L a storia dei Morphine sembra un film indipendente: quel tipo di pellicola che si prendere fin troppo sul serio ma poi ha momenti di comico caos, e che alla fine riesce a trovare un inspiegabile equilibrio risolutore, ma lascia insieme un senso di occasione persa, la voglia di un sequel che sappiamo che non otterremo mai. Tra gli anni Ottanta e Novanta non esisteva un gruppo che assomigliasse anche solo vagamente ai Morphine: continua a non esistere oggi. Hanno lasciato un segno indelebile sulla musica, e ancora di più sui musicisti che hanno avuto la fortuna di incontrarli dal vivo o su disco.
È una storia strana, a partire dal fondatore, Mark Sandman, principale compositore e anima del gruppo. Sandman, nome da documento falso, da fumetto, è stato in tutto e per tutto un personaggio secondario, un minore: nasce nelle campagne del Massachusetts, prende una laurea che non gli servirà, inizia a barcamenarsi tra vari lavori, tra cui muratore, marinaio su una nave in Alaska e tassista. Nel frattempo i suoi due fratelli minori muoiono e lui durante un turno con il suo taxi viene rapinato e accoltellato al petto. È alto e magro, gli occhi azzurri dal taglio triste risaltano sullo sfondo della carnagione pallida e i capelli neri. La causa di quelle profonde cicatrici all’altezza del cuore la racconta solo agli amici strettissimi, con una nonchalance che lascia spiazzati. Forse proprio perché è un grande appassionato di fumetti (ne ha anche scritto uno). Qui si fermano i pochi cenni biografici più o meno certi del musicista americano. Di Mark Sandman non sappiamo granché, a parte la vicenda assurda della sua morte, durante un concerto, su un palco, in Italia. Ufficialmente non siamo neanche a conoscenza della sua esatta data di nascita, attorno agli anni Cinquanta (alcune biografie riportano 24 settembre 1952).
Tra gli anni Ottanta e Novanta non esisteva un gruppo che assomigliasse anche solo vagamente ai Morphine: continua a non esistere oggi. Hanno lasciato un segno indelebile sulla musica.
Boston è una città più nota per aver dato i natali a stand-up comedian spietati dalla delivery al vetriolo che a grandi musicisti – con le notevoli eccezioni di Aerosmith e Pixies. Una città che si fa vanto del suo essere “blue collar”, operaia, dura e instancabile. Forse per questo, negli anni Ottanta, ospita una scena blues-rock molto cruda e poco cerebrale. Sandman suona in diversi gruppi: Sandman, Candy Bars, The Pale Brothers, Hypnosis e soprattutto Treat Her Right, con i quali registrerà ed andrà anche in tour. Blues, rock, nu-wave, jazz, accenni quasi post-punk. Spesso si presenta con strumenti strani, o manipolati di sua mano. Bassi e chitarre con un numero di corde sbagliato, un pezzo di legno segato e sottratto da una parte per riattaccarlo in un altro punto, suoni che non corrispondono a ciò che ci si trova ad osservare. Insomma strumenti che sembrano usciti dalla penna di Mary Shelley, quasi fatti apposta per creare un senso di “sbagliato” in chi li guarda.
Siamo all’alba degli anni Novanta quando i Treat Her Right si sfaldano sotto il peso di personalità ingombranti. Sandman aveva continuato a coltivare alcuni progetti paralleli: tra questi i Morphine, un trio espressione del suo amore per le frequenze basse e che diventa presto la sua ossessione. Non c’è assolutamente niente che possa far pensare a una persona qualsiasi, nella Boston dell’epoca, che sia una buona idea fondare un trio basso, sassofono e batteria. Per di più tutto baritono: la voce di Mark Sandman, con lo stesso effetto di un superalcolico morbido ed affumicato che intontisce la testa ma scioglie la lingua; il suo basso mutilato (senza due corde, senza tasti), un asciugamano caldo e bagnato che ci viene strofinato addosso ininterrottamente, fino a farci entrare in uno stato di sospesa ebbrezza sensuale. Tutto questo si unisce alle evoluzioni del sax di Dana Colley (ex roadie dei Treat Her Right), ogni tanto jazzistiche, ogni tanto grida scagliate nella notte senza un destinatario, terrificanti e affascinanti. Infine la batteria, allo stesso tempo minimale e virtuosa in modo assolutamente poco pretenzioso. Le pelli dei tamburi sono accordate con gli strumenti, a comporre un monolite noir che ci piomba addosso e ci stritola, ci schiaccia a terra senza toglierci aria, facendoci provare piacere e un leggero senso di paura. Un credito al talento dei tre, capaci di lasciar respirare la propria musica, di saper gestire pause e silenzi in modo tale da lasciare lo spazio necessario per far funzionare un mix che sulla carta è una ricetta perfetta per il disastro.
Il primo disco, Good, esce nel 1992. Alla batteria c’è ancora Jerome Deupree, che da lì a poco inizierà a soffrire di problemi fisici di natura artritica che gli impediranno di continuare a suonare, sostituito in corsa da Billy Conway – già batterista dei Treat Her Right. Nel documentario del 2014 Journey of Dreams, Deupree e il sassofonista Colley raccontano di come Mark Sandman soffrisse moltissimo i rallentamenti dovuti alla salute del collega, dimostrando esplicito fastidio e non empatizzando mai con le sofferenze dell’amico. A quel punto della sua vita, più vecchio di circa un decennio rispetto ai suoi compagni, Sandman deve aver sentito che i Morphine erano la sua ultima occasione: sapeva di avere per le mani qualcosa di speciale e non riusciva a concepire che qualcos’altro lo trattenesse dall’andarsi a prendere la vita che cercava, dopo quelle insoddisfacenti già vissute. La batteria di Conway è comunque un ottimo sostituto: meno tribale ma più raffinata, più dinamica e jazz. Good diventa presto un culto underground, suonato a ripetizione nelle radio universitarie e protagonista di un passaparola vecchia scuola che fa in modo che i concerti del gruppo passino quasi subito dalle trenta persone di media ai sold out in tutti gli Stati Uniti.
È l’inizio di una rapida ascesa che in pochi anni li porta a firmare un ottimo contratto discografico, dopo gli inizi più che indipendenti, e registrare altri due album di successo, soprattutto il primo: Cure For Pain del 1993 e Yes del 1995. La formula sonora viene raffinata e messa a fuoco. Accanto all’aspetto estatico e quasi da trance emerge con più forza la vitalità della loro musica, soprattutto dal vivo. I Morphine sono sempre stati un gruppo da club medio piccolo, dove il suono rimbalza sulle pareti ed è restituito amplificato e compresso alle nostre orecchie; dove quella pressione sonora si trasforma in pulsione sensuale, che prende i fianchi, la testa e gli arti e li porta a muoversi automaticamente. È una forza come un limite: la loro musica infatti non poteva certo rendere altrettanto bene all’aria aperta dei grandi festival da decine di migliaia di persone. Nonostante questo la loro ascesa è abbastanza lineare. Esplodono anche in Europa, dove sono accolti come rockstar. Sono a tutti gli effetti un gruppo di successo con fan in tutto il mondo, tra questi anche artisti del calibro di Joe Strummer ed Henry Collins. Ma un gruppo con quel DNA, per sua natura non si trova a suo agio in platee così vaste. Come raccontato in Journey of Dreams, è qui che iniziano i problemi. Like Swimming del 1997 mostra una stanchezza compositiva che manda in palla Mark Sandman. Nonostante questo firmano con la neonata etichetta di Steven Spielberg (la DreamWorks), trovandosi per la prima volta sotto la pressione di produrre delle “hit”.
Il suono della morte improvvisa di Sandman, insensata, orribile, è quello del feedback impazzito del suo basso, un lamento nella notte, un’elegia funebre che non ha bisogno di parole.
La gestazione di The Night è travagliata. L’onda della stanchezza percepita in Like Swimming incombe su un album che non possono permettersi di sbagliare. I tre registrano un’infinità di demo, tutti in cassetta, su registratori multitraccia nel loft di Sandman. I Morphine sono l’epitome del suono in cassetta di quegli anni: il lo-fi originario, dalla pasta analogica e realmente sporca, spesso di qualità scadente e corrotta. La loro musica in realtà non risente di questo tipo di supporto, anzi, ci sguazza dentro usandola quasi come un ulteriore strumento a disposizione della costruzione del proprio suono; un approccio che ha influenzato certa musica contemporanea molto più di quanto si tenda a considerare. Alla fine l’impasse creativo viene superato chiudendo il cerchio, richiamando a suonare Jerome Deupree che si alternerà a batteria e percussioni insieme a Billy Conway. The Night è un album leggermente diverso rispetto ai precedenti: una gamma di suoni eterogenea che supera il blocco monolitico baritono, facendone l’architrave per delle composizioni dagli arrangiamenti più complessi, più sfumati. Purtroppo Mark Sandman, dopo tanta fatica, non avrà l’occasione di vederlo uscire.
Il santuario della Fortuna Primigenia è un complesso sacro dedicato alla dea Fortuna, la dea romana della sorte. Domina dall’alto la cittadina di Palestrina, un comune a poco più di quaranta chilometri da Roma. Uno di quei posti che sembrano usciti da una cartolina, fermi in un tempo imprecisato tra l’antica Roma, il medioevo e gli anni sessanta del novecento. Il 3 Luglio 1999 fa caldissimo ma nonostante questo Mark Sandman, Dana Colley e Billy Conway si imbarcano nella lunga passeggiata sotto il sole per visitare il santuario. Sandman accusa una grande spossatezza, ma nessuno, compreso lui, ci fa caso; sono nel mezzo di un tour sfiancante, ma la città è talmente bella ed evocativa che tutto passa in secondo piano. Quella sera salgono sul palco del festival “Nel Nome Del Rock” accolti e aspettati con trepidazione dal pubblico. Dopo una manciata di brani ed è il momento di “Supersex”. Le cronache riportano che Sandman lo abbia introdotto con una frase in italiano: “grazie Palestrina. È una serata bellissima, è bello stare qui e voglio dedicarvi una canzone super-sexy.” Dopo poche note il leader dei Morphine si accascia al suolo, colto da un infarto fulmineo a meno di cinquant’anni. Il suono della sua morte improvvisa, insensata, orribile, è quello del feedback impazzito del suo basso, un lamento nella notte, un’elegia funebre che non ha bisogno di parole.
Il regno dei Morphine è stato la notte. Contrariamente a quello che si potrebbe frettolosamente pensare infatti, il nome del gruppo si ispira a Morfeo, il dio del mondo dei sogni, non all’oppiaceo. La notte non come luogo pauroso o depresso, ma come spazio vitale e colmo di possibilità, di fantasia, di libertà che il giorno non concede. Forse proprio per questo il trio di Mark Sandman è stato un sogno lisergico nell’adolescenza di tanti, ricorrente anche in età adulta. La magia dei Morphine è che ci concedono quel sentimento di appagamento minimo che serve per tornarci di nuovo, ogni volta con maturità e convinzioni diverse. Da un punto di vista musicale sono stati fondamentali: in un certo senso sono stati i Joy Division per quelli che odiavano i Joy Division e la loro mitologia depressa e quasi subito corrotta. Sono stati quelli che hanno preso un sassofono baritono mostruoso, simile ad un abissale creatura marina per fisionomia e suoni, e l’hanno messo a gareggiare con un basso mutilato, mente un batterista indeciso tra blues, jazz e grunge si barcamenava sotto fornendo un tappeto ritmico sorprendentemente creativo. Sono stati una di quelle storie che fanno innamorare dell’idea di suonare in un gruppo: partire da una saletta scassata e arrivare davanti a decine di migliaia di persone senza snaturare la propria visione, anche se sulla carta questa non ha nessuna caratteristica “pop”. La vittoria della peculiarità, della tenacia, della creatività minimale, del sapersi arrangiare.