C ome un albero che condivide le sue origini con il terreno, le radici, la società nasce nella natura ma si espande nel sole e nel vento della storia, sviluppando proprietà diverse dall’humus che l’ha originata. In tempi di nuove ontologie spericolate, di tentazioni escapiste, fughe dalla realtà condivisa, quella di cui abbiamo bisogno è forse una chiamata al realismo – nel senso più ampio del termine, non letterario. Il virus, incapace di riflettere su se stesso e di votare, è una definizione pura di realismo: dopo anni di venti apocalittici che hanno maturato un’estetica della fine, un’immagine coordinata direi – saccheggiando dal linguaggio corporate – declinata nelle arti visive e letterarie, musicali, figurative, è apparso il virus feroce, muto come un sasso ma dotato di – saccheggiando dal linguaggio sociocognitivo – pura agency trasformativa, ovvero la capacità di farci male solo esistendo, strappando nel giro di qualche mese ogni nostra velleità, scambio di valore sociale, ma anche scambio e basta; l’unica cosa che non si è del tutto bloccata, in realtà, è proprio il mercato, i rami più alti dell’albero. Il motore economico ha continuato a ronzare, a basso voltaggio, in un mondo che – nonostante la sua fine, per come lo conosciamo – non sembra riflettere sulle sue storture, i nodi che strozzano l’albero. Alle radici invece, dove le basi di ogni cultura prendono nutrimento dall’ambiente che la ospita, dove l’uomo si mescola all’animale: lì, regna il caos. Amuleti magici, pozioni, preghiere, forconi. La verità, però, va scandita e ripetuta. Si tratti della pandemia o del clima, che in fondo sono sinonimi, il doppio taglio della stessa lama: il fatto che il riscaldamento globale sia calcolato attraverso concetti astratti, deduzioni e misure non significa che il riscaldamento globale sia composto di astrazioni; il fatto che a dircelo sia la comunità scientifica, un prodotto della società forte delle sue strutture di potere e dei suoi paradigmi conoscitivi, non significa che il riscaldamento globale sia un complotto; il fatto che a un aumento della CO2 corrisponda quello delle temperature è una verità che precede la sua misurazione e le opinioni soggettive; il fatto che questo aumento sia dovuto alle attività estrattive, azioni dell’uomo, non è soggettivo e responsabilizza chi si occupa del bene pubblico.
A che cosa serve la letteratura? A niente. Eppure: lo spirito delle religioni è il racconto, e il marmo del dogma si scava nella credulità per il racconto: più a fondo si scava, più è pura la pietra. E così vale per i regimi dittatoriali, così vale per la politica di oggi, che – affidandosi al mondo dello spettacolo, e non il contrario – è diventata materia da tifoseria. Quando parliamo di Letteratura parliamo di una matrice di racconti che si specchia nella sua tradizione, il passato, dove questa matrice trova le istruzioni della vita, cioè da dove viene, come vivere, dove proiettarsi. In un mondo di storytelling a due dimensioni, la letteratura è racconto cubico: ti racconta una storia, o l’assenza di questa, interrogandoti sul tuo rapporto con la realtà del mondo: “la realtà del mondo”, è un’espressione senza significato, è un’invenzione letteraria; la CO2 che ti soffoca, come abbiamo detto è una realtà fisica; una realtà letteraria che introduce alla realtà fisica del mondo è capace di sconvolgere il presente, scuoterlo, riscrivere il futuro.
Intorno a questi temi, uno dei libri più citati degli ultimi anni è La grande cecità di Amitav Ghosh. Il titolo originale del pamphlet è The Great Derangement, il grande squilibrio: perché non solo siamo ciechi di fronte a trasformazioni che superano le nostre capacità percettive, ma chi dovrebbe raccontarle – scrittori, divulgatori, artisti in generale – le ignora. O inizia a occuparsene con grave ritardo.
Nel corso del tempo, la natura è stata consegnata alla scienza, rimanendo preclusa alla cultura. L’abisso che oggi divide natura e cultura è il risultato di uno degli impulsi originari della modernità, secondo Ghosh – che riprende le idee di Bruno Latour. Una divisione e un rimosso che hanno portato al distacco degli scrittori dalle questioni scientifiche, degli intellettuali dalle questioni climatiche e, di riflesso, degli scienziati dal dibattito culturale. Nel giro di poco tempo La grande cecità è stato ripreso e citato da scienziati, ricercatori, artisti, giornalisti e scrittori – che forse hanno sentito, per una volta, di essersi trovati finalmente raccontati dalla stessa storia.
Carla Benedetti, nel suo La letteratura ci salverà dall’estinzione, proietta i ragionamenti di Ghosh sul piano dell’immaginazione romanzesca. Scrive che la modernità ha tolto potenza al mezzo letterario, ha sminuito il peso che invece aveva la letteratura antica, il coraggio della parola che trasporta un pensiero. La teoria letteraria moderna attribuisce oggi ai romanzi una funzione minore, quella di rappresentazione del reale. La modernità avrebbe trasformato la natura nel fondale inerte delle vicende romanzesche, dove l’ambiente è costituito esclusivamente da relazioni sociali, culturali, psicologiche, astratto dalle altre relazioni in cui la nostra condizione di esistenza è immersa. Benedetti si augura che, in reazione alla crisi climatica, si riesca a rompere la finzione, che qualcuno arrivi a immaginare una nuova epica capace di comprendere tutte le voci del pianeta, che si apra di nuovo alle forze della natura, all’avventura collettiva e non solo a quella individuale, che racconti come si intrecciano i destini di donne e uomini, viventi e futuri, e di tutte le altre specie.
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Nel cervello della nostra specie è incisa una “predisposizione narrativa”, un’inclinazione invincibile che si manifesta nel modo in cui gli esseri umani si interessano al mondo e cercano di decodificarlo e abitarlo: gli esseri umani vivono costruendo storie. Cosa comporta questo, quando passiamo a ragionare di letteratura? Che devono esistere storie più “giuste ” di altre? Storie che sarebbe “bene” raccontare, per aiutarci a sopravvivere in epoca di crisi, politica, economica, sociale e climatica? È questo che dovrebbero fare anche i libri, i romanzi e non solo le narrazioni politiche?
Istintivamente ho sempre diffidato di una visione utilitaristica della letteratura, di una visione “civile” e “morale” di questo tipo. Provo a spiegare perché, iniziando dalle fondamenta di tutto: le parole.
In Reality Giuseppe Genna ripercorre i mesi drammatici del primo lockdown in Lombardia e innesta nel suo racconto personaggi e vicende di pura invenzione. Scrive: “Non è possibile essere giornalistici, bisogna lasciar brillare parole antiche e inventarne di nuove”. Mi ha fatto tornare in mente un libro di Victor Klemperer, grande filologo tedesco: LTI, La lingua del Terzo Reich, un’analisi di come, grazie all’uso del linguaggio, il regime nazista sia riuscito a modificare nel profondo il pensiero di un intero paese, anche un paese colto e avanzato come la Germania degli anni Trenta. Il Terzo Reich ha risignificato alcune parole: fanatismo, per esempio, indicava una debolezza, la mancanza di razionalità e di logica. La parola venne rovesciata fino a trasformarla in un termine centrale e positivo della lingua nazificata, qualcosa a cui ogni buon cittadino tedesco doveva aspirare con virtuosismo e fervore.
Chi controlla il linguaggio controlla il nostro pensiero, perché il linguaggio non è un mezzo; noi siamo parlati dal linguaggio, esistiamo solo dentro il linguaggio, perché “i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Questo la propaganda politica lo ha capito sin dai tempi di Pericle. Le parole hanno il potere di indirizzare i nostri pensieri, e di conseguenza possono arrivare a cambiare il mondo. E le storie? Dominio di Marco D’Eramo racconta la battaglia e lo scontro tra le ideologie – in Occidente, nel mondo capitalista, negli ultimi cinquant’anni – come una guerra di comunicazione, framing, narrazioni. Il libro si apre con un’analisi dei manuali di controguerriglia dell’esercito americano, documenti militari che prendono molto sul serio i modi in cui le ideologie percolano nelle società e compattano gli individui proprio attorno alla diffusione di alcune narrazioni. Scrivono i generali David H. Petraeus e James Ames:
Il meccanismo centrale attraverso il quale le ideologie sono espresse e assorbite è la narrativa. Una narrativa è uno schema organizzativo espresso in forma di storia. Le narrative sono centrali nel rappresentare le identità. […] Le narrative sono i mezzi attraverso cui le ideologie sono espresse e assorbite dagli individui in una società […]. Dando ascolto alle narrative [si può] identificare il nucleo dei valori chiave della società.
I corpi sono agiti dalle narrazioni: se è così, la tentazione o l’intenzione “civica” può essere allora proprio quella di usare le parole per curare, per provare a riparare il mondo, a cambiare la società. Di conseguenza, l’obiettivo più nobile di uno scrittore impegnato davanti al riscaldamento globale dovrebbe essere quello di trovare un nuovo immaginario che possa raccontare il clima che cambia, gli iperoggetti, le complessità della scienza, il rapporto tra uomo e natura, tutte questioni sotterranee eppure estese, tentacolari, interconnesse, paurose e seducenti e che sono state ampiamente ignorate dagli scrittori negli ultimi decenni. Il libro di Ghosh in fondo lamentava proprio questo: la mancanza delle questioni climatiche nei romanzi borghesi, il controsenso del fatto che nessuno, nel flusso della letteratura mainstream, sembrasse interessato a raccontare, fino a qualche anno fa, la storia più importante, globale e complessa di sempre.
Ho avuto l’occasione di intervistare Ghosh, e in uno scambio via email gli ho chiesto, tra le altre cose, se per lui la scrittura dovesse per forza “servire a qualcosa”. Mi ha risposto anche lui di no: la scrittura non può essere programmatica. “Dalla scrittura che ha come prima intenzione quella di servire come megafono di una causa, raramente nasce buona letteratura. Allo stesso tempo, com’è ovvio, scrittori e artisti non possono ignorare o evitare le questioni più urgenti dei loro tempi.” Non si è però spinto più in là di così. “Che cos’è che rende bella un’opera d’arte o un’opera letteraria è fondamentalmente un mistero, perlomeno nel senso che non abbiamo a disposizione nessuna formula precisa.”
Il fatto è che le storie e la letteratura non sono la stessa cosa.
Qual è la materia della letteratura e in che modo differisce dagli altri saperi umani? Negli ultimi anni ho sentito Emanuele Trevi ripetere spesso una cosa sulla quale mi sono trovato d’accordo, e che riassumerei così: la letteratura è la scienza impossibile dell’individuo (come diceva Barthes), è una scienza che si specchia in una superficie distorta, incoerente, è la reazione del singolo individuo alla pressione del mondo. Nella letteratura cerchiamo le tracce di un’esistenza, di un destino instabile e transitorio. È una materia informe, forse indomabile, che di sicuro viene svilita quando si cerca di modellarla in maniera ortopedica, quando si usa la letteratura, cioè, per lanciare un richiamo morale, per un esercizio di pedagogia civile.
Walter Siti, nella sua raccolta di saggi Contro l’impegno, scrive che la letteratura non può essere “un altoparlante che fornisce alla cronaca un maggior potenziale persuasivo e di memoria”: deve essere piuttosto “un filtro che trattiene l’essenziale dalla cronaca e lo complica mescolandolo con cose che non sono cronaca”.
Se il fine ultimo dell’arringa è la persuasione, quello dei romanzi deve essere invece lo smarrimento: “mentre per un politico scatenare l’irrazionalità è pericoloso e per un giornalista l’ambiguità è un vile difetto, la letteratura invece si fonda sull’ambiguità, sull’ambivalenza (detesto/amo, sono io/ non sono io), e sulla suggestione irrazionale”. E poi:
Il maggiore obiettivo della letteratura non è la testimonianza ma l’avventura conoscitiva. E non è un problema di “purezza” ma quasi il contrario, di ambiguità: soltanto la letteratura, tra i vari usi della parola, può affermare una cosa e contemporaneamente negarla; perché ambigua è la nostra psiche, ambiguo il nostro corpo – le ambiguità rimosse possono portare a esiti controproducenti, a false euforie. L’ambiguità, lo spessore, la polisemia fanno emergere quel che non si sa ancora; per questo la letteratura non può prestarsi a fare da altoparlante a quel che già si crede giusto. La si umilia, così; per questo dare importanza allo stile non è diserzione – non tutte le battaglie si combattono con fucile ed elmetto.
Estratto da Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) (Not Nero Editions, 2021), in uscita il 22 settembre.