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rano fondativo del post-punk inglese, Skank Bloc Bologna è anche tra i più esemplificativi omaggi con cui, durante gli anni Settanta, intellettuali e artisti da tutto il mondo hanno decantato Bologna come laboratorio di agitazione politica e innovazione culturale: “Someone’s got a question but there’s Nothing left to do […] The Skank Bloc Bologna keeping us all alive Something in Italy […] Now they’re livin’ on a notion and They’re working on a hope A Euro vision and a skank in scope.” La band che lo ha composto, gli Scritti Politti, un gruppo di militanti marxisti e studenti d’arte presso il Politecnico di Leeds, prese il nome dagli Scritti Politici (1967) di Antonio Gramsci, storpiandone il titolo. Un altro esempio, nello stesso periodo, è il numero speciale di Semiotext(e) dedicato ad “Autonomia” (1980) che conferma l’infatuazione, in questo caso della comunità artistica di Downtown New York, per Bologna come epicentro del Movimento del ’77. Renato Zangheri, che come sindaco di Bologna dal 1970 al 1983 ne ha consolidato l’immagine di una città progressista, ha dichiarato come Bologna fosse, in effetti, “esemplare della esperienza di un governo comunista in Occidente […] un banco di prova di molte idee, dei partiti, delle istituzioni, e anche degli individui”.
Lo spirito di quella Bologna, che i nostalgici decretano come ormai perduta e in parte dimenticata, continua ad aleggiare anche alla soglia di questo primo quarto di nuovo secolo, sotto i portici del centro come nei quartieri di periferia, nei progetti di rigenerazione urbana e negli ingranaggi di una comunità umana che, pur sedotta dalle logiche globali di automazione e virtualità — come dimostra la presenza di eccellenti industrie nei settori del packaging e dei motori, nonché di uno dei cinque più potenti supercomputer al mondo — riconosce ancora il valore dell’andare con lentezza, della prossimità e dello scambio. Di questo spirito sono incarnazione gli spazi artistici alternativi che hanno proliferato a Bologna dalla fine degli anni Settanta, un fenomeno che qui ha assunto proporzioni e caratteri talmente peculiari da consentirci di parlare di un “modello Bologna”.
Glu spazi alternativi per l’arte sono un fenomeno che si consolida nel solco delle avanguardie, delle sottoculture e delle controculture, della critica istituzionale e delle varie forme di arte politica, relazionale, partecipativa e pedagogica.
Riprendendo una definizione tentata da Julie Ault, co-fondatrice del collettivo statunitense Group Material, in un’antologia che esplora il fenomeno degli spazi alternativi a New York dagli anni Sessanta agli Ottanta, queste: “alternative enterprises shape and position themselves in relation to that for which they are an alternative: on understanding the relationships and interdependencies between profit and non-profit sectors of the cultural economy, how “mainstream” and “alternative” determine and influence one another, and how they blend”. Più in generale, per spazi alternativi per l’arte si intendono quegli spazi indipendenti dalle istituzioni e dal mercato, il più delle volte avviati e gestiti da artisti, che si configurano come luoghi di sperimentazione interdisciplinare, ma anche come spazi liberati in cui è possibile, attraverso le arti, ridefinire codici identitari, sociali e culturali. Un fenomeno, questo, le cui origini risalgono all’avvento della modernità, ma che si consolida durante il Novecento nel solco delle avanguardie, delle sottoculture e delle controculture, della critica istituzionale e delle varie forme di arte politica, relazionale, partecipativa e pedagogica.
In questa parabola, che si estende dal Cabaret Voltaire di Zurigo, dove nel 1916 nasce Dada, agli spazi nomadi avviati dagli anni Duemila dal collettivo ruangrupa, da Giacarta a documenta fifteen, un momento decisivo sono gli anni Sessanta. In questo decennio si manifestano i primi segnali di crisi della democrazia rappresentativa, di pari passo con quello che Jean-François Lyotard ha definito un crollo di fede nei confronti delle grandi narrazioni del passato, ovvero l’avvento del postmodernismo. Gli spazi artistici alternativi, pertanto, non sono altro che un sintomo di un processo molto più vasto, di ribilanciamento degli equilibri interni alla società postindustriale. Giocano, però, un ruolo decisivo in quanto, se è vero che le arti esercitano una profonda influenza sul piano dell’immaginario, ovvero hanno il potere di suggerire cambi di prospettiva e prefigurare trasformazioni, in questi spazi le arti danno forma a istanze e soggettività che si pongono in alternativa alla società “ufficiale” e che, in qualche modo, ne rappresentano un tangibile ribaltamento.
In termini topografici, per mappare questi spazi si potrebbero richiamare l’immaginaria isola di Utopia (1516) di Thomas More, la psicogeografia situazionista, le micronazioni e tutti quei luoghi fittizi che stimolano l’umanità a immaginare che potrebbero esistere luoghi ideali: giusti, pacifici, democratici. Per restare legati all’epoca in cui il fenomeno degli spazi alternativi prende consistenza, invece, delle corrispondenze si potranno rintracciare con alcune metafore filosofiche proposte nell’alveo dello strutturalismo, come il concetto di “piega” di Gilles Deleuze, intesa come indefinita zona d’ombra, ma ancor di più quello di “eterotopia” di Michel Foucault che si riferisce a “delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali […] sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”. Così come gli spazi alternativi per l’arte, luoghi sì, forse utopici, ma rispondenti a precisi numeri civici.
Quello che contraddistingue la storia degli spazi bolognesi è che hanno elaborato modelli di professionalizzazione bottom up nei più svariati settori delle arti, dello spettacolo e della comunicazione, a volte in sinergia con le istituzioni e l’amministrazione locale, ma senza mai dipenderne.
In cosa consiste, dunque, il “modello Bologna” se non innanzitutto nella sua stretta relazione con il tessuto sociale e culturale della città in cui ha preso forma? Alcuni caratteri fondamentali del fenomeno, inevitabilmente, sono comuni agli spazi artistici alternativi tout court: l’inclusività, l’interdisciplinarità, l’indipendenza. Quello che contraddistingue la storia degli spazi bolognesi, semmai, è che hanno elaborato modelli di professionalizzazione bottom up nei più svariati settori delle arti, dello spettacolo e della comunicazione, a volte in sinergia con le istituzioni e l’amministrazione locale, ma senza mai dipenderne. A differenza dell’evoluzione di questo fenomeno a New York o in certe città del Nord Europa, del resto, gli spazi di Bologna non hanno mai goduto di finanziamenti pubblici se non in sporadiche occasioni. Eppure, idealisti ed eroici, sono stati in grado di esistere e resistere, alcuni per pochi mesi, altri per decenni, formando generazioni di professionisti di quelle che oggi chiamiamo ICC — Industrie Culturali e Creative.
Sebbene molti di questi spazi si siano posti rispetto alla città su un piano conflittuale, acuitosi durante certe fasi amministrative, è indubbio che abbiano trovato a Bologna un terreno fertile, dal punto vista sia sociale che culturale. L’Università di Bologna è stata un incubatore formidabile in questo senso, in particolare il DAMS, l’innovativo corso di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo nato nel 1971 come costola della Facoltà di Lettere e Filosofia. Al DAMS presero vita insegnamenti innovativi che guardavano alle arti visive, alla musica e allo spettacolo, inteso come teatro e cinema, da una prospettiva contemporanea, ibridandosi con la sociologia e la filosofia, alla luce del crescente impatto dei media e delle trasformazioni dell’industria culturale e della comunicazione. Fucina di energie confluite negli spazi alternativi è stata anche la locale Accademia di Belle Arti, a conferma del bisogno da parte dei giovani artisti di superare il modello solipsistico dello studio a favore di dinamiche pluralistiche di creazione.
All’interno del DAMS sono state generate ibride entità collettive, nate dal confronto tra docenti visionari e studenti desiderosi di mettere in pratica il sogno della “immaginazione al potere”, motto di una controcultura che in Italia si è estesa dagli anni Sessanta a tutto il decennio successivo. Un caso esemplare è stato quello del Gruppo di Drammaturgia 2 coordinato da Giuliano Scabia, da cui nel 1972 è nato il Gorilla Quadrumano, uno spettacolo di teatro di strada che ha visto la partecipazione attiva degli abitanti di svariati quartieri italiani, a partire dal Pilastro di Bologna. Altro esempio significativo è stato quello del Gruppo A/Dams responsabile del testo collettivo Alice disambientata: materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza (L’Erba Voglio, 1978), nato da un seminario su Lewis Carroll tenuto da Gianni Celati. Del romanzo di Carroll, evidentemente, a Celati e i suoi studenti non interessava solo la dimensione psichedelica del “paese delle meraviglie”, ma che il buco nero in cui cade Alice la conducesse a una vera e propria eterotopia.
Grazie a iniziative come queste, nelle aule e nei corridoi di Strada Maggiore e via Guerrazzi, allora sedi del DAMS, prese forma quella che molti incominciarono a definire l’ala creativa del Movimento del ’77. Le performance carnevalesche degli Indiani Metropolitani durante i cortei, i murales, e così le iniziative “mao-dadaiste” di controinformazione avviate da Franco “Bifo” Berardi, anima del Movimento, ovvero Radio Alice (esatto, la stessa Alice!) e la rivista A/traverso, risentirono di una temperie controculturale in qualche modo ispirata anche dai docenti del DAMS: Scabia, Celati, Umberto Eco, Renato Barilli, Luciano Anceschi e tanti altri “indisciplinati” intellettuali. L’influenza del DAMS non si limita alle origini del fenomeno che stiamo trattando, ma si estende fino a oggi, ed è da questa consapevolezza, e in parte senso di responsabilità, che la ricerca alla base di questo volume ha preso forma proprio all’interno del DAMS e di altri corsi di studio dell’attuale Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. La Tregenda e Traumfabrik avevano già alcune caratteristiche del “modello Bologna”. Entrambi nati nel 1976, il primo durato alcuni mesi e il secondo sette anni, sono stati laboratori di pratiche interdisciplinari frutto di una spontanea trasposizione della vita nell’arte e viceversa. Le fondatrici de La Tregenda, una cantina in via San Vitale, hanno fatto la scelta radicale di aprire lo spazio a sole donne, in linea con la frangia femminista del Movimento.
La Traumfabrik, ovvero “fabbrica dei sogni” in tedesco, fu invece un appartamento in via Clavature 20 — a riprova di quanto l’intreccio tra arte e vita fosse indissolubile — occupato illegalmente da Filippo Scozzari, Gianpietro Huber e Dadi Mariotti. In una città che nel 1977 fu segnata dall’uccisione di uno studente, Francesco Lorusso, dal Convegno contro la repressione e dai carri armati sotto le due torri, tra le pareti de La Tregenda e di Traumfabrik il Movimento si esprimeva in nuove forme, che ne coglievano le contraddizioni e ne indicavano un superamento. La Traumfabrik fu un esempio pionieristico del “modello Bologna”, come centro di aggregazione e laboratorio polifunzionale improntato sul rifiuto delle logiche dominanti del mercato e della cultura. Alla Traumfabrik si formarono band come il Centro d’Urlo Metropolitano, presto ribattezzatosi Gaznevada, e gli Stupid Set, per i quali il collettivo Grabinski realizzò proto-videoclip e installazioni multimediali che allegorizzavano la televisione e i sistemi di video-sorveglianza. Scozzari e Andrea Pazienza, allora studente DAMS, qui disegnarono alcune delle loro più importanti storie a fumetti, ma alla Traumfabrik “disegnavano tutti, alla selvaggia”, ricorda Scozzari in un suo memoir: illustrazioni, collage, sceneggiature per fumetti e film. Realizzati sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, questi lavori su carta rappresentano oggi, insieme alle fotografie di Emanuele Angiuli, un corpus imprescindibile per ricostruire l’epopea di uno spazio totalizzante, vero contraltare al coevo sistema dell’arte contemporanea.
La sottocultura per eccellenza, il punk, nella sua declinazione hardcore, è alla base della nascita dell’Isola Nel Kantiere, uno squat anche noto come Isola o I.N.K., all’interno di un edificio alle spalle di via Indipendenza e del Teatro Arena del Sole. Riccardo Pedrini, chitarrista della band bolognese dei Nabat, ha scritto che per lui “essere punk aveva significato recidere i rapporti con buona parte del cosiddetto mondo circostante. […] era una fortissima tensione verso un altrove, politico, sociale o stilistico, musicale oppure comportamentale, o tutte quante queste cose assieme”. All’Isola questo sembra essere l’assunto, anche se il punk e l’hardcore, qui suonato anche da figure internazionali come Fugazi, Henri Rollins e NOFX, presto cedette il passo a una nuova sottocultura, quella hip hop. Come il punk, anche l’hip hop è un movimento interdisciplinare: musica, graffiti, danza, autoproduzioni editoriali e mediatiche. E come il punk, anche l’hip hop è importato in Italia da altri paesi e altre culture ma viene qui declinato in modi originali.
Con l’Isola Nel Kantiere, Bologna divenne l’epicentro di un nuovo movimento di disobbedienza civile, anche questo rafforzato, come nel ’77, da tattiche artistiche.
L’Isola Nel Kantiere divenne una delle culle dell’hip hop italiano grazie alla nascita qui di collettivi quali Isola Posse All Stars, a cui si deve Stop al Panico (1991), inarrivabile archetipo di rap nostrano, marchio di fabbrica Isola Nel Kantiere Production. Il brano fece da cassa di risonanza della diffidenza del coevo movimento studentesco della Pantera nei confronti delle istituzioni e del clima di terrore generato a Bologna dalle stragi della Uno Bianca. Con l’Isola Nel Kantiere, Bologna divenne l’epicentro di un nuovo movimento di disobbedienza civile, anche questo rafforzato, come nel ’77, da tattiche artistiche. La strofa di Stop al Panico che meglio descrive questo sentimento è quella cantata da DeeMo, uno dei rapper del gruppo: “Bologna è rossa di vergogna e sangue, non sogna più. Anni e anni, anni di cazzate tipo ‘isola felice’ non han fatto che danni. Bologna è solo il buco del culo del mondo. C’è chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato e va a fondo”. Come per Alice, ancora una volta un buco, per accedere a un’altra eterotopia.
L’Isola Nel Kantiere venne sgomberata nel 1991, lo stesso anno in cui l’informatico inglese Tim Berners Lee pubblicò il primo sito web, rendendo così disponibile all’umanità l’accesso a quell’universo ancora inesplorato e da cui in gran parte oggi dipendiamo che è Internet. Del web allora inteso come luogo di possibilità e re-immaginazione della società, gli spazi alternativi di quegli anni furono una trasposizione tangibile. Una versione del concetto di eterotopia aggiornato alle novità dell’epoca in corso fu quello di T.A.Z., ovvero zone temporaneamente autonome, elaborato da Hakim Bey proprio nel 1991. Si tratta di luoghi che per periodi limitati divengono autonomi rispetto al contesto sociale, politico e culturale, in cui le arti esercitano un ruolo fondamentale. Addirittura, per Bey: la TAZ è l’unico possibile “luogo” e “tempo” per l’accadere dell’arte, per il puro piacere del gioco creativo, e come tangibile contributo alle forze che permettono alla TAZ di aggregarsi e manifestarsi. Nella TAZ l’arte come merce sarà semplicemente divenuta impossibile; sarà invece una condizione di vita [nella quale] “l’artista non è un tipo speciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista”.
Nella Bologna dei primi anni Novanta esempi di T.A.Z. non furono solo gli spazi, ma anche le aree della città in cui i germi coltivati nei loro laboratori trovavano disseminazione virale. Si pensi ai cortei carnevaleschi e alle parate techno organizzati dall’Isola o dal Livello 57, capaci di rendere temporaneamente autonome arterie del tessuto urbano, piazze, parchi e portici, con carri, casse, cartelli e creature antropomorfe realizzate con materiale di riciclo, magari dagli inglesi Mutoid Waste Company che a Bologna e poi in Romagna trovarono casa. In parallelo a queste forme d’arte anonime, pensate come strumenti di contro-discussione, furono lanciate missioni esplorative in rete. Isola, Livello 57 e Link si dotarono di postazioni con personal computer connessi a Internet e proposero varie occasioni di discussione sui temi cardine della cultura cyberpunk, dalle BBS alla contro-informazione, dalla realtà virtuale alla Net.Art, prima che Internet venisse irrimediabilmente privatizzato e le nostre soggettività fagocitate dai social media.
All’indomani dello sgombero dell’Isola Nel Kantiere, il collettivo Damsterdamned — che negli anni della Pantera gestiva la programmazione culturale del DAMS occupato in via Guerrazzi — fu, insieme ad altre associazioni e gruppi, al centro di un patteggiamento con il Comune di Bologna per l’individuazione di un nuovo spazio. La scelta ricadde sull’ex-deposito delle Farmacie Comunali in via Fioravanti, dietro la stazione dei treni, all’interno del quale sorse il Link Project. Quintessenza del modello Bologna, al Link le energie della comunità artistica off di Bologna hanno dato forma a una fabbrica culturale, articolata in divisioni con compiti specifici, come dimostra un “organigramma” in apertura del secondo numero della sua omonima rivista. Le diciture generiche riportate nello schema corrispondono a entità professionali come Officine Alchemiche (allestimenti), Opificio Ciclope (produzioni multimediali), Loew & Associati (reparto grafico), e altre responsabili per la programmazione teatrale, musicale, relative alle arti visive, al cinema, ai servizi, ecc. La rivista del Link è oggi una preziosa cartina tornasole per comprendere la natura polivalente e interdisciplinare del centro che, come ha ricordato in un testo recente Daniele Gasparinetti, una delle figure centrali nella storia del Link, era pensato come: un mondo-di-redazioni (mondo-di-relazioni), per dare vita a una “rivista vivente”. Le redazioni sono le unità minime di raccordo, confronto e ordinamento delle linee. […] non è la famiglia (padre-madre-progenie), ma un procedimento dialettico che può assumere molte forme di combinazione. L’oltre di queste unità di conto è già un’“assemblea”. […] Le assemblee rappresentano i luoghi delle confluenze-divergenti, e sono gli organi della non-totalizzabilità.
Se da un lato queste esperienze poggiano su dinamiche di condivisione e collettivizzazione, sono anche incubatori di divergenze e frustrazioni che ne mettono a repentaglio la sussistenza e rischiano anche di inficiarne la memoria.
Dalle parole di Gasparinetti, però, traspare anche una contraddizione in termini degli spazi alternativi: se da un lato queste esperienze poggiano su dinamiche di condivisione e collettivizzazione, sono anche incubatori di divergenze e frustrazioni che ne mettono a repentaglio la sussistenza e rischiano anche di inficiarne la memoria. La cultura elettronica, nelle sue più diverse sfumature, è stato il collante del Link, che grazie ad allestimenti permanenti e scenografie provvisorie si è configurato come ambiente immersivo e intermediale, fondato sulla convergenza di suoni, luci e schermi. La programmazione musicale — il principale strumento di sostentamento economico — comprendeva performance di esponenti di generi “storici”, dal post-punk all’hip hop alla techno, insieme ai migliori rappresentanti di generi di quegli anni quali IDM, post-rock e trip hop. Rassegne monografiche sono state dedicate a protagonisti del cinema sperimentale e dell’arte video, tra cui Marcel Broodthaers, Chris Marker, Bill Viola, Gary Hill e gli italiani canecapovolto. Ruolo di primo piano ha avuto la sperimentazione teatrale con performance di compagnie italiane come Socìetas Raffaello Sanzio, Kinkaleri e Teatrino Clandestino. Attraverso incontri e interventi sulla rivista, questi prodotti alternativi dell’industria culturale venivano anche contestualizzati e discussi da artisti e accademici.
Il Link ha rappresentato un punto di snodo epocale, non solo perché ha messo a sistema elementi già emersi nei precedenti spazi — come fucina di attività interdisciplinari e professionalizzanti, motore di energie sottoculturali e spazio totalizzante — ma anche per la sua capacità di tessere rapporti, per quanto altalenanti, sia con l’amministrazione pubblica, che ne ha legittimato l’esistenza, sia con il mondo accademico, il sistema dell’arte e l’industria culturale. Riguardo al sistema dell’arte, molti spazi precedenti avevano ignorato o si erano opposti alle attività del territorio. La prima iniziativa dell’Isola Nel Kantiere, per esempio, fu la “manifestazione dei rubinetti”, una contestazione alla Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, la cui quarta edizione fu organizzata dal Comune di Bologna nel 1988. Armati di rubinetteria, un gruppo di “isolani” sfilarono tra le strade del centro per lamentare come, conclusa la Biennale, l’amministrazione avrebbe nuovamente “chiuso i rubinetti” dei finanziamenti per l’arte.
Altri spazi nati prima del Link, invece, avevano dimostrato una capacità di dialogo con il mondo dell’arte contemporanea cittadino, diventando luoghi in cui gli artisti avevano la possibilità di sperimentare con le tecniche e i linguaggi delle arti visive ma senza necessariamente incorrere in logiche di mercificazione. Fu il caso di neon e de Il Campo delle Fragole, il primo uno spazio dedicato principalmente ad espressioni di natura concettuale e relazionale, il secondo più interessato a pratiche pittoriche e di installazione. Entrambi questi spazi e gli artisti che ne hanno animato le attività hanno partecipato a mostre in gallerie e iniziative istituzionali, stabilendo un rapporto anche con la locale Arte Fiera. Nata nel 1974, Arte Fiera fu una delle prime fiere dedicate all’arte contemporanea di levatura internazionale, e contribuì alla percezione di Bologna come luogo di innovazione anche in termini di economia culturale. Oggi per Arte Fiera realtà profit e non-profit contribuiscono in modo sinergico a un programma fitto di eventi chiamato Art City.
Per diversi anni, all’interno del Link, nei giorni di Arte Fiera l’artista Luca Vitone, ex studente DAMS, ha organizzato Incursioni, un progetto espositivo che comprendeva installazioni, performance e incontri, ricordando al pubblico che l’arte può essere processo senza diventare prodotto. Al Link nacquero anche diversi festival dedicati alle ibridazioni tra arti visive e altri linguaggi espressivi come Hops! e Suoni visivi e immagini sonore. Il primo fu presentato come un progetto “in cui convivono produzioni liminali e zone interstiziali che ospitano a loro volta ricerche sui o sub generis: rappresentative schegge creative di contemporaneità, di rado portate sullo stesso terreno di gioco fuori dalle rispettive cliniche estetiche”. Da queste esperienze e da un gruppo di membri del Link nascerà poi Netmage. International Live Media Festival, rassegna dedicata alle contaminazioni e convergenze tra il visivo e l’aurale in performance e progetti intermediali, itinerante di anno in anno in diverse sedi della città.
Il fenomeno dei festival, che da solo meriterebbe una ricerca e un volume dedicati, si è sviluppato in modo considerevole a Bologna a partire dagli anni Novanta, come estensione di attività nate negli spazi alternativi o da associazioni e organizzazioni legate a questi. In particolare, come sostiene Paolo Magaudda, i festival sono stati il risultato di “una certa ‘istituzionalizzazione’ di alcuni centri sociali cittadini, che vanno anche nell’ottica di una normalizzazione dell’offerta culturale. La sovvenzione delle istituzioni ha modificato alcune esperienze di rottura estrema in centri di produzione culturale”. Oltre a Netmage, si pensi al festival Gender Bender prodotto dal Cassero, che da oltre vent’anni vanta una programmazione artistica di primo piano, internazionale e interdisciplinare, con un focus su questioni di identità di genere. A normalizzare la propria offerta culturale sono stati anche numerosi spazi attivi oggi che, su modello di neon e Il Campo delle Fragole, sono votati principalmente alle arti visive, come Adiacenze e Ateliersi.
Più che spazi che stanno altrove, questi sono spazi che stanno tra e che producono iniziative, eventi, progetti e soggettività che stanno tra. Nel mezzo dei processi di significazione, tra i meccanismi di costruzione del senso nell’economia culturale e nei media, nelle zone d’ombra in cui produzione artistica e comunicazione si confondono, e nell’indeterminazione tra arte e vita.
A New York, additata come luogo di elezione per gli spazi alternativi per l’arte, queste esperienze hanno goduto di sovvenzioni ingenti da parte dello stato e di privati. Alcuni spazi nati negli anni Settanta sono diventati vere e proprie istituzioni come il New Museum of Contemporary Art e il PS1, oggi succursale del MoMA. A Bologna, invece, questo supporto è stato limitato a poche iniziative o riguarda la concessione di spazi di proprietà del Comune. Il caso del Cassero è di particolare importanza, in quanto si tratta del primo spazio gestito da un’associazione omosessuale in Italia a essere stato legittimato dall’amministrazione pubblica mediante la concessione di un edificio. Il principio di intersezionalità, ovvero l’inclusione di gruppi solitamente discriminati e marginalizzati, con attenzione per la comunità LGBTQIA+, è un altro carattere fondamentale degli spazi alternativi bolognesi, soprattutto Cassero, TPO e Atlantide. Al contrario del primo, però, le vicende degli altri due sono state segnate da conflitti e sgomberi. Più che spazi che stanno altrove, questi sono spazi che stanno tra e che producono iniziative, eventi, progetti e soggettività che stanno tra. Non a caso, alcune parole chiave ricorrenti nell’esplorazione di questo fenomeno hanno in comune il prefisso inter-, il quale indica appunto una posizione intermedia o un rapporto di reciprocità: interdisciplinare, intermediale, intersezionale, a cui potremmo aggiungere interstiziale, intertestuale e altri termini che alludono allo stare nel mezzo. Nel mezzo a cosa, però, esattamente? Nel mezzo dei processi di significazione, tra i meccanismi di costruzione del senso nell’economia culturale e nei media, nelle zone d’ombra in cui produzione artistica e comunicazione si confondono, e nell’indeterminazione tra arte e vita. Il valore di questi spazi, pertanto, risiede proprio nella loro posizione, nella città ma al contempo tra le maglie che ne determinano il funzionamento, come specchi deformanti su cui le arti consentono di ridefinire i codici della società postindustriale.
Un estratto da Skank Bloc Bologna: Alternative Art Spaces since 1977 (Mousse Publishing, 2024) a cura di Roberto Pinto e Francesco Spampinato