H o iniziato a leggere Tremor, l’ultimo romanzo di Teju Cole, una mattina di novembre mentre andavo alla conferenza Slavery and the City organizzata dalla compagnia di assicurazioni Lloyds a Londra.
Scritto così potrebbe sembrare l’incipit ruvido di un racconto poco interessante, e forse in un certo senso potrebbe esserlo, se non fosse che, a fine giornata, ripreso l’autobus dalla City (dove si trova la sede di Lloyds) verso casa mi sono resa conto che tra i due eventi – quella specifica conferenza di cui a breve spiegherò e il libro di Cole, ora pubblicato in Italia come Tremore da Einaudi, trad. Gioia Guerzoni) – c’è una diretta connessione. Entrambi puntano il dito contro la pervasione totale del retaggio coloniale nella nostra vita quotidiana, dalle transazioni bancarie alla saponetta per lavarci le mani. Entrambi cercano di denunciare quel che ci sta di fronte agli occhi, ma che per una cecità quasi congenita, derivante da un’amnesia storica o forse da una mancanza di empatia, ci dimentichiamo, o forse rifiutiamo, di vedere. Eccetto che – la conferenza e il libro – questa denuncia la fanno, per forza di cosa, in due modi diversi e da due punti di partenza diversi, ma per spiegare cosa intendo devo fare un passo indietro.
Negli ultimi anni, sulla scia di un cinquantennio di riflessione teorica e attivismo politico guidato soprattutto da movimenti del Sud Globale e sulla spinta del crescente movimento Black Lives Matter, istituzioni pubbliche e private stanno cercando di confrontarsi concretamente con la persistenza di forme di sfruttamento di origine e matrice coloniale nei loro capitali, nelle collezioni e archivi che conservano e nelle attività che organizzano. Nessuno potrebbe negarlo: il retaggio della tratta atlantica non è solamente un trauma storico collettivo che si tramanda di generazione in generazione, ma è alla base di un sistema di disuguaglianze che permea le strutture sociali, il sistema economico globale, quello sanitario, ambientale, culturale (etc.).
Così al moltiplicarsi delle voci che accusano le maggiori istituzioni e compagnie commerciali di mantenere il silenzio sulle condizioni materiali (e non solo) che permettono la loro esistenza, queste stesse istituzioni e compagnie hanno risposto iniziando prima a intraprendere un percorso di “autoanalisi” per cercare di ricostruire e capire quanto esteso fosse il proprio coinvolgimento nella tratta atlantica o quanto implicate fossero nelle sue conseguenze, e poi impegnandosi in una serie di attività di “decolonizzazione” mirate a un confronto diretto con questo retaggio.
I primi risultati di questo processo, che per sua natura non può avere una conclusione ma può solo puntare a integrarsi nel modus operandi culturale, stanno iniziando ad emergere ora. Nei casi minimi si è assistito a un mea culpa pubblico, in quelli più ammirevoli i provvedimenti sono stati più sostanziali – istituzione di borse di studio per soggetti marginalizzati, mostre e talks, organizzazione di gruppi di studio, creazione di istituti di ricerca e programmi di restituzione, donazioni a comunità marginalizzate ecc. Tutte queste risoluzioni e attività, però, per quanto benvenute e per quanto intese ad offrire una qualche forma di giustizia riparativa, più spesso hanno rappresentato un semplice tentativo di pulirsi la coscienza. In fondo, al di là di un riposizionamento più etico, si tratta pur sempre di iniziative riparative fatte sulla base di una precedente privazione. Non solo, spesso queste iniziative finiscono per mantenere al proprio centro, come soggetto, il discorso colonizzatore. Non mirano cioè a una sua decentralizzazione.
Tutte queste risoluzioni e attività, per quanto intese ad offrire una qualche forma di giustizia riparativa, più spesso hanno rappresentato un semplice tentativo di pulirsi la coscienza.
Come scrivono Tuck e Wayne Yang in un ormai classico articolo dal titolo “Decolonization is not a metaphor”, la facilità con cui il discorso decoloniale è stato adottato da parte del colonizzatore ha finito per soppiantare ed escludere possibili altre forme di giustizia sociale, metodologie critiche o approcci che decentrino la sua posizione. “Invadendo il discorso decoloniale”, spiegano con un linguaggio a sua volta metaforico, “la metafora uccide ogni forma possibile di decolonizzazione, riporta al centro il discorso bianco, ristabilisce il dominio della teoria, estende l’innocenza al colonizzatore, contempla un futuro coloniale”.
La conferenza di Lloyds a cui mi stavo dirigendo aveva tutte le carte in regola per fare esattamente quanto criticato da Tuck e Wayne Yang, ovvero impegnarsi in un progetto di autodenuncia che, mostrando e quantificando il ruolo della compagnia nella tratta, suggerisse la volontà di assumersene la responsabilità e di trovare un modo per rimediare, se non altro da un punto di vista “discorsivo” e teorico. Certo si impegnava anche a investire circa 52 milioni di sterline in varie iniziative divise tra fondi per rilanciare business in Africa e promesse di ampliare la quota di persone di colore assunte nel settore assicurativo.
Ma cosa sono 52 milioni di sterline a fronte del capitale accumulato in oltre due secoli di contratti assicurativi stipulati con schiavisti per proteggere economicamente un carico navale di oltre tre milioni di persone dalla possibilità di ammutinamento, malattia o annegamento? L’ambiguità di queste iniziative non è passata inosservata tanto che un report, pubblicato alcuni giorni prima della conferenza sul Guardian, ha definito quella di Lloyds un’iniziativa di “reparations washing”, ovvero un tentativo di usare lo specchietto delle allodole delle riparazioni promesse per distogliere l’attenzione dal reale capitale accumulato durante e in relazione alla tratta.
Accompagnata da queste riflessioni ho preso posto nell’auditorium di Lloyds alle cui pareti spiccavano i ritratti dei vari direttori dalla fondazione ad oggi. La conferenza si è aperta con le dovute premesse e presentazioni. Slavery and the City si riprometteva di riunire accademici e ricercatori per parlare di progetti di ricerca impegnati a studiare e svelare l’infrastruttura finanziaria che aveva sostenuto la tratta atlantica. Non solo, l’evento avrebbe fornito l’occasione per il lancio di Underwriting Souls, un progetto di ricerca indipendente e mostre online guidato dal gruppo di ricerca Black Beyond e sostenuto da Johns Hopkins University. Da vari anni, e in particolare dal 2020 quando aveva ufficialmente “chiesto scusa”, ci ricordava l’archivista, Lloyds era impegnata a studiare il proprio coinvolgimento nella tratta coloniale.
I panel del mattino ci avrebbero proposto alcuni progetti che cercavano di quantificare il capitale maturato da Lloyds con la tratta, quelli del pomeriggio si sarebbero invece focalizzati su questioni più etiche e filosofiche. Questioni che, già sapevo, sarebbero state più in linea con le domande che mi avevano portata a partecipare a quella conferenza.
Cosa sono 52 milioni di sterline a fronte del capitale accumulato in oltre due secoli di contratti assicurativi stipulati con schiavisti per proteggere economicamente un carico navale di oltre tre milioni di persone?
Prevedibilmente, bastò il primo panel con la sua lunga sequenza di slide e grafici che mostravano l’aumento e la riduzione del numero di navi assicurate, le dimensioni del carico e le clausole dei contratti, per far calare nella sala tra i presenti un profondo disagio. Come si poteva pensare di poter ridurre la vita di 3 milioni e mezzo (questa la quota stimata per le navi inglesi su 12 presunti milioni di persone) milioni di vite umane a numeri, dati, punti in un grafico? Come poter rimanere seduti comodi nelle proprie sedie quando gli invitati parlavano delle perdite che il proprietario della nave avrebbe subito in caso di perdita del “carico”? E soprattutto come non agitarsi quando il responsabile degli archivi della Banca d’Inghilterra – un uomo bianco sulla cinquantina – spiegò che la Banca prendeva seriamente il proprio ruolo nell’economia coloniale tanto che recentemente si era impegnata a organizzare una mostra (Slavery and the Bank) in cui era stato installato un pannello con la lista di 599 schiavi posseduti dalla banca per ridare loro la propria identità, un nome, una vita? Una mostra dove, commentò una donna del pubblico di probabile origine giamaicana, a pochi metri dal decantato pannello era esposto un lingotto d’oro probabilmente ottenuto commerciando le stesse persone a cui si “ridava una vita” nel pannello?
Quanto più procedeva la mattinata, tanto più diventava tangibile la mancanza della più basilare empatia per quelle vite ridotte a numero che si volevano riportare al centro della conversazione in un presunto processo di “decolonizzazione” che aveva piuttosto i contorni di una nuova forma di sfruttamento. Gli interventi del pomeriggio, fortunatamente, ricondussero i dibattiti in uno spazio più abitabile. Gli sguardi non erano più diretti a grafici e numeri, ma a dibattiti su cosa significasse “decolonizzare”, su come coloro che portavano sulle spalle le conseguenze del trauma storico della tratta potessero far sentire la propria voce, se (e come) si potesse decentralizzare l’istituzione.
Non so se sia un caso – non lo escludo, anche se credo non sia singolare – ma tutti gli interventi del pomeriggio furono da parte di persone di colore e donne, mentre quelli del mattino da parte di uomini bianchi. Si potrebbe suggerire una coincidenza basata sulle discipline – storia politica ed economica al mattino, scienze umane al pomeriggio – ma anche in questo caso la distribuzione delle identità potrebbe essere sintomatica di una diversa distribuzione delle risposte affettive.
Uno degli interventi più interessanti del pomeriggio riguardava la narrazione del trauma e in particolare rifletteva su come si potesse cercare di raccontare l’impatto del colonialismo e in particolare della tratta atlantica senza continuare a ri-deumanizzare vite già una volta ridotte a numeri. Una risposta naturalmente non c’era, e in un certo senso non ci sarà mai, ma unanime sembrava essere l’ipotesi che solo un approccio “umanista” avrebbe potuto garantire una qualche forma di “empatia radicale”.
Come poter rimanere seduti comodi nelle proprie sedie quando gli invitati parlavano delle perdite che il proprietario della nave avrebbe subito in caso di perdita del “carico”?
Finita la conferenza, rientrando a casa su un bus rallentato dal traffico serale, ho ripreso in mano Tremor e iniziato a leggere il quinto capitolo. Il libro, anche se definito romanzo, è piuttosto un testo a tesi. Cole usa il protagonista Tunde – un fotografo che insegna all’università e viaggia tra Nigeria e Europa – per riflettere su una serie di questioni che stanno da anni al centro della sua produzione saggistica, come il rapporto tra cultura visuale e razzismo, la pervasività di un imperialismo culturale occidentale, il sistema del mercato dell’arte e il suo rapporto con progetti di decolonizzazione, l’importanza e la storia della cultura musicale per le comunità di origine africana (cfr. The Black Atlantic di Paul Gilroy).
In una sequenza di capitoli quasi auto-conclusivi, Tunde prima visita un negozio di antiquariato e riflette su quanti degli oggetti in vendita siano stati confiscati alle comunità indigene massacrate negli stessi luoghi in cui sorge ora il negozio, poi riflette sulla visita a Manifesta (una tra le più importanti manifestazioni di arte contemporanea mondiali) e su alcune opere prodotte da artisti africani, in particolare su una composta da una serie di saponette nere che ricordano da un lato l’artigianato africano, dall’altro rimandano tanto al rapporto tra candore e bianchezza, quanto alla storia di alcune compagnie commerciali coloniali (come Imperial Leather) tutt’ora oggi attive. In un capitolo dà voce ai cittadini di Lagos per raccontare le loro ambizioni, difficoltà, sogni e incubi, in un altro riflette sull’improvvisazione jazzistica, in altri ancora sulla mascolinità nera o sui contorni sempre più fluidi delle relazioni di coppia.
Il quinto capitolo è forse il capitolo più manifestamente saggistico di tutto il libro. È una lezione che Tunda tiene di fronte a un pubblico di storici dell’arte e curatori al Museum of Fine Arts di Boston. La lezione si divide in tre parti – la prima dedicata a un quadro di W. J. Turner, la seconda alla storia dei passaggi di proprietà di Landscape with Burning City del pittore fiammingo Herri met de Bles e la terza a quella del saccheggio dei bronzi del Benin e alla distruzione della civiltà che li ha prodotti – e intende riflettere da un lato sul ruolo dell’arte e dei musei nel più ampio dibattito sulla decolonizzazione, dall’altro sull’importanza e il valore della restituzione (repatriation). Attraverso la storia di queste opere e delle vicende (personali e legali) che le hanno viste passare di volta in volta nelle mani di collezionisti implicati in imprese coloniali o dittature moderne, Teju Cole dichiara apertamente la sua posizione sulla restituzione. A fine lezione, infatti, Tunde annuncia che quanto ha detto fino a quel momento:
È un invito a prendere la restituzione seriamente, un invito a re-immaginare il futuro dei musei, a non vederli più come spazi di conoscenza superiore o depositi di mondi rubati ad altre persone, ma come luoghi di modulazione in cui imbastire nuove conversazioni sulla giustizia. Da tempo, i musei stringono a sé e amano gli oggetti altrui con una presa mortale. Non potrebbero iniziare ad abbandonare questo amore mortale? Potrebbero seguirne nuovi amori, emergere nuove possibilità. Se lo si facesse, probabilmente in futuro le collezioni cambierebbero, ma così anche il nostro senso di proprietà nei confronti delle opere che hanno importanza storica. Quello che voglio suggerire è che non dobbiamo avere paura di questo cambiamento.
E, immaginando che qualcuno possa abiettare che certi musei, soprattutto quelli che si trovano in zone di guerra siano troppo a rischio per poter proteggere le opere rimpatriate, risponde:
Forse gli avrei risposto (al presunto obiettore) che un’etica che insiste nel porre il valore di un’opera d’arte al di sopra di quello della vita umana non è un’etica. Forse avrei fatto meglio a cercare di persuaderlo che quel che volevo fare non era dargli una risposta brillante ma condividere la mia sofferenza per la lunga storia di persone bianche che pensano di sapere tutto meglio di noi non bianchi.
Il saggio offre una visione lucida e ragionata (purtroppo per certi versi ancora in parte utopica) del ruolo che i musei possono rivestire nel processo decoloniale e la posizione di Cole, è evidente, è in linea con quella di Tuck e Wayne Yang – restituire non è una metafora, ma un’azione reale. Tuttavia, per quanto il saggio nel complesso rappresentasse una risposta a quanto avevo assistito nelle ore precedenti da Lloyds, non fu il discorso complessivo portato avanti da Tunde/Cole a catturare la mia attenzione, quanto il passaggio sul quadro di Turner.
J. M. W. Turner, racconta Tunde, dipinse Slave Ship (Slavers Throwing Overboard the Dead and Dying, Typhoon Coming On) nel 1840 reimmaginando un episodio avvenuto sessant’anni prima di cui aveva letto in un libro di Thomas Clarkson – The History and Abolition of the Slave Trade. Stando al resoconto di Clarkson, nel 1781, Luke Collingwood, capitano della nave Zong, avendo perso la rotta che dall’attuale Ghana lo avrebbe dovuto condurre in Jamaica, per poter contenere le perdite, avrebbe deciso di liberarsi del “carico” di schiavi gettandoli in mare per poi richiedere un indennizzo alla compagnia di assicurazioni. Il caso fece clamore all’epoca, ma nonostante l’attenzione mediatica e il rinvio ad appello in seguito al primo verdetto in tribunale, nessuno a bordo della Zong fu accusato di omicidio, né gli assicuratori furono costretti a pagare l’indennizzo.
Restituire non è una metafora, ma un’azione reale.
Turner era abolizionista e dipingere quel quadro rappresentava un suo contributo al crescente dibattito a favore dell’abolizione della schiavitù, che se pur formalizzata legalmente nel 1831, di fatto continuò almeno fino al 1860-70.
Quando fu completato, il quadro fu esposto al Royal College of Arts in concomitanza con l’organizzazione delle due prime convention internazionali contro la schiavitù a Londra – “The General Anti-Slavery Society” e la “Society of the Extinction of the Slave Trade and the Civilization of Africa”. Nonostante il quadro dovesse scuotere gli animi – e sicuramente in parte lo fece – furono piuttosto la rappresentazione del sublime, la scelta di ambientare i fatti all’incombere di una tempesta, l’impasto infuocato del tramonto, la perfezione di quello stile così unico, a catturare l’attenzione generale. Quattro anni dopo la sua prima esposizione, il quadro venne acquisito da Ruskin, che gli dedicò un importante saggio in cui ne declamava le qualità estetiche e si spingeva a definirlo l’apice della produzione del pittore inglese. Lo stesso Ruskin, nel 1872, lo vendette al Metropolitan Museum di New York che nel 1876 lo mise all’asta da cui lo acquisì il Museum of Fine Arts di Boston. Lo stesso museo dove Cole ambienta la lezione nel quinto capitolo di Tremor.
Il dipinto, continua Tunde, registra l’orrore della tratta oltre la sua rappresentazione visuale. Lo registra verbalmente nella scelta del titolo che include le parole “slave” e “slaver” (dove quest’ultima appare tra parentesi quasi fosse una notazione secondaria) e lo registra nel dibattito che il dipinto ha generato tra collezionisti e critici che si sono soffermati sulle qualità estetiche del quadro a discapito del contenuto della rappresentazione, che hanno lodato precisione della rappresentazione delle variazioni cromatiche del cielo e dell’acqua e criticato l’imprecisione e disproporzione di quella dei corpi gettati in acqua, che si sono interrogati sul significato metaforico dell’approssimarsi della tempesta invece che sull’intento politico di Turner.
Com’è possibile trovarsi di fronte al quadro e apprezzarne le qualità pittoriche senza vedere che in primo piano, sul fondo, ci sono corpi umani gettati in mare per reclamare un compenso economico?
“È facile perdersi in discorsi sui dettagli tecnici di un quadro. In fondo, oltre il quadro, c’è l’orrore”.Forse, taglia corto Tunde, di fronte all’orrore reale qualunque linguaggio diventa inutile. Forse bisogna accettare di non poterne parlare. O forse invece bisogna provare a parlare dell’impossibilità e del fallimento del linguaggio di fronte all’orrore. Bisogna leggerlo tra le righe, in filigrana, fuori dall’inquadratura. Forse bisogna avvicinarsi così tanto al quadro da far scomparire il cielo in tempesta che circonda la nave, vedere solo i lembi dei corpi che cadono in acqua, far sì che ogni pennellata si dissolva in un campo di colore e si sentano solo le ultime parole delle persone in acqua e i garriti dei gabbiani che volano sopra alla Zong. O forse bisogna fare come la poeta M. NourbeSe Philip che nel poema Zong! ha assemblato frammenti tratti dal processo per l’indennizzo al capitano Collingwood e creato un testo incantantorio, quasi un “ululato” privo di senso, basato su ripetizioni e fughe, che ha recitato accompagnata da danza e musica di fronte a uno schermo su cui apparivano i possibili nomi delle persone gettate in mare.
L’arte, suggerisce sempre Tunde, è anche l’unico strumento per poter creare le basi di un’empatia radicale, condizione necessaria per poter tentare di avviare un processo di riparazione etica.
È a questo punto che si è manifestata la convergenza tra il libro di Cole e la conferenza della giornata. Non tanto nel fatto che la nave Zong avrebbe potuto essere stata assicurata proprio da Lloyds, quanto nel fatto che entrambi dimostrano quanto siano pervasive e ancora profondamente strutturate le conseguenze del colonialismo, quanto sia facile viverci costantemente immersi senza vederle e quanto importante – se non addirittura unico – sia il ruolo dell’arte nel riportarle al centro del nostro sguardo e di permetterci di intraprendere un percorso di riflessione decoloniale.
Si potrà obiettare che, volendo rifuggire la trappola della decolonizzazione come “metafora”, ritornare a declamare l’arte una metodologia di etica della cura e strumento decoloniale significhi ricadere nel tranello della riparazione discorsiva, eppure quello che fa il protagonista del libro di Cole nel descrivere la cecità e l’apatia morale generale di fronte a un quadro di Turner è un j’accuse teso a smuovere le coscienze e invitare a guardare meglio, o anzi a imparare guardare. È una metafora che vuole generare un’azione. Non è un caso, infatti, che la lezione si chiuda con una presa di posizione a favore di un ripensamento radicale della funzione dei musei e all’invito a impegnarsi alla rimpatriazione.
Ma non solo. L’arte – visiva, testuale o performativa che sia – suggerisce sempre Tunde, è anche l’unico strumento per poter creare le basi di un’empatia radicale, condizione necessaria per poter tentare di avviare un processo di riparazione etica. Sono le opere che mostrano senza mostrare, che parlano senza parlare, che distorcono senza ambire a dettagliare, che cioè mettono in scena l’impossibilità di raccontare, le uniche a riuscire ad avvicinarsi davvero all’heart of darkness del colonialismo inglese e, in senso più lato, al trauma storico. E qui si potrebbero menzionare liste infinite di esempi a sostegno di questa teoria (uno tra tutti: Anselm Kiefer, se vogliamo guardare all’olocausto, ma anche il lavoro critico e testuale di Sadiya Hartman).
Similarmente, alla conferenza di Lloyds l’unico momento in cui si è davvero generato un dibattito che avesse dei contorni vagamente etici è stato quando, nel pomeriggio, gli ospiti hanno iniziato a parlare dell’importanza degli interventi creativi nei propri archivi e a interrogarsi su come si possa intraprendere un reale percorso di giustizia riparativa (sottointendendo in tal modo che quel che Lloyds stava facendo non era riconducibile a ciò). Finché il discorso si è limitato a dati, grafici e descrizioni, l’unica risposta emotiva possibile è stata quella del disagio.
Là dove non si riesce a parlare, l’approccio creativo è l’unico strumento che permette un confronto diretto con i silenzi e le omissioni del passato.
Una risposta probabilmente a sua volta importante perché anche il disagio – il discomfort – può avere una valenza propulsiva nella ricerca di una negoziazione etica. Descrivere solamente in contorni dell’orrore, prendendone atto senza cercare di interagirci, scusandosi senza mettersi in gioco, cercando una riparazione economica senza l’impegno in un processo di ricostruzione collettiva, sono processi destinati a cadere nel vuoto perché non portano a una reale messa in discussione e alla decostruzione delle strutture di ineguaglianza che innervano la nostra società. Là dove non si riesce a parlare, l’approccio creativo è l’unico strumento che permette un confronto diretto con i silenzi e le omissioni del passato, che produce e interroga il disagio che nasce dalla presa d’atto della responsabilità in un massacro e pone le basi per un dialogo collettivo che permetta di muoversi verso un luogo dove si possa coabitare più confortevolmente con la consapevolezza del passato e un proposito di giustizia sociale per il futuro.
Tanto la conferenza, quanto Tremor, mi hanno ricordato con quanta semplicità ci siamo abituati a dimenticare di vedere l’orrore e l’ingiustizia che ci circondano. La conferenza lo ha fatto mettendo in scena un fallimento, ovvero mostrando come non si possa decolonizzare un’istituzione solamente misurando la portata degli errori del passato e offrendo una lista di iniziative e quote riparative; la lezione di Tunde, invece, lo ha fatto prima mostrando come privilegiare il valore estetico dell’arte su quello etico renda complici nel mantenimento di un sistema coloniale, e poi indicando possibili vie riparative (la decolonizzazione dello sguardo, la trasformazione del ruolo delle istituzioni culturali, il rimpatrio di opere d’arte confiscate, l’esercizio delle arti creative in generale). Anzi, non solo ha indicato possibili vie, ma ne ha anche offerto un esempio attraverso la scrittura di Tremor.