri, di solitari che in vita venivano considerati dei freak, degli eccentrici e poco più. All’interno di questa comunità eterogenea di isolati pionieri le donne hanno avuto un ruolo fondamentale. Nomi come Daphne Oram e Delia Derbyshire ad esempio, che lavoravano all’interno del leggendario BBC Radiophonic Workshop.
Lavorava in silenzio, senza “minacciare” i maschi e il loro potere, in fondo creava “solamente” degli effetti speciali. E così in punta di piedi, nelle retrovie, senza dare nell’occhio, acquisì all’interno di quel contesto una enorme libertà. Non doveva farsi strada nel mondo del rock, imitando le posture maschili, e aveva una libertà di azione illimitata. Il risultato fu che Delia Derbyshire, già nel 1960, riusciva a fare cose straordinarie. C’è una componente di solitudine, certo, ma c’è anche la possibilità di disporre di una assoluta libertà.
Il BBC Radiophonic Workshop di cui parliamo è stato un esperimento curioso e unico, a metà strada tra l’avanguardia e la musica concreta diciamo, e il mainstream radiofonico e televisivo. Improvvisamente suoni strani e alieni filtravano nella quotidianità delle famiglie britanniche. All’epoca venivano considerati un semplice sottofondo, musica incidentale, ma influenzarono in qualche modo chi era all’ascolto, tra cui molti futuri sperimentatori elettronici. Una esposizione che ha prodotto idee e immaginari…
Quello fu sicuramente il primo pezzo di musica elettronica che ascoltai, ma all’epoca ovviamente non me ne resi conto. Era strano, weird, ma allo stesso tempo curiosamente familiare. Tieni presente che molte musiche del BBC Radiophonic Workshop venivano utilizzate nei programmi per bambini, quei suoni fornirono a molti una sorta di “preparazione mentale” all’ascolto di un certo tipo di musica elettronica, dagli anni Sessanta in poi. Ripensandoci oggi la cosa è vagamente sconcertante, ma in qualche misura ha aperto la strada a molto di ciò che è venuto dopo.
Nei primi capitoli parli del futurismo, in particolare di Luigi Russolo e dei suoi “intonarumori”. L’aspetto interessante non è tanto quello musicale in senso stretto, Russolo non ha composto nulla di significativo, lo è invece il fatto che i nuovi suoni, secondo Russolo, avrebbero dovuto esprimere la modernità senza imitarla. Dovevano creare un nuovo linguaggio, un vocabolario inedito. Quando molti anni dopo i primi sintetizzatori creati da Robert Moog furono introdotti nella musica pop la loro funzione era spesso quella di imitare gli strumenti tradizionali…
Esatto. Insomma, i futuristi, all’alba del ventesimo secolo, erano già molto più avanti, pensavano a strumenti in grado di veicolare nuove potenzialità espressive. Un po’ come l’arte astratta che, con l’avvento della fotografia, aveva “soppiantato” la pittura realistica.
La musica non è più solamente qualcosa che piove dall’alto, emanazione del genio del compositore, ma qualsiasi cosa, letteralmente, può essere musica. Crollano i muri tra arte e vita, come dicevamo, e questa idea si rafforza ulteriormente con l’invenzione del nastro magnetico, e le sue applicazioni nell’ambito della musica concreta, realizzata utilizzando suoni preesistenti. Passa anche il concetto che la musica non deve essere esclusivamente composizione, ma può essere anche suono organizzato, assemblato e scolpito… una nuova fantastica modalità creativa.
In un certo senso i personaggi chiave del libro sono i Kraftwerk. Gli unici capaci di traghettare la tradizione dell’avanguardia nella popular music, essendo oltretutto enormemente influenti, tanto che spesso li si descrive come l’unico esempio di gruppo bianco ad aver influenzato la musica nera e non il contrario.
E ovviamente, come accadde anche agli altri gruppi del cosiddetto krautrock, c’è questa spinta ad allontanarsi dalla tradizione blues rock anglo-americana, una musica che veniva percepita come diretta emanazione delle forze di occupazione alleate nella Germania del dopoguerra. In quanto tedeschi costoro si sentivano in dovere di inventare nuove forme, nuovi modi di fare musica. Ognuno di questi gruppi, Can, Faust, Neu!, Tangerine Dream cercava di fare la stessa cosa, ma i Kraftwerk lo fecero nel modo più metodico e più puramente elettronico. Inoltre facevano del pop: questo aspetto consentì loro di gettare le fondamenta di generi come il synth pop, ma anche di molta musica nera successiva, dalla techno all’hip hop. Mi spingerei a dire che, dopo i Beatles, sono stati il gruppo più importante di sempre.
La musica elettronica patisce il pregiudizio di essere fredda, glaciale, una roba per bianchi che non amano divertirsi insomma, mentre tu indaghi pure il lato “black” di questa storia, da Stevie Wonder alla techno. La musica elettronica, in quel particolare contesto culturale, assume anche un valore politico, una funzione liberatoria.
L’aspetto politico e liberatorio c’è anche ai tempi del synth pop. Si abbattono certe barriere, i confini tra i generi, maschile e femminile, si attenuano, ci si oppone al machismo del rock. Una liberazione che è anche strettamente musicale, dopo che il punk spazza via le ingombranti sovrastrutture del rock da stadio degli anni Settanta. Sul palco bastano un cantante e un tastierista che aziona una drum machine.
La musica elettronica ha anche un lato ballabile, ovviamente. Nel libro parli di disco music, di Donna Summer, Giorgio Moroder e la loro Love To Love You Baby, che rappresenta un momento chiave, ma è verso la fine degli anni Ottanta, con l’acid house e i rave, che si compie un ulteriore passo. L’esecutore, il DJ, non è più al centro dell’attenzione, lo è il pubblico. E la musica assume nuovamente un carattere idealista, utopico, collettivo, per certi versi quasi spirituale, con l’ecstasy a fare da da catalizzatore. Quasi un ritorno alla dimensione collettiva dell’Era dell’Acquario. Un momento che poi si esaurisce velocemente, sotto i colpi della legislazione repressiva del governo britannico.
Nel 1992 in Inghilterra, a Castlemorton, si tiene il più grande rave illegale di sempre, con tanto di problemi di ordine pubblico e strascichi che porteranno, appunto, a leggi repressive per arginare il fenomeno. È in quel momento, secondo te, che la musica, forse non solo la dance, perde definitivamente la sua carica sovversiva, antiautoritaria.
Ad un certo punto parli di quella che potremmo chiamare decay music, musica del decadimento, della decomposizione. L’idea, partendo anche dalle intuizioni ambient di Eno, è quella di una musica che racconti il “dopo”, l’ultimo bagliore, il tramonto, la disintegrazione. Una attitudine ben incarnata dai Disintegration Loops di William Basinski (frammenti di musica preregistrata che, durante la digitalizzazione, a ogni passaggio sulla testina del registratore magnetico, si deteriorano, processo catturato in tempo reale). Una metafora della scomparsa del futuro dall’orizzonte, in un tempo in cui si parla di fine della Storia. Una ultima radiazione che si riverbera svanendo a poco a poco. Quel che resta è una musica bellissima, malinconica, eterea, che sembra documentare l’estinzione, il lento spegnersi di un mondo…
Provoca quel genere di piacere che produce la malinconia, l’assistere al tramontare di qualcosa, un movimento che contiene in sé una componente di giubilo, di esultanza. Il mio libro, da un certo punto di vista, è un lamento per il secolo ventesimo. Anche perché il ventunesimo secolo ha, almeno fino ad ora, caratteristiche molto diverse. In questa musica che “decade”, in questa disintegrazione, si nasconde, in fondo, una sorta di progresso, perché da questi microframmenti, da questi nuovi mondi che si vengono a creare a livello atomico, nascono nuovi modi di fare le cose. Le narrazioni che appartengono a forme musicali come rock, classica e jazz, anche se potranno ancora esserci dei grandissimi dischi all’interno dei rispettivi canoni, sono finite, esaurite, mentre credo che la musica elettronica continuerà ad avere un futuro. Anche la musica pop ormai sembra un genere estinto, i giornali musicali chiudono, Top Of The Pops non esiste più.
C’è una sensazione dolceamara di fondo, ascoltando questa musica. Prendiamo The Sinking Of Titanic di Gavin Bryars, un pezzo che ascolto spesso. Da un lato il tema è quello del collasso di ogni certezza, l’affondamento del Titanic come metafora di un mondo che finisce, dall’altra c’è una musica che non muore mai del tutto, che echeggia per sempre in un infinito riverbero, e questo eco assume quasi vita propria, come se fosse un organismo vivente.
Nel libro si parla di passato, di nostalgia, di tensione verso il futuro ma anche di futuri immaginati e mai realizzatisi. Negli ultimi anni si parla spesso di hauntology, un “genere” ampio e dai confini non del tutto definiti caratterizzato dalla “nostalgia per i futuri passati”, dalla creazione di un mondo sonoro al contempo familiare e sconcertante, fuor di sesto.
Un po’ come nel caso della decay music, che suggerisce nel suo lentissimo e quasi impercettibile spegnersi l’eterna permanenza di un suono, la sua immortalità. Insomma, il concetto è che, tutto sommato, se la prima volta non ha funzionato magari andrà meglio la seconda. Forse è possibile avere un’altra chance, risvegliare uno spirito dormiente ma mai del tutto estinto. Esistono così tanti futuri potenziali che, è legittimo pensarlo, magari una parte di essi riuscirà a concretizzarsi davvero.
In qualche modo lamenti, oggi, un conformismo nell’uso dell’elettronica in ambito mainstream, nonostante a livello individuale e nelle rispettive nicchie ci siano molti artisti che sperimentano con estrema originalità. Insomma, sulla superficie visibile della musica di oggi tira un po’ un’aria di reazione. Alla fine del libro emerge la speranza che, nonostante tutto, la forza latente di cui si parlava possa ancora una volta venire fuori. La musica elettronica ha rivoluzionato le nostre abitudini, la nostra percezione del suono, il nostro immaginario, e il suo potenziale rivoluzionario, di rottura, attualmente dormiente, potrebbe prima o poi risvegliarsi.
È una tendenza positiva, perché a volte si ha davvero l’impressione, parlo soprattutto dei giovanissimi, che nella cultura pop ormai tutto sia non più vecchio di dieci minuti, e che questo ci abbia fatto smarrire il senso della Storia. Qualsiasi cosa possa ricordare alle persone che cosa è stato il ventesimo secolo – ad esempio a mia figlia, che ha 14 anni e ne ha solo una vaga idea – mi sembra apprezzabile.