I o e le mie amiche guardiamo tutto ciò che i media ci rifilano sul mostro di Firenze: lo speciale di Discovery+, il podcast di Demoni urbani, l’approfondimento di Atlantide, le repliche di Un giorno in pretura, qualsiasi cosa. È un’ossessione nata e cresciuta in due anni di pandemia in cui media si sono ributtati sulla più famigerata serie di omicidi d’Italia sulla scorta, da una parte, di una noia generalizzata e, dall’altra, di nuove inchieste attorno al cosiddetto “livello superiore”, una congrega di stampo massonico che avrebbe manovrato i compagni di merende e depistato le indagini sugli otto duplici omicidi per oltre quarant’anni. Quasi tutti i format che magnetizzano la mia attenzione partono da un presupposto criminologico che viene incidentalmente corroborato da prove indiziarie, ma che è sempre posto come autoevidente nell’argomentazione generale: dei poveracci semi-analfabeti come Pacciani, Vanni e Lotti non possono aver ideato un piano criminoso così complesso. Secondo i criminologi interpellati nella stragrande maggioranza delle trasmissioni televisive, Pacciani e i suoi complici condividono un profilo disorganizzato inconciliabile con la “professionalità” della carneficina toscana, con la sua ritualità inquietante. Ci deve essere, come minimo, una mente “professionale”, lucida e metodica, a governare la mano sporca degli esecutori, come se l’apice della malvagità raggiunto da quei sedici omicidi escludesse pregiudizialmente i ceti alla base della piramide sociale, i contadini, i postini, gli operai della provincia fiorentina.
Il classismo forse in buona fede degli esperti combacia perfettamente con l’immaginario colonizzato dall’industria culturale statunitense della mia generazione. Per me e le mie amiche l’idea stessa di serial killer è inseparabile dall’orizzonte finzionale nel quale ci siamo formate come spettatrici. L’assassino seriale è Hannibal, il Patrick Bateman di Bret Easton Ellis, il protagonista di un film di David Fincher oppure Dexter: un perfezionista freddo e meticoloso. Come ha sottolineato Richard Dyer in Lethal Repetition. Serial Killing in European Cinema (Routledge, London 2002), la mascolinità bianca è il perno identitario attorno al quale ruota quasi tutta la narrazione del serial killer e questa identità è connotata automaticamente da un’intelligenza razionale straordinaria, come se il sadico organizzato fosse il doppelgänger dell’Homo faber, la controparte oscura della produttività creatrice, del motore primo della cultura occidentale e della sua capacità di dominio sul mondo. L’immagine dell’assassino seriale come genio perverso è talmente radicata nel nostro immaginario che l’idea stessa di Pacciani ideatore ed esecutore di una carneficina pluriennale ci appare assurda.
Ciò che sappiamo o crediamo di sapere di Pacciani attraverso le rielaborazioni della cultura popolare ha preso un uomo che ha certamente ucciso e abusato della moglie e delle figlie per anni e l’ha trasformato nell’emblema di un degrado sociale prima ancora che morale: un personaggio grottesco verso il quale proviamo disgusto, ma non paura. Ogni risata strappata da un meme sul “Vampa” lo squalifica come artefice del progetto criminale più malvagio della storia italiana recente. D’altra parte, il cinismo con cui, dopo vent’anni, si ride del personaggio Pacciani è l’eco di un rito giudiziario che ha concesso all’imputato una ribalta al limite del farsesco, lasciandolo libero di interpretare una parte che gli giovava, cioè quella del miserabile, del pover’uomo incapace di concepire una violenza così metodica. Per quello che se ne ricava dal montaggio di Un giorno in pretura, i processi a Pacciani e ai cosiddetti compagni di merende ci rivelano il lato più spettacolare della giustizia, quello che la trasforma in un’arena dove accusa e difesa giocano a smascherare e mascherare la realtà sotto lo sguardo impotente delle vittime esposte al trauma e lusingate dalla speranza di una punizione che non curerà, in fondo, le loro ferite più profonde.
Il cinismo con cui, dopo vent’anni, si ride del personaggio Pacciani è l’eco di un rito giudiziario che ha concesso all’imputato una ribalta al limite del farsesco.
Ci siamo interrogate sulle ragioni della nostra fascinazione per per i programmi dedicati al mistero del mostro di Firenze. La risposta più immediata che abbiamo formulato è che ci sia in gioco un archetipo narrativo antico e potente: il mostro di Firenze come Jack lo squartatore, un’entità inafferrabile che combina in sé minaccia e impurità, le due proprietà che, secondo Noël Carroll, definiscono il mostruoso nella narrazione finzionale dai tempi della letteratura gotica (The Philosophy of Horror, or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York 1990). Da un punto di vista cognitivista, i racconti mediatici che hanno al centro il mistero della mostruosità umana soddisfano un bisogno epistemologico profondo: conoscere l’origine del male, individuare l’altro che viola gli schemi culturali, che è irriducibile a un noi, alle ragioni dell’empatia. Ciò che non mi convince di questa spiegazione è che nei racconti che si affastellano sul mostro di Firenze manca la possibilità stessa di un appagamento della curiosità.
Al contrario, il loro senso sembra essere l’accumulo di piste investigative che più minano la presunta colpevolezza degli imputati reali più rendono indicibile il colpevole, innalzando il sospetto alla sua forma più pura e angosciante: il dubbio generalizzato verso tutti e tutto, verso la possibilità stessa di una giustizia terrena per le vittime. Per me il fascino dei racconti sul mostro di Firenze è legato alla strana sensazione che mi suscita il pensiero di una di ripetizione infinita, di un evento che replica sé stesso fino al punto di diventare impersonale, come se l’orrore fosse qualcosa senza origine e senza scopo, qualcosa di ineluttabile che trasforma l’uomo in una macchina programmata per disseminare casualmente la paura.
In fondo, i traumi occidentali portano qualche somiglianza. Le torri gemelle, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia, tutti eventi che hanno prodotto effetti che si riverberano in un tempo svuotato da scopi umani comprensibili e identificabili, eventi tanto complessi e stratificati da rendere quasi impossibile la ricerca di un’origine, della causa da cui è scaturita e continua a scaturire l’ingiustizia. Il mostro di Firenze è il caso più emblematico di una tendenza della narrazione della cronaca nera alla complessificazione del reale. Sulla stessa scia si pongono le inchieste televisive de Le Iene e di Tutta la verità (il format che il Nove ripropone in un flusso continuo di repliche nel weekend) sulla strage di Erba e sul delitto di Avetrana. Insinuare il dubbio nelle verità giudiziarie, anche in quelle apparentemente fondate su elementi accusatori solidi come la pietra, è diventato il contrappeso naturale dell’ansia colpevolista che alimenta il filone più popolare e antico della narrazione true crime in tv o sui giornali.
C’è qualcosa di profondamente postmoderno e, quindi, in un certo senso di anacronistico nel bisogno contemporaneo di dissolvere il male e i suoi responsabili in un intrigo così articolato da risultare incomprensibile, in una storia spezzata in un’infinità di contronarrazioni che non hanno un centro, se non quello centrifugo della paranoia che pone ai margini, anzitutto, le vittime reali e il loro bisogno di riconciliarsi con il mondo. La ricerca della colpa e dei colpevoli con cui io e le mie amiche riempiamo il nostro prezioso tempo libero è insostenibile eppure inevitabile come lo stato d’ansia in cui siamo immerse, è fatta della materia di cui sono fatti i nostri incubi quotidiani.