I n Cani selvaggi, indimenticabile romanzo di Helen Humphreys, un gruppo di persone si ritrova tutte le sere ai margini del bosco di una cittadina di provincia canadese per chiamare i propri cani fuggiti dalle case che li hanno visti crescere, ripetendo i loro vecchi nomi senza mai vederli ritornare. “Quando vivevano con noi, i cani non capivano il nostro amore e di certo non lo capiscono adesso” dice una delle protagoniste all’inizio. “Ciò che provavano per noi, qualunque cosa fosse, non è ciò che chiamiamo amore”. “No, non è amore. È appartenenza” continua. “Un tempo facevamo parte della vita di questi cani, appartenevamo loro e, adesso che ci hanno lasciato, non sappiamo più chi siamo”. Le sue parole riaffiorano alla mente assertive come un presagio tra le pagine dei libri della scrittrice e filosofa ambientale olandese Eva Meijer, che da anni porta avanti una ricerca stratificata ed eterogenea attorno alle possibili interazioni della nostra specie con la materia intorno.
Ci sono nascondigli in cui gli altri non possono raggiungerci, sentimenti irraccontabili a parole che richiedono una lingua diversa. Nel suo più recente I limiti del mio linguaggio (Nottetempo, 2024, traduzione di Chiara Nardo), Meijer descrive come solo gli animali hanno saputo starle accanto nei periodi più bui della sua depressione, senza chiederle nulla o pretendere in cambio qualcosa che non avrebbe potuto offrire. Meijer racconta di come sia stata una cagna di nome Pika a permetterle di sopravvivere al dolore dopo aver sospeso gli antidepressivi, anche e soprattutto attraverso una pratica quotidiana condivisa: camminare. “Camminare produce effetti sul pensiero”, scrive Meijer, può aiutarti a sentirti a casa nel mondo. “È il mondo stesso ad aiutarti: quanto più grande e ampio è ciò che ti circonda – che sia un panorama o un bosco – tanto più intensa è la sensazione di far parte del tutto”.
Dire “mondo” in questo caso – e non “natura” o “ambiente”, per esempio – è una scelta accurata. Perché rispetto a quel tutto implica una continuità più che esplicitare una separazione, anche e specialmente in termini di intelligenza. Se – come ha mostrato la critica femminista alla scienza moderna e la letteratura più recente sta mettendo in chiaro – ciò che non è umano ha una sua propria grammatica, il fatto che la maggior parte delle volte la nostra specie non sia in grado di riconoscerla non significa che non esista. Come ogni sguardo, il nostro è uno sguardo parziale e situato sulle cose, sempre e comunque definito dalla nostra prospettiva, tutt’altro che neutro o oggettivo. Nel frattempo il mondo ci parla, accorgersene è una questione di ascolto, e nel processo di traduzione che potrebbe scaturirne il linguaggio animale funziona come il nesso in qualche modo a noi più prossimo, un’occasione in grado di ancorarci al resto della materia viva.
Tra le pagine di Linguaggi animali. Le conversazioni segrete del mondo vivente (Nottetempo, 2021, traduzione di Stefano Musillo), forse il saggio più importante di Meijer, se ne avverte una percezione precisa. “Se avrete un po’ di fortuna” scrive nella prefazione “incontrerete un animale che vorrà parlare con voi”. Non si tratta di buttarsi a capofitto nell’apprendimento di un’altra lingua, ma di fermarsi a osservare un paesaggio fino a prima sconosciuto. Un linguaggio, spiega Meijer, riprendendo Wittgenstein, è sempre legato a un modo di vivere e quindi assume significati specialmente all’interno di pratiche e contesti: è solo quando una specie condivide con le altre “vite, case e habitat” che “la comprensione si fa più profonda”. Impossibile non pensare al manifesto delle “specie compagne” della teorica femminista californiana Donna Haraway, e a tutte le possibili declinazioni che questo costrutto ha assunto nei suoi successivi When Species Meet e Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Le interazioni che Meijer racconta nel suo saggio sono basate su legami consolidati tra individui appartenenti a specie diverse, parentele inventate più reali di quelle che potrebbero intercorrere tra creature consanguinee, articolate attorno a strutture simili a quelle di un gioco material-semiotico. È così che psicologhe e pappagalli, etologhe e scimpanzé, biologhe e delfini, custodi di zoo ed elefanti si ritrovano a intrattenere vere e proprie conversazioni amorose.
Finché le definizioni di linguaggio saranno basate sul linguaggio umano favoriranno sempre la nostra specie.
Situare l’attenzione sul rapporto tra uso e significato, scrive Meijer, che oltre a essere una scrittrice e filosofa si misura da anni con la composizione musicale e le arti visive, “offre una nuova prospettiva dalla quale studiare la comunicazione linguistica degli animali e con gli animali, affrancandoci dallo scetticismo sulle loro capacità di pensiero”. È quello che succede negli studi della biologa Denise Herzing, che impiega tecniche digitali per codificare il linguaggio dei delfini. O nella ricerca sul canto degli uccelli, sulla cui struttura, spiega Meijer, si sa già abbastanza ma bisognerebbe portare avanti “un esame dei rapporti sociali e del contesto in cui il canto ha luogo” per coglierne appieno i risvolti.
In ogni caso, scrive Meijer, è il momento di diventare coscienti di un limite epistemologico: finché le definizioni di linguaggio saranno basate sul linguaggio umano favoriranno sempre la nostra specie; nell’osservazione dei linguaggi animali dovremo necessariamente includere altre caratteristiche. Spostare il fuoco dalla mente (umana) al(la mente del) mondo significa non solo riconoscere che il modo in cui ogni creatura si esprime appartiene a una cultura di riferimento, ma anche comprendere che il linguaggio eccedendo la lingua intercetta sempre una dimensione “pubblica” – o, come direbbe la filosofa australiana Freya Mathews, che a partire dal pensiero di Leibnitz e Spinoza ha teorizzato un panpsichismo contemporaneo, fare i conti con un’intelligenza più estesa, di cui tutte le creature sono parte attiva, ognuna con i suoi codici e con i suoi alfabeti.
Certo, potrebbe essere un processo doloroso. Alla nostra specie fa comodo continuare a credere che tutto ciò che non è umano sia privo di intelletto. “Normal people put people first”, scriveva nel 1997 Joy Williams nel suo saggio The Inhumanity of the Animal People: gli umani non vogliono che gli animali ragionino, sarebbe un’esperienza insostenibile, “provocherebbe ogni sorta di imbarazzo e senso di colpa. Farebbe sembrare il modo in cui li trattiamo irragionevole. Il fatto che gli animali siano senza voce è un sollievo per noi, ci libera dal provare empatia o dolore”. Eppure, continuava “se gli animali avessero una voce, se potessero parlare la lingua degli angeli, quantomeno la lingua degli angeli, è improbabile che potrebbero salvarsi dall’umanità”.
Ci ripenso mentre leggo Meijer nelle strade di una Londra invasa dallo zoo in rivolta di Banksy, che da qualche settimana sta riempiendo i muri di animali esotici in fuga da uno stato di cattività o forse intenti a prendersi la città una volta per tutte, instaurarci un regno più giusto. Nonostante possa essere ambiguo e ingannevole, il linguaggio, scrive Meijer “ci apre lo sguardo sulle vite interiori degli altri”, è il presupposto di qualsiasi relazione. Solo dall’interno di una relazione potremo riconoscere che i linguaggi animali “possono presentare strutture complesse, essere simbolici e astratti, riferirsi a situazioni passate o future, non vincolate al qui e ora”. Ci sono pipistrelli che si chiamano per nome, balene che articolano canti per trasmettere sentimenti, elefanti che per anni fanno ritorno ai luoghi in cui sono morti i loro cari, uccelli che imparano a contare per la gioia di farlo.
Alla nostra specie fa comodo continuare a credere che tutto ciò che non è umano sia privo di intelletto.
Accade così, nel romanzo che Meijer dedica alla vita di Len Howard, Il cottage degli uccelli (Nottetempo, 2022, traduzione di Stefano Musillo), appassionata osservatrice di uccelli nata nell’Inghilterra di fine ‘800, che dopo aver lasciato la famiglia per andare a Londra ad esibirsi in un’orchestra come violinista, abbandona le promesse della città e si trasferisce da sola nella campagna del Sussex, trasformando una vecchia casa estiva nella residenza condivisa con una comunità di cinciallegre selvatiche. “Capii subito che Star era speciale” racconta la protagonista del romanzo parlando di una di loro. “Il suo talento per i numeri era fuori dal comune, come pure la gioia che traeva dal contare. Non lo faceva in cambio di qualcosa: le piaceva e basta. Contava per il gusto di collaborare con me”.
Nonostante il suo metodo sia stato ritenuto poco solido dalla scienza ufficiale perché basato su una serie di intuizioni più che su una formazione accademica, Howard è stata una delle prime a sostenere che l’osservazione degli animali all’interno dei loro habitat fosse più rilevante per un’approfondita comprensione dei loro comportamenti. Le notazioni e gli schizzi raccolti per anni sui suoi quaderni hanno rappresentato un corpus inestimabile di informazioni sul linguaggio degli uccelli in libertà. Questo le è valso un riconoscimento da parte di editori, scienziati e giornalisti che grazie anche alla pubblicazione dei suoi due libri Birds as Individuals (Collins, 1952) e Living with Bzirds (Collins, 1956) l’hanno considerata una pioniera dell’ornitologia.
“Per accorgersi di certe cose ci vuole tempo. A Londra avevo troppe distrazioni” dice Len nel romanzo che ricostruisce la storia della donna immaginandone le pagine mancanti, e a un certo punto si ritrova a constatare quanto la relazione con gli uccelli abbia trasformato il suo stesso modo di abitare lo spazio. “All’inizio, quando mi muovevo, scappavano subito, mentre adesso prestano attenzione al linguaggio del mio corpo. Se mi sposto piano restano dove sono – mi hanno insegnato ad adeguare i miei movimenti”. Il prezzo da pagare è liberarsi dai vecchi sogni, venire a patti con una geografia sentimentale dove i telefoni non squillano e gli elenchi telefonici vengono strappati a colpi di becco, dove cartelli con su scritto non disturbare designano l’anticamera dell’isolamento sociale. La ricompensa è la percezione continua di poter attraversare la materia nella sua più sacra complessità. In questo processo gli uccelli di Howard assumono un ruolo guida, quasi fossero un corpo unico e multiforme, in grado di spalancare varchi nella realtà che risulterebbero impercettibili a uno sguardo superficiale.
“Davanti alla finestra, la pioggia forma uno schermo” dice Len in una delle sue epifanie. “Potrei attraversarlo, avanzare nel giardino, addentrarmi nel buio, andare incontro al futuro – accedere a qualcosa di più grande di te stesso: il sogno di tutti i mistici”. E ancora dopo, ragionando sulla sua capacità di prevedere i temporali: “può darsi sia diventata più brava perché vivo qui da un po’, ma in realtà credo di averlo imparato dagli uccelli. O forse lo intuisco dal loro comportamento, senza sapere bene come”.
Ci sono pipistrelli che si chiamano per nome, balene che articolano canti per trasmettere sentimenti, elefanti che per anni fanno ritorno ai luoghi in cui sono morti i loro cari, uccelli che imparano a contare per la gioia di farlo.
Nel cottage gli uccelli dormono nelle scatole di zucchero e sfilano tappeti, fanno il nido tra le aste delle tende e il soffitto, nella cornice di una porta scorrevole, contribuiscono alla ridefinizione costante e continua di un ambiente dai confini permeabili – impegnati nella tessitura perenne di un tragitto che si dipana oltre e attraverso le finestre sempre aperte o socchiuse. Più che lasciarsi addomesticare, la loro presenza avvolge la protagonista in uno stato di incompiuta selvatichezza.
“Non devo chiedermi se quello che faccio abbia un senso o se sia abbastanza” dice Len, per descrivere l’accesso a un altro tipo di ragione. “Gli uccelli mi dimostrano che il tempo non è la linea retta immaginata dagli umani. Le cose non finiscono, cambiano solo forma. Un sentimento diventa un pensiero, un pensiero un’azione, un’azione un pensiero, un pensiero un sentimento. Così il tempo si mescola, così esistiamo in momenti diversi e simultanei”.
È un andamento che ricorda quello del corso d’acqua al centro del romanzo Il nuovo fiume (Nottetempo, 2023, traduzione di Stefano Musillo), dove la giornalista londinese Janet Stone si inoltra in un Sudamerica trasognato per indagare le cause che hanno portato un fiume a crepare il terreno vicino al villaggio di Koraalboom, sgorgando all’improvviso da una frattura del suolo e trasformando il paesaggio per sempre. Niente di selvaggio o aspro, scrive Meijer, ma “un tranquillo corso d’acqua marrone” continuamente sul punto di straripare, che da anni perseguita la popolazione rimasta intrappolata nel tentativo irrisolto di attribuire un significato all’avvenimento. “Le rive del fiume sono di un marrone latteo” lascia scritto sul suo quaderno il signor Frys, coltivatore di soia trovato morto misteriosamente appeso a testa in giù nel soggiorno di casa sua.
È un fiume il cui corso cambia continuamente, che rende impossibile la costruzione di ponti, che inonda porticati e giardini ricolmi di foglie cuoriformi, tenendo insieme il dramma del cambiamento climatico con “gli strascichi di un regime corrotto, la perdita dei miti e dei vecchi racconti popolari, i limiti delle soluzioni scientifiche, lo scontro tra Nord e Sud”. Per il geologo Rafel Flores, tra i personaggi del romanzo, si tratta della reazione spontanea di una terra maltrattata: “prima il disboscamento, poi le colture di soia”, non poteva che seguirne una maledizione. Nei sogni della sindaca, Beatriz Diaz, il fiume diventa un grosso serpente che striscia vicino alla sua casa, la avvolge stringendola sempre più forte. Per i due poliziotti impegnati a risolvere il caso, una specie di condanna divina.
Il prezzo da pagare è liberarsi dai vecchi sogni, venire a patti con una geografia sentimentale dove i telefoni non squillano e gli elenchi telefonici vengono strappati a colpi di becco.
Costantemente invischiata negli appunti per il reportage promesso a The Guardian, Janet arranca in un paesaggio arido e allucinato, dove “ai lati della strada ci sono lucertole dello stesso colore della sabbia” e il sole “fa crescere tutto e poi tutto brucia”; tra ipnotici cactus dalle proprietà miracolose e piccoli rettili che cambiano colore, antiche profezie e biblioteche traboccanti di segreti, vecchi e tristi motivetti popolari su ragazzine che fanno amicizia con piante rampicanti e grandi arazzi che sembrano giungle o paradisi, ma forse raccontano prima di tutto di un mondo che sarebbe stato possibile se le cose fossero andate altrimenti.
La ragione e le leggende popolari, la scienza e il mito, la politica e la giustizia, tutto contribuisce alla ricerca di un senso che però non arriva, come se fosse necessario uno sguardo più largo per vedere le cose nella loro interezza. Come se una dimensione sola fosse insufficiente alla comprensione. È una postura che richiede un grande slancio di fiducia: essere in grado di compiere un salto nel vuoto, immergersi nella materia piuttosto che osservarla da lontano.
D’altra parte, non sempre prendere le distanze garantisce una visione ottimale, fa notare la teorica femminista americana Stacy Alaimo che nel suo Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani, invita a mettersi a nudo e immergersi nelle cose, sostenendo che solo così sarà possibile abitare la fine del mondo. Posizionandosi al cuore di una zona ibrida, dal futuro incerto, simile a quelle in cui si trovano le donne ritratte nelle foto di Rhonda Zwillinger nel volume The Dispossessed – sedute sotto la tettoia di un posto auto; circondate da tutti quegli oggetti quotidiani che costellano un’esistenza dal centro di una casa esplosa, invadono tutto lo spazio finché il confine tra interno ed esterno non esiste più.
Persino la morte guardata da qui sembra un processo accettabile. Le parole di Maia, figlia di uno dei poliziotti del romanzo di Meijer, ragazzina sensitiva e indovina capace di vedere qualcosa dove gli altri ancora non vedono niente, si stagliano nette sullo sfondo di un passato che ha corrotto il presente lasciandogli in affido forse soprattutto un modo insufficiente di pensare. “Dev’essere bellissimo tornare alla terra” dice durante un funerale. “Lasciarsi andare, scindersi nelle particelle di cui si era composti. Accogliere finalmente il mondo che ci circonda, esserne assorbiti, vedere i confini attenuarsi”.