C ol suo ormai quarantennale lavoro sulla pervasività dell’ideologia, Laibach è uno dei gruppi sconosciuti più importanti di sempre. Dal 1980, l’anno della sua nascita, di Laibach si è scritto di tutto: da “futurismo” a “barbarismo”, da “un’idea spaventosa” e “nichilismo pop” a “Hitlerjugend”. Persino “il suono di una telefonata dal Castello di Kafka”. Dal canto suo, Laibach, che parla per enigmi e ambiguità e si muove trasversalmente tra le lingue (sloveno, tedesco, inglese, norvegese, coreano) e i generi (industrial, classica, elettronica, pop), ha continuato la propria attività negli ultimi quarant’anni senza affermare né smentire, mettendo in pratica ciò che il connazionale Slavoj Žižek ha definito una forma di distanza assoluta, che può persino apparire comica da quanto sembra prendersi sul serio. Una volta venne chiesto ai suoi membri se fossero nazisti. Tanto quanto Hitler è un pittore, risposero.
1984. La televisione slovena trasmette una loro intervista, in realtà un processo nel quale lo Stato, rappresentato dal conduttore Jure Pengov, li accusa di disturbo dell’ordine e della pace, danni alla pubblica morale, apologia dello stalinismo e del nazifascismo e “opposizione all’umanità socialista”. Erano cinque giovani dall’aspetto serio e pulito. Portavano uniformi militari, anfibi, una fascia bianca sul braccio su cui figurava una croce greca nera, la stessa apparsa in un dipinto di Kazimir Malevič circa sessant’anni prima. Impassibili, con lo sguardo fanatico e spiritato, alle domande di Pengov ribattevano soltanto con slogan magniloquenti e risposte ripetitive e prefissate come il più retorico dei politici. Pengov voleva portarli a esplicitare la loro posizione, ma non c’era nulla da esplicitare. Voleva che si contraddicessero, ma la contraddizione su di loro era esibita come un ornamento. “La nostra attività” dichiararono “è al di sopra del coinvolgimento diretto. Siamo del tutto apolitici. I problemi politici concreti non ci interessano”.
La formazione non era già più quella iniziale. Tomaž Hostnik, il cantante, si era impiccato a un kozolec, l’essiccatoio tipico della Slovenia rurale, il 21 dicembre 1982. Pochi mesi prima, in concerto a Lubiana, era salito sul palco vestito come un ufficiale dell’esercito. Nel modo di fare imitava qualcuno, ma nessuno aveva capito chi. E come sarebbe stato possibile? Era Slobodan Milošević, all’epoca ancora pressoché sconosciuto. Così conciato, Hostnik aveva gridato (in italiano, lingua tutt’altro che neutra per il pubblico sloveno socialista): “Cari amici soldati, il tempo della pace è passato”. Per capire cosa tutto ciò significasse, sarebbe stata necessaria una decina di anni. Qualcuno, infastidito, aveva lanciato una bottiglia contro il volto di Hostnik. Il quale, sfregiato e sanguinante, aveva proseguito imperterrito il concerto. Dopotutto, come dissero a Pengov e alla Slovenia scandalizzata, “l’arte è una missione sublime che richiede fanatismo”. E ancora: “La felicità sta nella negazione totale della propria identità, nel rifiuto consapevole di gusti e opinioni personali, nella depersonalizzazione, nel sacrificio, nell’identificazione con un sistema superiore, la massa, il collettivo, l’ideologia”.
Pengov si augurò che a sbarazzarsi di Laibach provvedessero le autorità, le stesse che Laibach, esprimendosi così, sembrava voler scimmiottare. Ma era già troppo tardi.
Voi lavorate per il fascismo!
Laibach nacque nel giugno del 1980, all’inizio della crisi che, nel decennio successivo, avrebbe portato alle fratricide guerre jugoslave. Tito, il padre mitico, era morto a Lubiana un mese prima. Presto sarebbe stato evidente che l’unità delle repubbliche socialiste della Federazione si sgretolava, ma già all’inizio degli anni Ottanta l’estetica e la retorica di regime apparivano inadeguate e incomprensibili come gli ingombranti megaliti di una civiltà estinta. Eppure ancora dettavano le regole. Questo sfasamento tra norma e percezione comune creava interstizi di fuga e desideri di originalità. Erano gli anni in cui ciascun gruppo andava in cerca di un’identità: chi nel mito della Grande Serbia, chi nell’improbabile venetska teorija, inventata da tre linguisti dilettanti, che rifiutava l’origine slava degli Sloveni proponendo invece la loro discendenza diretta dagli antichi Veneti. Tutti tracciavano linee di confine – immaginarie, mentali, ma presto anche reali.
Di fronte al crescente senso di impotenza, le autorità avevano reagito, come sempre avviene in caso di crisi, ribadendo la propria autorità. In contrasto con le tiepide aperture alla cultura occidentale che avevano caratterizzato la Jugoslavia non allineata dagli anni Cinquanta in poi, le nuove politiche sociali e culturali volevano incrementare il senso di comunità a scopo protettivo: il popolo doveva dimostrarsi capace di riconoscere prontamente eventuali minacce, interne o esterne, e difendersi da ciò che poteva danneggiarlo. Per questo, la prima uscita pubblica di Laibach – un concerto previsto nella nativa Trbovlje, città mineraria al centro del cosiddetto ‘distretto rosso’ sloveno – fu fermata sul nascere. Parve la vittoria del popolo socialista in allerta, un miracolo d’ingegneria sociale. Tutti gli organi della società avevano riconosciuto e denunciato la minaccia sovversiva, come un sistema immunitario perfettamente funzionante.
La risposta di Laibach, che peraltro mai si è definito gruppo musicale, fu memorabile. Prendendo le parti dell’autorità, si dichiarò soddisfatto dal livello di prontezza e ostilità con cui il popolo aveva risposto alla sua minaccia, che, a sentirli, sembrava quasi un’esercitazione controllata e orchestrata alla perfezione dallo Stato.
Laibach nacque nel giugno del 1980, all’inizio della crisi che, nel decennio successivo, avrebbe portato alle fratricide guerre jugoslave.
Laibach non ambisce a pensare fuori dagli schemi. Piuttosto, si fa identico agli schemi. Nel suo manifesto Deset postavk konventa (‘Decalogo dell’alleanza’), apparso la prima volta nel 1983 sulla rivista Nova revija, leggiamo: “Tutta l’arte è soggetta alla manipolazione politica” diretta o inconscia, “eccetto quella che parla il linguaggio della manipolazione stessa”. Commenta Marcel Štefančič in The Terror of History (2012) che si evita la manipolazione solo quando ci si identifica interamente con essa. La cosiddetta controcultura non serve a nulla: prima o poi si lascerà assorbire dalla ‘cultura ufficiale’, o subirà il repêchage effimero e sterile della moda, o potrà tuttalpiù ambire a diventare feticcio midcult. Fintanto che ci si trova dentro un sistema totalizzante, nulla può dirsene fuori, e tutto ciò che è costruito in opposizione non sarà che la copia speculare di ciò che oppone. L’unica voce davvero efficace è quella che parla a nome del sistema, come il sistema. E che è più sistema del sistema stesso.
“Parlare in termini politici”, prosegue il manifesto, “significa rivelare e riconoscere l’onnipresenza del politico”, il cui compito, “nelle forme più benevole”, sarebbe “colmare il divario che separa la realtà dallo spirito”. Tuttavia, a “forme autentiche di coscienza sociale” finisce per sostituirsi l’“ideologia”. Ecco allora che “Laibach rivela ed esprime il legame tra politica e ideologia […] e il divario incolmabile tra questo legame e lo spirito”.
‘Ideologia’, in Marx ed Engels, è sinonimo di ‘falsa coscienza’. Nel 1893, Engels scriveva a Franz Mehring: “L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza falsa. Le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe più di un processo ideologico. Così egli s’immagina delle forze motrici apparenti o false”. Il soggetto, preda inconsapevole dell’ideologia, crede di avere giustificazioni per i suoi pensieri, le sue scelte e le sue azioni: la logica conclusione di un ragionamento, l’arbitrarietà del gusto, l’inclinazione individuale. E non sa, invece, che quella “parvenza di autonomia” (Ideologia tedesca) che percepisce è un’illusione. L’ideologia agisce inconsciamente, si direbbe; è “pervasiva, onnipresente, come l’aria che si respira”, per usare le parole che Roberto Calasso dedica, ne L’ardore, all’ideologia di tutte le ideologie, la “religione della società”: incapace per sua natura di “definirsi e riconoscersi come tale”, nulla ammette fuori da se stessa, ossia fuori dalla società, che si impone come unico piano cui tutto si riduce e riconduce.
Laibach, dunque, prende sul serio l’ordine sociale e politico, e nelle sue forme meno benevole e più depersonalizzanti, ma con l’intento di portarlo al punto di rottura. Non è un intento diverso da quello del Bataille del Collège, che voleva servirsi delle energie liberate dal fascismo, le forze basse di disordine e disgregazione del suo vitalismo intrinseco, le quali rappresentavano il carico di negatività espulso dalla società moderna che per quest’ultimo non trova più sfogo. Prendere sul serio il grido nel cuore del fascismo, sì, ma per poterne fare a meno. Un percorso pericoloso e non privo di fraintendimenti, tanto che Walter Benjamin gli rispose: “Vous travaillez pour le fascisme!”. E lo stesso pensavano di Laibach le autorità jugoslave.
Eber – Saliger – Dachauer – Keller
Nel 1983, un ligio comunista firmatosi B.K. scrisse una lettera al settimanale Mladina. Chiedeva che le autorità fermassero questo gruppo pericoloso e antisocialista “che in aggiunta a tutto il resto porta un nome tedesco”.
Sta qui la chiave per comprendere sia la ragione dello scandalo, sia l’essenza di ciò che Laibach fa, dietro e al di là della musica industrial. Come spiegavano nell’intervista con Pengov, il nome Laibach entra nella storia quattro volte. In un documento medievale, come nome originario della città che oggi, in sloveno, è Ljubljana. Poi, come nome della città sotto il dominio austriaco, durato circa un millennio. Quindi, tra il 1943 e il 1945, così fu ribattezzata la città cui faceva capo una delle province dell’OZAK (Operationszone Adriatisches Küstenland), amministrata direttamente dal Terzo Reich. Infine, come nome di un progetto artistico sorto a Trbovlje nel 1980.
L’oltraggio stava nel fatto che l’eroica città jugoslava, gloria della resistenza partigiana, venisse chiamata nella lingua dei dominatori, austriaci e soprattutto nazisti. Eppure, si tratta del nome più antico che la città abbia avuto, e quello con cui è stata nota per maggior tempo. Dunque, nome vero e innegabile, e perciò massimamente proibito e scandaloso.
Ancor più delle loro performance. Nella Muzički biennale di Zagabria (1983), Laibach, presentato come una band d’avanguardia slovena, accompagnò alla musica pellicole di propaganda e riprese di Tito sovrapposte a filmati pornografici. Vilipendio supremo, blasfemia intollerabile. Anche in quell’occasione, Laibach espresse soddisfazione: la società aveva reagito in concerto, dando prova di fermezza e incorruttibilità morale nel contrastare le sfide, di volta in volta più gravi, che il gruppo proponeva. E nuovamente era difficile capire se Laibach fosse uno scherzo, una pericolosa cellula carbonara, una messinscena d’avanguardia o vera e propria arte di regime, talmente talebana da assumere i panni del proibito e dell’illecito per testare l’ortodossia del pubblico.
Sulle prime, la censura comunista tentò di limitare le attività di Laibach, ma con scarso risultato. Quando venne loro proibito di servirsi di una registrazione di Tito nel brano Država, presero atto, tagliarono e lasciarono vuoto quello spazio a sottolineare l’avvenuta censura. Fu loro vietato di chiamarsi Laibach, e loro continuarono l’attività senza nome alcuno. Se la Jugoslavia fosse stata come la Germania dell’Est, Laibach forse non avrebbe costituito un problema. La Stasi, qualche anno prima, si era sbarazzata della potenzialità sovversiva della popolare rock band Klaus Renft Combo mettendo in atto una straordinaria dimostrazione della mentalità totalitaria, ossia bandendoli direttamente dal piano ontologico: invece di farli sparire, li aveva dichiarati inesistenti, quindi li aveva sostituiti con i Karussell, cover band dell’originale, il cui manager era un agente della Stasi.
Ma con Laibach era diverso. Come si poteva bandire un gruppo che dava ragione all’autorità quando questa cercava di ostacolarlo? Laibach si dichiarava dalla parte del popolo e del principio autoritario: non negava il potere, ma si poneva come il suo negativo fotografico. Laibach chiedeva al potere di rivelarsi appieno, di mostrarsi per ciò che era. “Chi potrebbe dubitare della forza spaventosa di queste corna?” cantavano in Nova Akropola, esibendo l’emblema totemico del cervo. Ma significava anche: Guardate la debolezza dello Stato attuale, in confronto a ciò che noi rappresentiamo. Guardate ciò che, però, il potere può diventare.
Inoltre, ufficialmente, dietro Laibach non c’era nessuno. O meglio: i membri del gruppo indicati rispondevano a quattro nomi tedeschi, le vier Personen della mitologia di Laibach: Eber, Saliger, Dachauer, Keller. “Il trionfo dell’anonimato”, leggiamo al punto 4 del manifesto, “si è intensificato fino all’assoluto mediante il progresso tecnologico”. In un mondo in cui “le differenze individuali degli autori sono annullate”, Laibach “adotta il sistema organizzativo della produzione industriale e fa dell’identificazione con l’ideologia il proprio metodo di lavoro. Per questo motivo, ciascun membro rifiuta la propria individualità”. Questo “principio direttivo” viene sviluppato ulteriormente al punto 5, dove si parla di un “principio quadruplo” – eber-saliger-dachauer-keller – che “racchiude in sé un numero arbitrario di sotto-oggetti (a seconda del bisogno)”. Ossia: in base all’obiettivo specifico, Laibach può modificare a piacimento la propria formazione, includere ed escludere senza in alcun modo contraddire il proprio principio, che è e deve essere del tutto impersonale per consentire “una rivitalizzazione permanente dei fluidi vitali interni”. Per un periodo, ipotizzò addirittura due o più formazioni parallele e indistinguibili per svolgere concerti in contemporanea in luoghi diversi. Non è questo il vero traguardo dell’arte nell’èra della sua riproducibilità tecnica? Si dice spesso che, ormai, il concerto dal vivo sia l’unica esperienza musicale che ancora conservi un’aura. Non, certo, nei piani di Laibach.
Tanz mit Laibach
L’“identificazione completa con il sistema”, così Štefančič, avviene in Laibach tramite “il rito totalitario”. Le uniformi, i ritmi marziali, la retorica di regime – di qualsiasi regime – e la sua enfasi sull’unità, corrispondente di volta in volta al collettivo, alla nazione o al popolo; ma anche la freddezza calcolata dell’esecuzione, la distanza, l’esaltazione parareligiosa dei simboli, la ritualizzazione assoluta della performance.
È difficile comprendere l’attività di Laibach senza considerare l’idea di Gesamtkunstwerk che sta alla base dell’arte del totalitarismo. Il sostegno entusiastico degli artisti alle cause del bolscevismo e del fascismo, almeno nei primi tempi, non deve stupirci: dopotutto, Goebbels sapeva che la politica è – o meglio, è diventata, nell’epoca della religione della società – la forma suprema di arte, che include tutte le altre. Ed era già evidente da tempo: la mente dietro la Festa dell’Essere Supremo dell’8 giugno 1794, parodia dei culti religiosi che si faceva culto a sua volta (l’idolo nasce spesso come parodia per poi guadagnare potenza nell’incredulità generale) e in cui Robespierre si presentò conciato come un sedicente gran sacerdote, era quella di Jacques-Louis David, artista ufficiale del governo rivoluzionario. Se il mondo poteva essere ridisegnato a partire dalla pagina bianca della società, tutta da inventare, servivano la mano e la mente dell’artista. Non è difficile che qualcosa del genere l’abbia pensato anche Adolf Hitler, pittore fallito.
Tutte le più notevoli produzioni dell’estetica di Stato del Terzo Reich tendono al Gesamtkunstwerk: i riti collettivi e le parate; i film di Leni Riefenstahl; il Lichtdom di Albert Speer; persino le divise delle SS. Non solo arte a cavallo tra più media, quali peraltro sono le opere e i concerti di Laibach; anche arte che in sé comprende tutto, arte di tutto il Volk, qualunque esso sia, nonché arte che invita all’appartenenza, che evoca il puro e il primigenio, che dissolve nella totalità. Motivo per il quale Susan Sontag, in Fascinating Fascism (1975), ritrovava gli stessi presupposti e contenuti romantici “in modalità tanto diverse di dissidenza culturale e propaganda per nuove forme di comunità”, ugualmente mosse dal desiderio di appartenenza, purezza e totalità, quali la scena rock, il volontariato in Terzo Mondo, l’antipsichiatria, l’occultismo.
Tipica espressione di Laibach Kunst è l’appropriazione di brani altrui per mostrarne il lato d’ombra, là dove basta modificare contesto e paratesto perché parole e suoni assumano tutt’altro significato. Significato che – siamo invitati a pensare – non è che il prodotto dell’ideologia. Le fonti sono le più disparate: da One Vision dei Queen, che diventa Geburt einer Nation (‘nascita d’una nazione’), all’incompiuta opera Olav Tryggvason di Edvard Grieg, adattata a ouverture dei loro concerti nell’ultimo decennio. Uno degli esempi più riusciti è l’impiego di Life is Life degli Opus: cantato da Laibach, il testo originale – “When we all give the power / We all give the best / […] And we all get the power / We all get the best / When everyone gives everything / Then everyone everything will get” – appare in una luce del tutto nuova.
L’obiettivo non è solo trasformare qualcosa di familiare e conosciuto nel suo doppio irriconoscibile e oscuro, così come Lubiana diventa – o ritorna – l’unheimliche Laibach. L’obiettivo è anche straniare il pubblico al punto da defamiliarizzarlo da se stesso.
Žižek parla di “interpassività”, il contrario dell’interattività, che anima fenomeni quali il coro tragico, che sussulta e patisce per conto degli spettatori, ma anche le risate preregistrate nelle sitcom. Ed è il meccanismo che muove la Laibach Kunst: un rituale che crede al nostro posto e sente in nostra vece, che porta all’alienazione da noi stessi, dal ruolo di pubblico, dalla nostra opinione su ciò a cui assistiamo. È quello che Kundera, ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, chiama il “Kitsch totalitario”, capace di “trascinare nel corteo comunista anche coloro che alle tesi del comunismo erano indifferenti”.
A lungo nel pensiero rivoluzionario si è discusso su quale dovesse essere il ruolo di artisti e intellettuali, almeno in apparenza relegati alla sovrastruttura, lontani dal problema di chi controlla i mezzi di produzione. E, come in tutte le superstizioni in cui a prevalere è il sociale, da Sparta e Platone in avanti, si è sempre saputo che l’arte o è emanazione di regime, mero apparato statale o partitico a scopo elogiativo o pedagogico, o, nel migliore dei casi, è da guardarsi con sospetto. L’artista buono è dunque l’artista combattente, incarnato per un po’ da Majakovskij e d’Annunzio, o l’artista propagandista, celebratore dell’epica e dell’estetica di Stato, o pedagogo, à la Brecht. Tuttalpiù, in Occidente, l’artista engagé.
Laibach si spinge più in là e colma lo iato tra l’artista e l’operaio, e non solo perché, nel 1984, i suoi membri, trasferitisi momentaneamente in Regno Unito, lavorarono in fabbrica e in un porto. Si è detto che il lavoro aliena l’essere umano e l’arte sola lo libera: ecco, dice Laibach, un’arte alienata e alienante, identica al prodotto industriale con cui si identifica. Il ballo e la musica elettronica sembravano riaprire quello spazio di dissidenza indicato in precedenza da rock e punk. Ma se anche questa fosse opera dell’ideologia, chiede Laibach? E se non si ballasse per liberarsi, ma il culto stesso della libertà fosse pura ideologia?
Ce lo suggerisce un Laibach Kunstwerk in cui il viso di un tamburino della Hitlerjugend (l’immagine ricalca la copertina originale di An Ideal for Living dei Joy Division) è quello della Statua della Libertà; di fianco, la scritta “La Liberté guidant le peuple”, titolo del celebre quadro di Delacroix che celebra la rivoluzione di luglio del 1830. La rivoluzione sostituisce violenza alla violenza; il culto parareligioso della libertà incondizionata è autoritario e imperativo: se si esegue l’ordine di essere liberi, non si è liberi, e se si è liberi, si è solo eseguito un ordine. Il Terzo Reich; il mondo libero della pax americana; la Francia rivoluzionaria: se il collage funziona, è perché tutti e tre sono “mere varianti di un’unica entità: la società in sé” (Calasso, L’innominabile attuale), che non ha altro fine se non se stessa, e che in sé tutto assorbe e dissolve. “Dio ha un volto solo”, ricorda il decalogo di Laibach al punto 10, “il diavolo ne ha infiniti”.
Un grido totalitario statico
Rispetto al punk, prodotto occidentale d’importazione che si diffondeva nella Slovenia degli anni Ottanta incontrando le resistenze degli intellettuali e i sospetti e le aperte condanne delle autorità, secondo le quali non era che il nuovo volto del nichilismo e del nazifascismo, Laibach parlava un linguaggio completamente diverso. Il punk, pur popolare tra i giovani, restava lingua straniera, mentre Laibach sembrava pura autarchia. “Ciò che è straniero non lo vogliamo, e ciò che è nostro non lo diamo”, diceva uno slogan partigiano dei tempi di guerra, allora tornato in auge, che Laibach – con le uniformi jugoslave, il radicamento nel territorio, la familiarità della lingua slovena, persino le bombe fumogene al posto delle fog machines – incarnava appieno.
Il punk, inoltre, parlava sì con l’‘io’ dell’autorità, ma lo sviliva con cinismo e ironia. Nessuno prenderebbe alla lettera i Sex Pistols (“God save the Queen / We mean it, man / We love our Queen”), nessuno potrebbe trascurare la satira nei Dead Kennedys (“Tonight’s the night that we got the truck / We’re going downtown, gonna beat up drunks”). Stessa modalità nel punk sloveno, con gli Otroci socializma (‘Figli del socialismo’) che cantavano: “Il mio popolo da tempo coltiva combattività / e anch’io, anch’io, anch’io / voglio essere un soldato”.
Ma quando Laibach, in Ti, ki izzivaš, si rivolge a chi provoca invitandolo a dimostrare il proprio valore nella carneficina del campo di battaglia, sta prendendo le distanze dalla violenza o la sta invocando? È solo una controprovocazione al provocatore, o è a tutti gli effetti un invito al massacro? O forse nessuna delle due cose? Non è altrettanto facile stabilirlo.
In un’assemblea della Socialistična zveza delovnega ljudstva (l’Associazione socialista dei lavoratori), vennero attribuite la responsabilità e la causa dell’esistenza di Laibach non tanto all’arte degenerata nella loro genealogia, dunque non ai Futuristi o ai Suprematisti o al rumorismo o a Fluxus o ai Kraftwerk, quanto a una falla nel sistema. La colpa era dell’autorità, che non aveva prestato sufficiente attenzione, che non aveva avuto la forza di distruggerli. Perché la verità era questa: il sistema Laibach aveva rivelato al sistema Stato ciò che quest’ultimo era, e ciò che non era. Laibach comunicava attraverso la non-comunicazione di rituali portentosi, discorsi retorici fuori contesto, slogan vuoti – “un’espressione di grido totalitario statico”, come la chiamano al punto 8 del manifesto, ossia di totalitarismo eterno. E lo Stato, specchiandosi in Laibach, scopriva che la propria comunicazione era, ed era sempre stata, non-comunicazione. Da un lato, Laibach costituiva, scrive Štefančič, “la teatralizzazione perfetta del paese del socialismo”; dall’altro, era anche la “la teatralizzazione perfetta di ciò che allora era tanto più ovvio, tanto più doloroso, tanto più traumatico: il cortocircuito dell’ideologia”.
La sfida che Laibach aveva lanciato allo Stato, sfida che si muoveva sul campo della violenza, della repressione, dell’impulso totalitario, era letale qualunque fosse il suo esito: se lo Stato voleva sconfiggere Laibach, doveva farsi identico a ciò che Laibach chiedeva e incarnava, dandogli così ragione; se lo tollerava, invece, confermava l’accusa di Laibach, dimostrandosi debole e pavido.
E più lo Stato si trincerava dietro l’ideologia, nel mezzo della devastante crisi economica che negli anni Ottanta aveva messo in ginocchio il sistema jugoslavo dell’autogestione socialista, più Laibach alzava i toni. Se i Balcani ritornavano nella Babele, Laibach cantava l’unità, l’amicizia, la solidarietà, mentre in concerto a Belgrado, sul finire del decennio, riprese parola per parola un discorso etnonazionalista, mischiando però al testo in serbo il tedesco hitleriano. L’effetto di quelle note stonate, che ormai nessuno poteva esimersi dall’ascoltare, fu una nuova consapevolezza: l’ideologia era nuda, e bisognava rapidamente prenderne le distanze prima che fosse troppo tardi. Non si sapeva ancora di che cosa, ma era evidente che Laibach fosse un campanello d’allarme.
Per il sociologo Jože Vogrinc, “il totalitarismo di Laibach” era “il totalitarismo represso di coloro che in Laibach vedevano il totalitarismo”. E l’inammissibile che davvero rivelava, offrendosi come una griglia da riempire e una superficie su cui riflettere l’ombra, era che il suo pubblico non solo non era mai uscito da Laibach, la città tremenda della notte dell’anima, ma la desiderava profondamente. Laibach era sempre in agguato, sepolta in ogni cosa: nel dito censore e nella retorica socialista; nell’Occidente che allungava la mano e nella sua canzonetta pop. Il nemico non era il punk, né era più l’avversario militare sconfitto quarant’anni prima, ma era latente dentro ciascun soggetto e oggetto moderno. Laibach, riportando alla luce ciò che si credeva estinto o superato, catalizzava l’anelito totalitario nella forma di un’esaltazione rituale, quella che la modernità imita e sostituisce. Chi da Laibach ricavava un godimento perverso, era costretto all’esame di coscienza. Chi voleva la sua estinzione, non si scopriva diverso dai persecutori dell’entartete Kunst. Scoprire che nel profondo di un sistema costruito sulla sconfitta del nazifascismo c’era la medesima matrice del nazifascismo – questo era il più spaventoso effetto di Laibach.
Ma non si limitava a restituire un’immagine mostruosa sullo specchio. La conclusione, secondo Štefančič, ha del vertiginoso, perché con il suo grido totalitario statico Laibach “neutralizza e limita l’escalation” totalitaria dinamica che “emerge in tempo di crisi”. In altre parole, “Laibach era lì per neutralizzare il fascismo. Più precisamente: Laibach era lì perché il fascismo non fosse necessario”. Come a dire: lasciate il totalitarismo a noi, lasciatecelo gridare nella sua forma archetipica, vestito con i paramenti recuperati dalla storia e variamente giustapposti come indigesti ready-made. Lasciate che a farlo siamo noi, così che non dobbiate farlo voi. Lasciate che lo stesso grido, in voi, si sfoghi nella catarsi artistica che offriamo.
Il principio è lo stesso di quello che muove la lunga linea dal sacrificio umano alle lotte tra gladiatori fino alle tauromachie e oltre: un male minore per saziare la sete di male, una violenza rituale, unica e circoscritta, a funzione collettiva e apotropaica per evitare violenze maggiori e incontrollate. Un tributo di sangue, perché non tutto il sangue debba venire versato. Se si sopprime la violenza sotto la coperta corta del wishful thinking, o di quella che Bataille chiamava l’“assenza d’autorità” della democrazia, essa ritornerà più feroce di prima, e il passato rimosso occuperà presente e futuro in forme più oscure e tremende. Proprio perché la violenza nazifascista nei Balcani sembrava essere stata sconfitta sul campo militare e il mito jugoslavo si fondava sul prodigio della vittoria partigiana, come afferma lo psicoanalista Rastko Močnik, sembrava – e, nei fatti, è stato – tanto più traumatico scoprire che la stessa violenza si era solo assopita, e risiedeva identica nei presunti vincitori. Lo sapeva bene il nazista immaginario Otto Dietrich zur Linde, in Deutsches Requiem di Borges, scritto poco dopo l’inizio del primo dei processi di Norimberga:
Molte cose bisognava distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose. […] Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime. Che importa se l’Inghilterra sia il martello e noi l’incudine? Quel che importa è che ora domini la violenza.
Mi kujemo bodočnost (Noi forgiamo il futuro)
Certo, tutto questo si può rifiutare, persino con sdegno e disgusto. Ma anche chi fraintendesse Laibach come i suoi primi critici, o chi rigettasse in toto lo shock del suo metodo, o chi semplicemente ne esecrasse l’impiego di cattivo gusto e immaginari condannabili, non potrebbe negare il ruolo svolto dal gruppo, e dal collettivo artistico NSK (Neue Slowenische Kunst) da loro fondato, nel processo d’indipendenza della Slovenia. Ruolo che, nel trentennale di Laibach, nel 2010, ha ricevuto il pubblico elogio di Milan Kučan, primo presidente della Slovenia indipendente, che per l’occasione ricordò come negli anni della crisi politica ed etica della Jugoslavia, che disperatamente tentava di proteggere il proprio paradigma, Laibach mostrava che “la fonte delle difficoltà stava proprio nel paradigma in sé”. E se nel 1991 la Slovenia uscì pressoché indenne da un’unione che di lì a poco si sarebbe dissolta nel sangue, ciò “si deve anche all’operato di Laibach […] che, tramite le arti della provocazione e del dissenso, permise il risveglio di un popolo intero”. Mostrando il vuoto abissale dietro i simboli sociali assunti come idoli di pietra, Laibach, che per farlo si assumeva il fardello di quegli idoli e l’idiozia di quei simboli, aveva contribuito a rendere la Slovenia “quella ‘isola libera nel mondo socialista’, come la si chiamava al tempo”.
Qualcuno si chiederà che cosa resti di Laibach oggi, dopo quarant’anni. I Klaus Renft Combo, rifondati nel 1990, non avevano più niente da dire al pubblico della Germania unificata. Nel mondo totalitario, il dissidente può ambire al martirio; nel nostro mondo, il sistema condanna semmai all’irrilevanza e all’anonimato.
Eppure è principalmente al nostro mondo che Laibach ha rivolto lo sguardo e ha parlato negli ultimi decenni, se si escludono progetti, in realtà imprescindibili, come il concerto in Corea del Nord (2015), documentato in Liberation Day (2016) di Morten Traavik e Uģis Olte, o gli spettacoli nella Sarajevo assediata, nel 1995, quando Laibach e gli artisti del collettivo distribuirono passaporti dello “stato mentale” di NSK a centinaia di persone, che con questi documenti posticci riuscirono a superare i controlli e fuggire.
Il punto 7 del manifesto stabilisce che “Laibach non consente alcuno sviluppo dell’idea originale e il concetto originale non è evolutivo ma entelechiaco”, ossia perfetto e già al massimo grado. A mutare sono il contesto e lo “sviluppo musicale”, ma ciò “è d’importanza secondaria”. “Laibach esprime la propria atemporalità”, la stessa della croce nera di Malevič che porta al braccio, con i numerosi “artefatti del presente”, qualunque esso sia, la cui “vasta gamma permette a Laibach di oscillare, generando l’illusione di movimento (lo sviluppo)”.
Continuando perciò ad applicare il metodo della “retroavanguardia”, ossia l’impiego delle macerie del passato come metafore del presente, poiché queste talvolta possono predire il futuro (“Crediamo nel futuro, e se necessario lo cercheremo nel passato”), Laibach non cessa di mettere a nudo i meccanismi perversi dell’ideologia in un “mondo degenerato” che, vittima della sua stessa falsa coscienza secolare, se ne dichiara lontanissimo. All’ironia e al distacco con cui tutte le forze in gioco hanno preso a comunicare, come se tutte fossero consapevoli e nessuna agisse con convinzione, Laibach oppone la propria monolitica serietà. Che, oggi come nel 1980, pare quasi uno scherzo. Perché è proprio sul cinismo ironico, la modalità odierna dell’ideologia, che si fonda il sistema. A chi oggi, di fronte a Laibach, si trova incredulo e scettico, Laibach sussurra che anche questa è una reazione programmata, perché è di incredulità e scetticismo che si alimenta il mondo attuale, Gesamtkunstwerk tra i più subdoli e pervasivi.
L’autore ringrazia di cuore Arianna Moro, a cui si devono le traduzioni dallo sloveno.