T esti sulla (non più) città è una raccolta di scritti vari dell’architetto Rem Koolhaas; il saggio più vecchio risale all’aprile del 1985 e il più recente al 2014, ma, anche se sono organizzati con criterio più o meno cronologico, i testi vanno considerati più nella loro somma che nel loro percorso – a me viene da dire nella loro prescienza. Rem Koolhaas considera: guarda la città, progetta la città e la sua scomparsa, racconta di quando andò a visitare il Muro di Berlino e aveva scoperto che il muro non era uguale in ogni sua parte (scopre che cambia tra la città e la non-città, che si alza, si abbassa, si allarga, “non è regolare,” scrive, “non è, diversamente da come pensavo, un’entità unica, piuttosto una situazione, una permanente evoluzione al rallentatore, a volte improvvisa e chiaramente pianificata, altre volte del tutto estemporanea”; lo chiama “un’archeologia di tipo disneyano”), stila un elenco di cosa sia Atlanta (“ha una sua forma basilare…una basilare assenza di forma”), descrive le ruggenti città dell’oriente, cosa resta di New York, di Tokyo… fino alla retorica apocalittica, per cui “gli effetti dei cambiamenti climatici… sono presentati tutti come problemi per cui la città intelligente ha una risposta. Gli scenari apocalittici vengono gestiti e attenuati grazie a soluzioni basate su sensori”.
Dico prescienza perché i saggi di questo Koolhaas seguono la strada dell’intuizione, si fondano tutti sulla sua capacità di osservare e da lì si dispongono in immediate (nel senso di autoevidenti ma anche spontanee) strutture di pensiero; intuizioni che non sempre potrebbero prendere la forma del saggio articolato o della tesi – eppure sanno di teoria. “Per molti anni Rem Koolhaas ha meditato di scrivere un libro dal titolo anodino The Contemporary City, progetto poi accantonato,” scrive Manuel Orazi nel saggio introduttivo; poi quando arriva a Harvard nel 1995 pensa che sarebbe meglio chiamare la sua unità di ricerca “Centro per lo studio della (non più) città”. Non si può scrivere il grande libro della città contemporanea, capisce – o meglio intuisce dal suo stesso fallimento –, perché viste le dimensioni inimmaginabili dell’urbanizzazione mondiale e le mutazioni che queste impongono alla parola città, “la città non esiste più…ogni tipo di insistenza su una sua condizione primigenia – in termini visivi, normativi, costruttivi – ha come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell’irrilevanza”. “Tutti noi sappiamo dalle statistiche che la città è diventata l’ambiente principale in cui la gente vive,” scrive ancora. “Al momento del suo trionfo il nostro pensiero si è fermato” – ma non per me, sembra suggerire, io ancora ho la stazza del grande architetto-urbanista-pensatore.
Koolhaas aveva detto che non era più possibile scrivere manifesti, ma in compenso che si poteva scrivere di alcune città come fossero esse stesse manifesti.
È ancora una figura che può scrivere saggi teorici, magari slegati, b-side rispetto ai grandi libri che nel frattempo compone e che qui vediamo solo citati, come Junkspace o S, M, L, XL, come fossero atti complementari, tragitti intuìti, a volte iniziati e poi abortiti per essere ripresi in un altro momento. Questo libro è un grande secchio di idee, un quadernino pieno di osservazioni apparentemente disorganiche, ma puntuali, che Manuel Orazi con grande intelligenza associa al genere letterario del Denkbild, frequentato da Walter Benjamin, cioè quello dell’“immagine di pensiero, vale a dire testi brevi quasi sempre riferiti all’ambito urbano… la forma di riflessione che disintegra i confini convenzionali tra produzione filosofica, letteraria e giornalistica”.
Koolhaas aveva detto che non era più possibile scrivere manifesti, ma in compenso che si poteva scrivere di alcune città come fossero esse stesse manifesti. Altrove scrive che “oggi non si scrivono più manifesti; al più si descrivono città particolari nella speranza non tanto di sviluppare una teoria su ciò che occorre fare, quanto piuttosto capire come le città funzionano… l’assenza di spirito utopico è problematica forse quanto una sua dose eccessiva” e non si capisce se sia la stessa cosa o se siano due osservazioni contrarie, certo è che leggendo Testi sulla (non più) città si ha l’impressione che Koolhaas stili proprio dei piccoli manifesti, ma non roba normativa o decaloghi, piuttosto ipotesi, utopie, analisi alternative. Attraverso le sue parole lo sentiamo guardare, soffermarsi e poi rispondere.
Lo possiamo vedere fare esattamente così nell’intervista che Beka & Lemoine gli fanno il giorno in cui gli mostrano per la prima volta Koolhaas Houselife, il film che hanno girato dentro uno dei suoi capolavori, la Maison à Bordeaux. I due enfants terribles del documentario antropo-architettonico – criticano! pongono domande! – vanno nel suo studio e lo filmano mentre guarda su uno schermo Guadalupe Acedo, la donna che ci lavora come domestica, dire che quella casa sarà pure tanto bella, ma è poco funzionale, che lei passa tutto il tempo a trovare escamotage per pulirla, tenerla in ordine, mantenerla – tutte cose a cui questo grande architetto non aveva prestato abbastanza attenzione.
Solo quindici anni prima alcuni personaggi (‘il papillon, unico segno esteriore della loro follia’) erano capaci di cambiare il destino di un’intera zona con un segno di matita rossa.
Koolhaas non si scompone di fronte alle critiche che vengono non da una accademica o una collega ma da una signora che non lo condanna, ma lo perdona per i suoi errori. La ascolta e poi serissimo dice: “Avremmo dovuto pensare a sviluppare un protocollo di ciò che dovrebbe essere fatto a mano e a macchina”, con la prontezza di chi da una parte sa come uscirne sempre bene e dall’altra di chi sta capendo qualcosa di ulteriore, perché si è dato il tempo di osservare. Si mette a citare Lagos, come esempio di città in declino, a mo’ di paragone, per dire che nelle città non ottimizzate – non smart – l’improvvisazione è ciò permette di mettere in pratica la creatività di cui hai bisogno per farle funzionare… Non è del tutto chiaro dove voglia andare, ma è chiaro che sa usare quello spazio per fare teoria, porta il discorso a un livello superiore, per cui stiamo già riflettendo su altro, non sulle scale impossibili da pulire che di fatto ha progettato lui stesso (Koolhaas si era interessato alle questioni di post-occupancy, cioè a cosa ne è degli spazi una volta terminati, quando vengono vissuti.)
All’inizio di questo libro c’è una specie di spaesamento: “Dove non c’è niente, tutto è possibile. Dove c’è architettura, niente (altro) è possibile” scrive, ricordando che solo quindici anni prima alcuni personaggi (“il papillon, unico segno esteriore della loro follia”) erano capaci di cambiare il destino di un’intera zona con un segno di matita rossa (da Immaginare il nulla, 1985), che bisognava pensare non a progettare le città ma il loro degrado (“veri e propri Nevada concettuali”), mentre l’urbanistica scompare come professione perché “la pervasività dell’urbanizzazione ha modificato la condizione urbana fino a renderla irriconoscibile” e stiamo solo lì a riaggiustare, modificare, sistemare, intervenire…
A chi governa la città interessa l’ordine, la sicurezza, ‘Tolleranza zero: è un mantra micidiale per una metropoli: cos’è una città se non uno spazio di massima licenza?’.
Poi lo vediamo osservare la situazione del muro di Berlino, pensare a quella città come un insieme di isole, di vuoti, pensare allo sviluppo come contrazione, come storia reale. Una storia reale di cui però non sembra rimanere traccia quando visita Atlanta, città senza centro perché il centro potrebbe essere ovunque (è una grammatica minima di grattacieli e piazze, riproducibile, una caratteristica neutra e pacifica in sé) e dunque non ci sono periferie – una sola grande città generica in cui si possono progettare “edifici spropositati per dimensioni e complessità in un solo giorno… il postmodernismo non è un movimento: è una nuova forma di professionalità… un semplice apprendistato tecnico”. Nella New York di “Slip bianchi contro la sporcizia”, capisce che per le città “il pericolo diventa la vitalità”, che a chi governa la città interessa l’ordine, la sicurezza, “Tolleranza zero: è un mantra micidiale per una metropoli: cos’è una città se non uno spazio di massima licenza?”. Questo in occidente, mentre in oriente le città crescono a dismisura, senza misura, fanno dell’artificiosità uno stile, hanno una loro storia alternativa – che c’è una modernità non-occidentale che dominerà questo secolo (in “Prologo a Singapore longlines”). E che di fatto lo ha dominato (le città resort, in cui “il nostro modello di vita si sta concettualmente spostando dal lavoro all’ozio… un resort non è un posto in cui si vive, ma dove il divertimento è l’attività principale”).
Rem Koolhaas riemerge tutto intero alla fine di questo viaggio – un viaggio che a me pare circolare, perché sembra riportarlo agli immaginari e alle intuizioni prive di illusioni di Antonioni o di Superstudio, che, come ricorda Orazi nell’introduzione, “sono la fonte primaria di approvvigionamento figurativo per l’architetto olandese”. Come succedeva nell’intervista con Beka & Lemoine, di fronte a un cul de sac Koolhaas attende, fa scendere il silenzio e poi arriva con una risposta che è a sua volta interlocutoria; come succede in Dilemmi sull’evoluzione della città, che ripercorre insieme quello che è stato detto finora e apre a nuove questioni:
Il declino del potere pubblico, l’ascesa del potere privato…se si mettono insieme i segni dello Yen, dell’Euro e del Dollaro si ottiene la parola ¥€$. … La pressione commerciale spinge all’eccentricità e alla stravaganza. (…) Se prima gli edifici potevano trovare la loro ragione di esistere nella loro neutralità e dignità … oggi la pressione commerciale… obbliga anche l’architetto più serio ad eccentricità e stravaganze.
Oggi ci troviamo dentro questa cosa sfatta che sono le città, che si sbriciolano e si riciclano, vengono invase dalle piante, assomigliano a funghi per come crescono a chiazze; oppure in questi vuoti siderali che sembrano piste di atterraggio per alieni come Brasilia (“per me l’ultima città” è la “Capitale dell’era dell’Acquario”, dove “c’è ampio spazio sia per la burocrazia sia per la più grande concentrazione di sette e mistici”, scrive). Eppure, conviene Koolhaas, di fronte a questa complessità non sembrano esserci reazioni, ma la tentazione di semplificare tutto, di trovare al caos risposte semplici semplici, come la smart city, in cui “i tradizionali valori europei di libertà, fraternità e uguaglianza sono stati sostituiti nel XXI secolo da comfort, sicurezza e sostenibilità.” “Se si osserva il linguaggio visuale con cui la città intelligente viene rappresentata, si vede che è semplicistico, gli angoli sono smussati e i colori brillanti come in quello destinato ai bambini. I cittadini di cui la smart city afferma di essere al servizio vengono trattati appunto come bambini.”
Koolhaas forse non risponde a tutto, ma non tratta chi lo legge come un bambino – ed è forse questo ciò che vuol dire non trattare da bambini, vuol dire non risolvere tutti i nostri dilemmi, ma spingere le discussioni altrove, perfino manipolarle.