“S
u Marte entro il 1980”: così si potrebbe tradurre il titolo dell’ultimo libro di David Stubbs, Mars By 1980, pubblicato in queste settimane in Inghilterra da Faber & Faber. Slogan che riassume efficacemente la vicenda della musica elettronica, in particolare quella novecentesca: una lunga sequenza di inventori visionari e solitari, di filosofi idealisti, di utopie latenti, di futuri realizzati oppure mai concretizzatisi. Una storia che Stubbs, storica firma del giornalismo musicale britannico, autore qualche anno fa di Future Days, monumentale volume sul rock sperimentale tedesco degli anni Settanta, ripercorre indagando ad ampio raggio, raccontando le innumerevoli declinazioni di una idea che continua, nonostante tutto, a nutrire il nostro immaginario e a farlo progredire. Lo abbiamo intervistato.
Nel tuo libro descrivi la musica elettronica come una specie di spinta utopica che attraversa le epoche, più che un puro e semplice genere musicale favorito dalle innovazioni tecnologiche. Un insieme di idee che a un certo punto, grazie alla tecnologia, si concretizza, ma che ha alle spalle radici antiche.
In un certo senso è così, anche se il nostro è chiaramente il punto di vista del futuro. Però prendi uno come Edgard Varèse, in lui c’è l’idea che il nuovo secolo avrebbe portato con sé una nuova musica, in grado di liberare energie latenti. L’insorgere di nuove tecnologie e l’elettrificazione del mondo non potevano non catturare l’immaginazione degli artisti. Prendi anche Karlheinz Stockhausen, come Varèse anche lui non concepiva l’idea di starsene fermo. L’umanità sarebbe riuscita a superare i propri limiti, avrebbe volato, avrebbe viaggiato nello spazio, il progresso avrebbe generato anche eventi terribili ma ogni elemento faceva parte di un più ampio processo evolutivo. E la musica avrebbe riflesso tutto questo, avrebbe abbattuto le barriere, fatto piazza pulita degli stili e generi del diciannovesimo secolo. Anche le barriere tra arte e vita sarebbero crollate. Varèse e Stockhausen nutrivano queste enormi speranze, e anche i pochi che li ascoltavano.
La storia della musica elettronica è una storia di pionieri, di solitari che in vita venivano considerati dei freak, degli eccentrici e poco più. All’interno di questa comunità eterogenea di isolati pionieri le donne hanno avuto un ruolo fondamentale. Nomi come Daphne Oram e Delia Derbyshire ad esempio, che lavoravano all’interno del leggendario BBC Radiophonic Workshop.
L’aspetto “solitario”, l’isolamento, credo siano decisivi. Portare avanti un certo tipo di visione e realizzarla significa anche avere una enorme forza di volontà, un carattere molto forte che ti permetta di non mollare, non potendo contare su alcun tipo di incoraggiamento, magari attendendo per anni la costruzione dello strumento musicale che hai progettato. Nel caso di Daphne Oram ci sono entrambe le componenti di cui parli. Costei ha avuto delle opportunità che non avrebbe mai potuto avere, per dire, nel mondo del rock. Daphne Oram tagliava e assemblava nastri, il suo lavoro all’epoca veniva considerato alla stregua di una attività tradizionalmente femminile come poteva essere un lavoro di sartoria.
Lavorava in silenzio, senza “minacciare” i maschi e il loro potere, in fondo creava “solamente” degli effetti speciali. E così in punta di piedi, nelle retrovie, senza dare nell’occhio, acquisì all’interno di quel contesto una enorme libertà. Non doveva farsi strada nel mondo del rock, imitando le posture maschili, e aveva una libertà di azione illimitata. Il risultato fu che Delia Derbyshire, già nel 1960, riusciva a fare cose straordinarie. C’è una componente di solitudine, certo, ma c’è anche la possibilità di disporre di una assoluta libertà.
Il BBC Radiophonic Workshop di cui parliamo è stato un esperimento curioso e unico, a metà strada tra l’avanguardia e la musica concreta diciamo, e il mainstream radiofonico e televisivo. Improvvisamente suoni strani e alieni filtravano nella quotidianità delle famiglie britanniche. All’epoca venivano considerati un semplice sottofondo, musica incidentale, ma influenzarono in qualche modo chi era all’ascolto, tra cui molti futuri sperimentatori elettronici. Una esposizione che ha prodotto idee e immaginari…
Mi viene in mente un altro esempio di influenza “subliminale”, i 7 secondi di
Indicatif Roissy di Bernard Parmegiani utilizzati per gli annunci all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi tra il 1971 e il 2005, probabilmente il pezzo di
musique concrète più ascoltato di sempre! Io da bambino vedevo
Dr. Who e non c’era il nome di Delia Derbyshire nei titoli di coda, per questo motivo, devo ammetterlo, scoprii della sua esistenza solo quando morì, all’inizio degli anni Duemila.
Quello fu sicuramente il primo pezzo di musica elettronica che ascoltai, ma all’epoca ovviamente non me ne resi conto. Era strano, weird, ma allo stesso tempo curiosamente familiare. Tieni presente che molte musiche del BBC Radiophonic Workshop venivano utilizzate nei programmi per bambini, quei suoni fornirono a molti una sorta di “preparazione mentale” all’ascolto di un certo tipo di musica elettronica, dagli anni Sessanta in poi. Ripensandoci oggi la cosa è vagamente sconcertante, ma in qualche misura ha aperto la strada a molto di ciò che è venuto dopo.
Nei primi capitoli parli del futurismo, in particolare di Luigi Russolo e dei suoi “intonarumori”. L’aspetto interessante non è tanto quello musicale in senso stretto, Russolo non ha composto nulla di significativo, lo è invece il fatto che i nuovi suoni, secondo Russolo, avrebbero dovuto esprimere la modernità senza imitarla. Dovevano creare un nuovo linguaggio, un vocabolario inedito. Quando molti anni dopo i primi sintetizzatori creati da Robert Moog furono introdotti nella musica pop la loro funzione era spesso quella di imitare gli strumenti tradizionali…
Come in Switched On Bach di Walter Carlos…
Esatto. Insomma, i futuristi, all’alba del ventesimo secolo, erano già molto più avanti, pensavano a strumenti in grado di veicolare nuove potenzialità espressive. Un po’ come l’arte astratta che, con l’avvento della fotografia, aveva “soppiantato” la pittura realistica.
I futuristi cercarono di fare qualcosa di simile, solo che non riuscirono a tenere il passo dell’arte figurativa astratta, non avevano gli strumenti per produrre ciò che avevano in mente, non potevano fare a meno dei tradizionali strumenti acustici. Le poche registrazioni degli “intonarumori” arrivate fino a noi oggi fanno sorridere, i suoni sono deboli, scricchiolanti. L’idea alla base però è fantastica. Il manifesto di Russolo,
L’arte dei rumori, ha avuto una profonda influenza. Niente più arte lassù e vita quotidiana quaggiù, anche i rumori della quotidianità diventano arte.
La musica non è più solamente qualcosa che piove dall’alto, emanazione del genio del compositore, ma qualsiasi cosa, letteralmente, può essere musica. Crollano i muri tra arte e vita, come dicevamo, e questa idea si rafforza ulteriormente con l’invenzione del nastro magnetico, e le sue applicazioni nell’ambito della musica concreta, realizzata utilizzando suoni preesistenti. Passa anche il concetto che la musica non deve essere esclusivamente composizione, ma può essere anche suono organizzato, assemblato e scolpito… una nuova fantastica modalità creativa.
In un certo senso i personaggi chiave del libro sono i Kraftwerk. Gli unici capaci di traghettare la tradizione dell’avanguardia nella popular music, essendo oltretutto enormemente influenti, tanto che spesso li si descrive come l’unico esempio di gruppo bianco ad aver influenzato la musica nera e non il contrario.
Assolutamente sì, sono il punto di contatto tra la tradizione della musica concreta, quella di Stockhausen e dell’avanguardia di metà Novecento e, come dici tu, il pop e la dance. Inoltre riprendevano le idee della scuola Bauhaus, il cui obiettivo era assegnare all’arte una funzionalità nel quotidiano. È interessante notare come la Bauhaus fosse stata chiusa da Hitler nel 1933 – Hitler ce l’aveva a morte con l’arte moderna. I Kraftwerk riprendevano le fila di qualcosa che si era sviluppato in Germania prima del nazismo, una scelta assai significativa, soprattutto se sei tedesco.
E ovviamente, come accadde anche agli altri gruppi del cosiddetto krautrock, c’è questa spinta ad allontanarsi dalla tradizione blues rock anglo-americana, una musica che veniva percepita come diretta emanazione delle forze di occupazione alleate nella Germania del dopoguerra. In quanto tedeschi costoro si sentivano in dovere di inventare nuove forme, nuovi modi di fare musica. Ognuno di questi gruppi, Can, Faust, Neu!, Tangerine Dream cercava di fare la stessa cosa, ma i Kraftwerk lo fecero nel modo più metodico e più puramente elettronico. Inoltre facevano del pop: questo aspetto consentì loro di gettare le fondamenta di generi come il synth pop, ma anche di molta musica nera successiva, dalla techno all’hip hop. Mi spingerei a dire che, dopo i Beatles, sono stati il gruppo più importante di sempre.
La musica elettronica patisce il pregiudizio di essere fredda, glaciale, una roba per bianchi che non amano divertirsi insomma, mentre tu indaghi pure il lato “black” di questa storia, da Stevie Wonder alla techno. La musica elettronica, in quel particolare contesto culturale, assume anche un valore politico, una funzione liberatoria.
Particolarmente interessante è la suggestione futuristica legata a molta musica nera. Prendiamo il caso di Detroit e della nascita della techno: negli anni Ottanta, ad un certo punto, c’è questa comunità di musicisti affascinata dal futuro, mentre i bianchi, conservatori, guardano con nostalgia agli anni Cinquanta e Sessanta: per la comunità nera quelli sono anni di lotte disperate contro la diseguaglianza, di linciaggi, di scontri. Ecco perché il futuro ha un appeal inevitabile. E poi parlo di Stevie Wonder; lui ha smentito l’idea che la musica elettronica fosse per forza di cose fredda, senz’anima, metallica, mostrandone invece il lato gioioso, sexy.
L’aspetto politico e liberatorio c’è anche ai tempi del synth pop. Si abbattono certe barriere, i confini tra i generi, maschile e femminile, si attenuano, ci si oppone al machismo del rock. Una liberazione che è anche strettamente musicale, dopo che il punk spazza via le ingombranti sovrastrutture del rock da stadio degli anni Settanta. Sul palco bastano un cantante e un tastierista che aziona una drum machine.
È vero, molta musica elettronica è neutra dal punto di vista del genere, e questo emerge con particolare forza in un momento in cui il rock con le chitarre, il rock fallico, è ancora dominante. A fine anni Sessanta, ai tempi della prima diffusione del Moog, sarebbe stato impossibile questo cambio di paradigma: si trattava di uno strumento costosissimo, una bizzarria, una curiosità. Io credo siano stati ancora una volta i Kraftwerk ad avere un ruolo fondamentale in tutto ciò: erano anti-macho, si opponevano alla tradizione rock testosteronica. Al principio degli anni Ottanta i sintetizzatori sono improvvisamente alla portata di chiunque, ed è proprio lì che la dominazione machista del rock declina. Anzi, viene proprio sconfitta.
La musica elettronica ha anche un lato ballabile, ovviamente. Nel libro parli di disco music, di Donna Summer, Giorgio Moroder e la loro Love To Love You Baby, che rappresenta un momento chiave, ma è verso la fine degli anni Ottanta, con l’acid house e i rave, che si compie un ulteriore passo. L’esecutore, il DJ, non è più al centro dell’attenzione, lo è il pubblico. E la musica assume nuovamente un carattere idealista, utopico, collettivo, per certi versi quasi spirituale, con l’ecstasy a fare da da catalizzatore. Quasi un ritorno alla dimensione collettiva dell’Era dell’Acquario. Un momento che poi si esaurisce velocemente, sotto i colpi della legislazione repressiva del governo britannico.
Proprio in quegli anni Kevin Godley dei 10CC mi disse che secondo lui la musica, negli anni Settanta, soprattutto dopo l’avvento del punk, era diventata un fenomeno urbano, mentre alla fine degli anni Sessanta si era venuta a creare una situazione opposta, ci si spostava in campagna, all’aperto. Con l’urbanizzazione tutto era ridiventato più tribale, frammentato, fratturato, localizzato. Ad un certo punto la gente voleva ritornare a stare insieme, all’aperto, non più al chiuso in un club. Rispetto agli anni Sessanta cambiava la percezione del tempo, non si ascoltava gente che faceva assoli di chitarra per 40 minuti, ma si viveva qui e ora, l’attimo, il beat. E quello che fa il DJ è aperto, indefinito, illimitato, diffuso, non implica la presenza di eroi, di star. In realtà questa dimensione indefinita riguarda anche la musica ambient. E infatti all’epoca dischi di Brian Eno come Music For Films e Music For Airport, usciti intorno alla metà degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta poco considerati, conobbero una nuova popolarità.
Nel 1992 in Inghilterra, a Castlemorton, si tiene il più grande rave illegale di sempre, con tanto di problemi di ordine pubblico e strascichi che porteranno, appunto, a leggi repressive per arginare il fenomeno. È in quel momento, secondo te, che la musica, forse non solo la dance, perde definitivamente la sua carica sovversiva, antiautoritaria.
È l’ultima volta in cui musica e governo entrano apertamente in conflitto; ci sarà poi una legge assurda che colpirà tutti i raduni caratterizzati dall’esecuzione di musica dal ritmo ripetitivo. Dopo quell’evento nell’ambito dell’elettronica da ballo è diventato tutto più legittimo, più ordinario, meno marginale. Ora ci sono le star, personaggi come Daft Punk e Deadmau5, anche se c’è un aspetto curioso: già questi due esempi non manifestano il loro ego, sono mascherati, indossano dei caschi… una stardom che riguarda personaggi non immediatamente riconoscibili.
Ad un certo punto parli di quella che potremmo chiamare decay music, musica del decadimento, della decomposizione. L’idea, partendo anche dalle intuizioni ambient di Eno, è quella di una musica che racconti il “dopo”, l’ultimo bagliore, il tramonto, la disintegrazione. Una attitudine ben incarnata dai Disintegration Loops di William Basinski (frammenti di musica preregistrata che, durante la digitalizzazione, a ogni passaggio sulla testina del registratore magnetico, si deteriorano, processo catturato in tempo reale). Una metafora della scomparsa del futuro dall’orizzonte, in un tempo in cui si parla di fine della Storia. Una ultima radiazione che si riverbera svanendo a poco a poco. Quel che resta è una musica bellissima, malinconica, eterea, che sembra documentare l’estinzione, il lento spegnersi di un mondo…
Be’, pensa pensa a Burial, la sua musica è una specie di elegia, il racconto di una dimensione post rave, di un passato che non torna più. C’è ovviamente questo elemento di tristezza, e l’idea dei
Disintegration Loops è naturalmente rafforzata dal simbolismo dell’11 settembre, cui è dedicata l’opera, il collassare di edifici costruiti nel ventesimo secolo e percepiti nell’immaginario collettivo come qualcosa che sarebbe esistito per sempre… Ma è il concetto di riverbero che trovo particolarmente affascinante.
Provoca quel genere di piacere che produce la malinconia, l’assistere al tramontare di qualcosa, un movimento che contiene in sé una componente di giubilo, di esultanza. Il mio libro, da un certo punto di vista, è un lamento per il secolo ventesimo. Anche perché il ventunesimo secolo ha, almeno fino ad ora, caratteristiche molto diverse. In questa musica che “decade”, in questa disintegrazione, si nasconde, in fondo, una sorta di progresso, perché da questi microframmenti, da questi nuovi mondi che si vengono a creare a livello atomico, nascono nuovi modi di fare le cose. Le narrazioni che appartengono a forme musicali come rock, classica e jazz, anche se potranno ancora esserci dei grandissimi dischi all’interno dei rispettivi canoni, sono finite, esaurite, mentre credo che la musica elettronica continuerà ad avere un futuro. Anche la musica pop ormai sembra un genere estinto, i giornali musicali chiudono, Top Of The Pops non esiste più.
C’è una sensazione dolceamara di fondo, ascoltando questa musica. Prendiamo The Sinking Of Titanic di Gavin Bryars, un pezzo che ascolto spesso. Da un lato il tema è quello del collasso di ogni certezza, l’affondamento del Titanic come metafora di un mondo che finisce, dall’altra c’è una musica che non muore mai del tutto, che echeggia per sempre in un infinito riverbero, e questo eco assume quasi vita propria, come se fosse un organismo vivente.
Nel libro si parla di passato, di nostalgia, di tensione verso il futuro ma anche di futuri immaginati e mai realizzatisi. Negli ultimi anni si parla spesso di hauntology, un “genere” ampio e dai confini non del tutto definiti caratterizzato dalla “nostalgia per i futuri passati”, dalla creazione di un mondo sonoro al contempo familiare e sconcertante, fuor di sesto.
Dal mio punto di vista, quello del mio vissuto, della mia età, del luogo in cui sono cresciuto, associo la cosiddetta
hauntology alle trasmissioni di pubblica utilità degli anni Settanta, al loro utilizzo di sintetizzatori analogici, alla mia infanzia e a una società pre Margaret Thatcher, in cui lo stato aveva una funzione protettiva, ti accudiva. E poi, ovviamente, a futuri perduti, a un idealismo collettivo che a un certo punto, verso la fine del ventesimo secolo, è andato perduto, si è dissolto. In questi artisti, tuttavia, c’è anche un po’ l’idea che questo spirito possa prima o poi risorgere.
Un po’ come nel caso della decay music, che suggerisce nel suo lentissimo e quasi impercettibile spegnersi l’eterna permanenza di un suono, la sua immortalità. Insomma, il concetto è che, tutto sommato, se la prima volta non ha funzionato magari andrà meglio la seconda. Forse è possibile avere un’altra chance, risvegliare uno spirito dormiente ma mai del tutto estinto. Esistono così tanti futuri potenziali che, è legittimo pensarlo, magari una parte di essi riuscirà a concretizzarsi davvero.
In qualche modo lamenti, oggi, un conformismo nell’uso dell’elettronica in ambito mainstream, nonostante a livello individuale e nelle rispettive nicchie ci siano molti artisti che sperimentano con estrema originalità. Insomma, sulla superficie visibile della musica di oggi tira un po’ un’aria di reazione. Alla fine del libro emerge la speranza che, nonostante tutto, la forza latente di cui si parlava possa ancora una volta venire fuori. La musica elettronica ha rivoluzionato le nostre abitudini, la nostra percezione del suono, il nostro immaginario, e il suo potenziale rivoluzionario, di rottura, attualmente dormiente, potrebbe prima o poi risvegliarsi.
Io credo che i musicisti elettronici di ultima generazione stiano abbandonando il pilota automatico, la prevedibilità, che stiano tornando a controllare un po’ di più la musica, i processi, gli strumenti, perché il rischio, ad un certo punto, è di diventare troppo digitali, troppo freddi e distanti, impersonali. Fortunatamente si stanno tornando a utilizzare procedimenti e suoni analogici, e a questo si lega all’idea di investigare nuovamente il passato con i mezzi di oggi.
È una tendenza positiva, perché a volte si ha davvero l’impressione, parlo soprattutto dei giovanissimi, che nella cultura pop ormai tutto sia non più vecchio di dieci minuti, e che questo ci abbia fatto smarrire il senso della Storia. Qualsiasi cosa possa ricordare alle persone che cosa è stato il ventesimo secolo – ad esempio a mia figlia, che ha 14 anni e ne ha solo una vaga idea – mi sembra apprezzabile.