N egli anni Sessanta del secolo scorso, il critico Michael Fried, sostenitore del modernismo pittorico americano, poneva l’esperienza teatrale e quella dell’arte pittorica su una scala valoriale dove le due forme occupavano gli estremi, contraddicendosi vicendevolmente. Nel suo saggio Arte e oggettualità prendeva espressamente posizione contro la “teatralità”, intendendo con questo termine una nuova modalità di fruizione dell’opera d’arte che contraddiceva la pura contemplazione estetica dell’oggetto, in favore di percezioni che avevano più a che fare con la performance, oppure con percorsi spazializzati da attraversare, puntando per esempio sul concetto di durata e attraversamento. Tutto questo, secondo Fried, contraddiceva la natura oggettuale e quasi iperuranica dell’opera d’arte. Il paradosso di questa posizione – o forse la sua ragione più intima – è che l’autore lo sviluppò nel momento di acme di fenomeni come la performing art o l’action painting che sembravano decisamente spostare il baricentro del gesto artistico dall’oggetto all’azione, dalla contemplazione all’esperienza. In realtà l’opera d’arte, a causa della sua riproducibilità tecnica, aveva già perso l’aura di cui parlava Walter Benjamin nel suo celebre scritto del 1936; tuttavia, un ulteriore tassello stava innescando una mutazione nel modo in cui concepiamo le opere d’arte e, ovviamente, i musei che le custodiscono, ed è il compimento della società di massa, globalizzata e scolarizzata.
L’intreccio di tutti questi fattori ha portato le società occidentali, in questi primi decenni del nuovo millennio, a interrogarsi costantemente sul soggetto che forse era rimasto maggiormente in un cono d’ombra nel dibattito novecentesco sull’opera e sull’artista, ovvero: il pubblico. L’utente dei musei e delle mostre, per dirla con un linguaggio attuale e niente affatto neutro. Ora, è facile immaginare quanto questa rinnovata centralità del pubblico possa aver suscitato, nel tempo, pareri contrastanti. Da un lato c’è il timore che a un allargamento dell’utenza tutto spostato sui numeri faccia seguito un’eccessiva mercificazione dell’arte; dall’altro c’è il fascino per le possibilità aperte da un processo di democratizzazione nell’accesso all’arte. Nel mezzo, un rapporto di fruizione che sta mutando forma.
E così se oggi Tomaso Montanari e Vincenzo Trione lanciano il loro appello Contro le mostre (Einaudi, 2017), e cioè contro quello che in gergo giornalistico è stato ribattezzato il “mostrificio”, e cioè quell’insieme di iniziative “di cassetta, culturalmente irrilevanti e pericolose per le opere”, bisogna rilevare come già Fruttero e Lucentini in La prevalenza del cretino (Mondadori, 1985), con meno specificità nei problemi del settore ma con la grazia che contraddistingue la loro scrittura, rilevavano la composizione intimamente elitaria del concetto di contemplazione:
Mille turisti in un chiostro significano in pratica l’annullamento del chiostro. Cento turisti davanti a un Caravaggio equivalgono alla soppressione del Caravaggio. Perduta è la concentrazione, perduto quel lento approccio contemplativo, quel girare attorno, quell’inclinare la testa. (…) È un test durissimo per chi si crede tollerante, democratico.
D’altra parte non manca chi rileva, come fa Marco D’Eramo in Il selfie del mondo (Feltrinelli, 2017), indagine sul turismo globale – altro fattore cruciale che va a intrecciarsi ai precedenti – che un atteggiamento elitario, rispetto all’accesso all’arte, non farebbe altro che contraddire la natura delle nostre società attuali, rimpiangendo inutilmente ciò che fu. O chi, come l’antropologo Richard Schechner, afferma che alla perdita del sacro nella sfera sociale e artistica corrisponde un peso sempre maggiore della sfera “comportamentale”, dove lo spettatore si sente coinvolto in prima persona. Schechner, che scriveva negli anni Ottanta e aveva come oggetto di indagine la performance – concetto adattabile, nella sua prospettiva di ex avanguardista, tanto al teatro che all’arte – era convinto che questo spostamento non fosse intrinsecamente buono o cattivo: avrebbe potuto spingere verso la creazione di tante Disneyland, seguendo il modello del parco a tema, oppure dare spazio a sperimentazioni in grado di mutare il nostro rapporto con l’opera d’arte. Tutto sarebbe dipeso da chi dirige tali processi.
Volendo scendere dalle questioni di stampo estetico e filosofico a quelle di stampo pratico, chi si trova oggi a dirigere un museo ha spesso a che fare con interrogativi che spaziano in campi simili, e che ruotano attorno alla centralità del visitatore/utente. Chi sono i visitatori? Come percepiscono il museo? Qual è la ricaduta sul territorio delle iniziative messe in campo dai musei? Queste domande sono solo un esempio di questo approccio, che sta diventando centrale nella gestione museale. Per questo tre musei autonomi italiani hanno cercato di sviluppare uno strumento che possa aiutarli a individuare, in modo scientifico, quali sono le aree di intervento su cui concentrarsi per valorizzare le proprie strategie in funzione di un coinvolgimento non passivo dei visitatori. Le tre strutture sono i Musei Reali di Torino, Palazzo Ducale di Mantova e le Gallerie Estensi di Modena, mentre la ricerca è stata condotta dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, con la professoressa Michela Arnaboldi come responsabile scientifico e la ricercatrice Deborah Agostino come coordinatrice del progetto. Si trattava di realizzare un benchmark museale che fornisse dei dati concreti sulle giuste coordinate per tarare gli interventi dei musei in termini di creazione di valore per il territorio. Ma cosa si intende, esattamente, con “creazione di valore”?
Chi si trova oggi a dirigere un museo ha spesso a che fare con interrogativi che ruotano attorno alla centralità del visitatore/utente. Chi sono i visitatori? Come percepiscono il museo?
Secondo Deborah Agostino, il museo genera valore nel momento in cui si apre all’esterno, fornendo ai visitatori reali e potenziali una serie di servizi – dall’educazione all’intrattenimento all’inclusione sociale – che si connettono con le ricadute economiche più tradizionali come l’indotto turistico. “I musei negli ultimi anni hanno cambiato significativamente la loro mission – spiega Agostino – trasformandosi da musei che mettono al centro della propria attività la tutela della collezione in musei che mettono al centro il visitatore/utente. Mettere al centro della propria attività l’utente significa cambiare completamente gli obiettivi e le attività del museo. Questo implica, ad esempio, identificare i propri utenti, ascoltarli, definire un’offerta un grado di educare/intrattenere il visitatore”. Agostino insiste sull’aspetto del divertimento, che nell’offerta di un museo odierno non può essere un’attività secondaria, secondo la formula inglese dell’edutainment. A questo aspetto si affianca il ruolo sociale del museo e il possibile traino turistico delle sue attività.
Alla presentazione dei risultati della ricerca qualcuno ha mosso il dubbio che uno strumento che agisce in termini numerici potesse essere usato per dare delle pagelle ai musei pubblici. “Nulla di più sbagliato”, argomenta Agostino. “I dati raccolti servono a capire, in termini scientifici, dove indirizzare gli sforzi del museo. Individuare quali sono i settori dove le cose vanno bene e dove invece vanno male, se ci sono segnali di miglioramento o peggioramento. Tanto è vero che la richiesta di elaborare uno strumento simile viene direttamente dai tre direttori dei musei autonomi, che intendevano identificare le priorità di intervento da seguire nel corso del loro mandato”. I dati sono stati raccolti per due anni, con cadenza annuale, e si sta proseguendo con la raccolta. Si tratta di dati elaborati a partire da questionari e interviste rivolte ai visitatori, realizzate sia nei musei che fuori, nello spazio cittadino, ai quali si aggiungono valutazioni di tipo economico sulla spesa e sulla ricaduta territoriale. Nello specifico riguardano: a) la percezione del pubblico rispetto alle attività del museo; b) qual è la reputazione del museo presso la cittadinanza, quali sono le sue attrattive e quanto è effettivamente conosciuto; c) mappatura della distribuzione del personale utilizzato per le varie mansioni; d) l’impatto sociale ed economico generato dal museo. Il quadro che ne è uscito è ovviamente variegato e cambia da museo a museo.
Il museo genera valore nel momento in cui si apre all’esterno, fornendo ai visitatori reali e potenziali una serie di servizi che si connettono alle ricadute economiche più tradizionali.
I Musei Reali di Torino, ad esempio, hanno da subito lavorato alla creazione di un’unica identità sul piano della comunicazione. I Musei Reali sono infatti un polo che comprende sette siti in precedenza autonomi, raggruppati sotto un’unica gestione. “Riorganizzare il personale ha richiesto uno sforzo molto elevato”, spiega Deborah Agostino, e la dislocazione nello spazio urbano è uno degli elementi di difficoltà che il museo deve affrontare. Tuttavia, la scelta comunicativa sembra aver dato buoni frutti, poiché sia i cittadini che i visitatori hanno chiara l’identità del polo museale e che i sette spazi rispondono a un unico progetto. Al contrario, le Gallerie Estensi, che raggruppano spazi situati in comuni diversi – Modena, Ferrara, Sassuolo – riscontrano una fatica maggiore nello sviluppare un’identità unitaria, anche a causa dei rapporti con le rispettive amministrazioni locali, che secondo la coordinatrice del progetto hanno tentazioni campanilistiche e contrastano inconsapevolmente la realizzazione di un “brand” comune. Per converso il museo emiliano ha lavorato molto sull’accesso alle collezioni per via digitale, attraverso un uso meditato di sito e social network; e i singoli spazi lavorano molto a livello locale, realizzano eventi cittadini, e questo fa sì che l’utenza principale sia quella dei residenti piuttosto che dei turisti a livello nazionale e internazionale. Il Palazzo Ducale di Mantova, invece, ha come forza strategica il fatto di essere parte integrante del centro storico, e dunque un facile attrattore dell’utenza turistica; d’altra parte la dimensione del palazzo è tale da richiedere molto personale per la gestione, cosa che incide sul budget del museo.
Quest’ultimo aspetto, che riguarda la terza tipologia di dati raccolti (la mappatura del personale), è forse quello più interessante della ricerca, perché evidenzia una diversa concezione nella gestione del personale dei musei tra l’Italia e il resto del mondo. “Quando abbiamo cominciato a lavorare alla ricerca – racconta Agostino – abbiamo riscontrato una situazione molto simile tra i tre musei: elevata incidenza di personale di vigilanza e sorveglianza, assenza di personale dedicato al fundraising, al marketing e alle relazioni sul territorio. Queste tre attività, di solito, venivano gestite dal solo direttore del museo, con un aggravio immaginabile. Mappare quella che noi chiamiamo la saturazione del personale interno sulle varie attività ha permesso, in tutti e tre i casi, di analizzare la coerenza tra gli obiettivi strategici che i musei si era prefissati e le attività effettivamente svolte”. Attraverso l’analisi del personale, i musei possono cercare di rimodulare l’impiego dei propri dipendenti, potenziando così i propri interventi. “È quanto è avvenuto a Torino, ad esempio, dove questi dati sono stati utilizzati a supporto della definizione di un nuovo organigramma”, spiega Deborah Agostino.
Un tema a parte è quello dell’impatto sociale, che non può essere quantificato in termini di ricaduta economica come per il turismo, ma che sembra ricoprire un’importanza crescente nella percezione che i cittadini hanno del museo. In pratica il museo, da istituzione culturale pensata per conservare dei beni artistici, diventa un soggetto attivo nelle politiche del territorio. “Gli intervistati hanno dichiarato di percepire significativamente il ruolo sociale del museo nelle loro città”, continua la coordinatrice della ricerca. Si tratta di interventi pensati per coinvolgere le realtà carcerarie, per riqualificare le periferie o per sviluppare la socialità. Questa percezione diffusa, unita alla ricaduta economica, è secondo i ricercatori la principale “creazione di valore” che i tre musei sono in grado di produrre per i loro territori.
L’impatto sociale del museo ha un’importanza crescente: da istituzione culturale pensata per conservare dei beni artistici, diventa un soggetto attivo nelle politiche del territorio.
Ma se il discorso museale si sta spostando progressivamente sul pubblico (o utenza), allora è necessario per i ricercatori e i direttori dei musei cercare di realizzare un identikit dei visitatori. L’attrattiva maggiore che i musei esercitano riguarda un pubblico prevalentemente femminile, più spesso di nazionalità italiana, di età media e che dedica alle visite ai musei almeno tre uscite all’anno. Si tratta di un pubblico mediamente colto, che frequenta quindi altre occasioni culturali (biblioteche, festival, concerti). Ovviamente la ricerca ha fornito anche un quadro del pubblico che non si riesce a coinvolgere, il cosiddetto “pubblico scettico”, che si compone di quei cittadini che non conoscono il museo perché non ci sono mai andati e di quelli che, addirittura, pur vivendo in città non hanno mai sentito parlare del museo. Questi “utenti mancati” preferiscono passare il tempo libero in casa, con gli amici, oppure hanno una forte propensione per lo sport che occupa per intero le ore libere dal lavoro. Stando a quanto riportano i ricercatori, la sfida per i direttori dei musei sarà proprio cercare di coinvolgere queste fasce di pubblico refrattario, creando eventi adatti ad attrarre nei musei persone con queste caratteristiche. Ovviamente questo non toglie che si possa intervenire anche su chi ha una propensione al consumo culturale ma non sceglie i musei, così come cercare di invertire la tendenza delle persone a visitare il museo una sola volta, senza mai tornare.
È chiaro che il profilo del museo del futuro che dovrebbe disegnarsi, anche grazie all’analisi di questi dati, è quella di un’istituzione che non solo contribuisce alla conoscenza ma che è in grado anche di intrattenere. Una parola che sembra spostare sempre di più l’asse verso la dimensione esperienzale, ma che può anche suscitare qualche perplessità. Ricordo ad esempio, in ambito teatrale, la distinzione netta che fa il maestro Morg’hantieff (incarnazione semi-seria del regista Claudio Morganti, che ha realizzato per la casa editrice di Goffredo Fofi, Gli Asini, un altrettanto semi-serio manifesto): lo spettacolo intrattiene, il teatro trattiene. La stessa polarizzazione, probabilmente, va operata tra i concetti di contemplazione estetica e quello di esperienza/intrattenimento, senza per questo demonizzare l’una o l’altra – anche perché basta guardare ai risultati, in termini educativi, dei programmi di edutainment dei principali musei nordeuropei. Forse allora, il museo del futuro, potrebbe essere quello che riesce a dare il giusto spazio a entrambe le modalità di fruizione, nella consapevolezza che quando il museo serve a qualcosa (educare, intrattenere, coinvolgere) produce valore ed è una cosa straordinaria; ma anche quando non produce nulla, quando semplicemente si apre all’attraversamento regalandoci per l’ennesima volta quella straordinaria intuizione illuministica, del fatto che l’arte possa essere per tutti, anche questa è una cosa altrettanto straordinaria.