M arlene Dumas è nata a Città del Capo il 3 agosto 1953, sotto il segno del leone. In effetti il volto di Dumas, con la corona di capelli biondi e gli occhi azzurri e pungenti, potrebbe ricordare il muso regale di un leone, di quelli fotografati in copertina su Airone o il National Geographic. Dumas ha trascorso l’infanzia a Kuils River, cittadina a 25 chilometri da Cape Town. Il padre, Johannes, era un viticoltore. Aveva ereditato un pezzo di terra, il vigneto di Jacobsdal, di proprietà della famiglia Dumas fin dal 1916. Tuttora il fratello di Marlene produce vino. “Handmade is well made”, si legge sulla home del sito. Nella galleria fotografica un paio di scatti descrivono il paesaggio di Jacobsdal. Filari di vite verdissima si moltiplicano, fitti e a perdita d’occhio, sotto un cielo vasto, epico. L’orizzonte è coperto da cumuli di nubi grigie, squarciate in qualche punto da un mistico raggio di sole. Visto da qui Jacobsdal sembra un luogo ancora vergine, distante da ciò che accade nel resto del mondo e gravato da un silenzio primordiale. In questa epoca di guerra, pandemia e angosce provocate dal cambiamento climatico (tra gennaio e marzo a Milano non ha mai piovuto), la vista di un panorama come quello di Jacobsdal mette una strana smania, qualcosa che prende alla pancia e ci consiglia di partire e andarcene lontano. Se esiste la solastalgia, turbamento che deriva dalla paura per la catastrofe ecologica, dovrà pur esistere una cosa contraria, cioè l’improvvisa accensione mentale che ispira in noi la breve visione di un pezzo di pianeta ancora incontaminato.
Dumas è cresciuta in questi spazi. Era il tipo di bambina che alla scuola preferisce arrampicarsi sugli alberi e la vita all’aria aperta. Eppure secondo Marlene Van Niekerk, poetessa e scrittrice sudafricana, il paesaggio e il territorio del western cape, estremo sud del continente africano, non hanno avuto una specifica influenza sulla pittura di Marlene Dumas, dove in effetti prevale l’interesse per il volto e il corpo umano. Sempre secondo Van Niekerk, è il paesaggio emotivo e psicologico che Marlene Dumas vuole indagare, forse perché un’infanzia e una giovinezza vissute durante l’apartheid avrebbero sviluppato in Dumas –come pure in Van Niekerk e in altri uomini e donne bianchi della loro generazione – una speciale reattività, un paio di antenne particolarmente sensibili nei riguardi di tutto ciò che si riflette nel corpo e nelle fisionomie, a partire dalla coscienza e dalle zone di ambiguità fra bene e male. Ecco un primo esempio: a Palazzo Grassi a Venezia, dove ha inaugurato open-end, la prima grande mostra personale di Dumas in Italia (fino all’8 gennaio 2023, Ndr), è esposto il sinistro ritratto di un bambino. Risale al 1985, stesso anno di The Eyes of the Night Creatures, la storica mostra che ha fatto di Dumas un’artista nota in tutto il mondo. Il titolo del quadro è Die Baba. Il bambino, con i capelli in perfetto ordine e pettinati con la riga da una parte, indossa una luminosa camicetta bianca, abbottonata fino al collo, e sopra la camicia quella che sembra una tenera salopette infantile, color turchese. La morbidezza e l’innocenza delle guance paffute è contraddetta dal tono rigido delle labbra, piegate all’ingiù, a disegnare una smorfia, dura e risentita, simile a quella di un despota. Lo sguardo del bambino inquieta, perché rivela una consapevolezza del mondo, scabra e amara, che non si può ascrivere all’infanzia, ma semmai a fasi più adulte della vita. C’è chi ha riconosciuto una somiglianza tra il bambino e la celebre foto di Adolf Hitler da piccolo, con le braccia conserte e il cipiglio severo. Ipotesi attraente. In realtà Die Baba è il ritratto di un fratello di Dumas, non del futuro viticoltore, Cornelis, ma del seienne Pieter, che da grande diventerà un pastore della chiesa protestante.
Un altro celebre lavoro di Dumas esposto a Palazzo Grassi, fra le oltre cento opere in mostra, è The Painter, una smagliante tela di formato verticale. Alcune analogie suggeriscono un confronto con una delle più famigerate immagini nella storia del fotoreportage di guerra, cioè la foto premio Pulitzer scattata in Vietnam l’8 giugno 1972, dove una bambina vietnamita, Kim Phúc, scappa dalle bombe al napalm sganciate dai cacciabombardieri americani, mentre a piedi nudi procede alla cieca, in lacrime, con la schiena ustionata e senza più indumenti. La piccola Kim si trova in una condizione di vulnerabilità assoluta. Chi guarda prova vergogna e si sente chiamato a salvare e proteggere la bambina, anche perché la bambina sembra correre proprio incontro allo spettatore. In The Painter vediamo una bambina altrettanto nuda ed esposta. Il chiasmo appena accennato delle braccia e delle gambe sembra suggerire un movimento del corpo che anche in questo caso si proietta verso chi guarda. Ma se Kim Phúc grida e singhiozza cercando il nostro soccorso, la bambina di The Painter è gelida e aliena: non ci appare come una vittima, ma come la giovane interprete di un horror cinematografico, l’autrice di un delitto, la portatrice di una colpa, anche per via di quelle mani imbrattate di blu e rosso e per l’ombra turchina che le tinge lo stomaco e il petto, come per effetto di un’infezione o di un avvelenamento.
Da bambina Dumas si divertiva a disegnare sui pacchetti di sigarette vuoti lasciati qua e là dagli adulti. Risale al 1963, all’epoca in cui Marlene aveva dieci anni, un disegno impressionante, per la precisione, la vivacità e la ricchezza di dettagli che testimoniano un’evidente e precoce capacità di osservazione. Dumas ritrae dieci concorrenti di Miss Mondo, in costume da bagno, alcune di profilo, altre no, bionde, more, con i capelli rossi, pettinate come Elizabeth Taylor o Sofia Loren, cioè nello stile beehive delle tipiche e voluminose acconciature degli anni Sessanta. Ogni costume da bagno è connotato da un taglio e da un tessuto con un colore o una texture diversa. Le forme sono quelle delle pin up apprezzate all’epoca. Seno abbondante e vita sottile. Il filmato integrale della serata è disponibile in rete. Si prova una leggera vertigine nel vedere le riprese in bianco e nero delle concorrenti, con la fascia della Colombia, di Ceylon, della Danimarca, mentre si allineano sul palco e riproducono l’esatto momento immortalato da Dumas in quel remotissimo 1963. “Quando ero giovane”, ha scritto Marlene Dumas nel 1996, “tutte le Miss Mondo si assomigliavano. Nessuna cinese, nessuna nera, ghanese o giapponese avrebbe mai vinto. Era sempre il tipo americano bianco a essere considerato più attraente”. In realtà la vincitrice di Miss Mondo, proprio in quell’edizione del 1963, fu una ventenne giamaicana, Carol Joan Crawford, anche se il colore della pelle della Crawford, bisogna aggiungere, era sufficientemente chiaro da non turbare la platea di Miss Mondo.
In un’altra sala di Palazzo Grassi è esposto The Visitor, un grande quadro del 1995, che in qualche modo forma un dittico potenziale con quel ritratto delle concorrenti in gara a Miss Mondo, che si colloca alle origini dell’opera e della storia di Dumas. Un sito internet dice che per la realizzazione di The Visitor Dumas si sarebbe ispirata a una serie di fotografie scattate in un bordello canadese negli anni Sessanta, poi pubblicate su un giornale. Il quadro è stato battuto da Sotheby’s nel 2008 per una cifra record: oltre tre milioni di sterline. Sei prostitute sono ritratte di spalle, l’una accanto all’altra in attesa di un cliente, il visitatore nominato nel titolo. In entrambi i casi abbiamo al centro del racconto un gruppo di giovani donne disposte in fila, allineate, secondo una logica che è funzionale alle esigenze di uno sguardo modellato su desideri e fantasie maschili. È la questione del male gaze, descritta nel foglio di sala e sottolineata tanto dalla critica e storica dell’arte Elizabeth Lebovici, quanto dalla filosofa Adriana Cavarero. Secondo quest’ultima la scena costruita in The Visitor è stata pensata da Dumas con particolare sottigliezza, specie nella scelta del punto di vista. Se infatti il male gaze trasforma il corpo femminile in oggetto, in questo caso Dumas libera le sei prostitute dalla pressione dello sguardo, grazie alla decisione di dipingerle di spalle. Eppure questa lettura è necessaria ma non sufficiente, a mio avviso, a rendere giustizia alla potenza e alla tensione che percorre il quadro. La sua forza non sta solo nella critica e nello schema di rapporti descritti fra prostituta e cliente, fra uomo e donna: sta anche nel clima, nell’immanenza, nel denso contrasto tra la chiazza di luce in fondo e le pareti color fegato del postribolo, nell’atmosfera di vigilia e segreto intorno all’arrivo del visitatore, nella scelta poetica di intitolare il quadro con un enigmatico e letterario The Visitor, al posto di un eventuale e più ordinario The Client. Se The Visitor fosse un film, probabilmente non sarebbe un’opera militante, con un messaggio da diffondere e una tesi da dichiarare, ma un bellissimo thriller, carico di tensione, ambiguità e con un mistero da risolvere.
open-end è a Palazzo Grassi, a Venezia, fino all’8 gennaio 2023. Ivan Carozzi ha curato un podcast, Una specie di tenerezza. Marlene Dumas fra parole e immagini, realizzato in occasione della mostra.