I n Competencia official di Gastón Duprat e Mariano Cohn, sfavillante parodia dell’industria cinematografica, a un certo punto la talentuosa Lola Cuevas, che dovrà dirigere un film voluto da un industriale della farmaceutica che per lasciare un segno decide a ottant’anni di dedicarsi al cinema, dice apertamente ai suoi colleghi che avere dei figli avrebbe pregiudicato tanto la sua carriera quanto, soprattutto, la sua facoltà immaginativa. Avrebbe significato stare sempre all’erta e temere in ogni momento per la loro vita: vivere nella paura costante non le poteva in alcun modo garantire lo spazio per focalizzarsi sul proprio potenziale creativo né tantomeno incrementarlo. È Penelope Cruz a interpretare questa cineasta istrionica e volubile in uno degli ultimi film visti alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, ed è Cruz stessa a vestire i panni, nettamente opposti, di una madre sola e lacerata dai fantasmi della (sua) storia in Madres Paralelas di Pedro Almodóvar, in concorso.
Nel film, Cruz è nuovamente un’artista. Si chiama Janis – sua madre era una tossicodipendente e l’aveva chiamata così in onore di Janis Joplin – e fa la fotografa. Le primissime immagini di Madres Paralels sono un susseguirsi incalzante di istantanee scattate da Janis durante uno shooting realizzato per un antropologo forense, Arturo. Stacco: Janis è in ospedale, incinta, aspettando di dare alla luce sua figlia. Nella sua stanza incontra una donna incinta molto più giovane, Ana, spaventatissima e pentita di aver portato avanti la gravidanza, a differenza sua, accompagnata da una madre che vorrebbe essere ovunque tranne che lì. Ana e Janis si fanno forza e da quel momento in poi saranno inseparabili. Se Dolor y gloria aveva tutte le caratteristiche di un lascito, un film-contenitore di tutte le figure tangibili o meno del cinema di Almodóvar che ci dice, insieme al suo alter-ego, interpretato da Antonio Banderas, del trapasso a un’altra fase dell’esistenza in cui il cinema non lo si può più sentire epidermico e radicato come prima, ecco, con Madres Paralels Almodóvar sembra fare un passo indietro.
Madres paralelas intreccia le tipiche componenti del cinema di Almodóvar a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Dieci: con il tempo storico e i rivolgimenti sociali e culturali di quegli anni l’opera del cineasta iberico intrattiene una profonda relazione. Fondamentale è la questione dell’eros e del corpo, che si interseca spesso con un discorso su identità di genere, orientamento sessuale e superamento dei ruoli e confini sociali e sessuali, come in Tutto su mia madre (1999) o La mala educacion (2004). Un nomadismo relazionale definisce la galleria dei personaggi vaganti di Almodóvar, che si muovono tra commedia, dramma sotteso e soprattutto melodramma, mai abbandonato ed evidente, in Madres paralelas, nello sguardo malinconico di Janis e delle altre donne del film verso un passato che pur non avendo vissuto rimaneva ineludibile. La riflessione sulla maternità, al solito turbolenta e oscura, che il regista porta avanti a partire dalla storia personale di Janis e Ana – non per caso due donne con età agli antipodi – si inserisce infatti in un quadro molto più ampio: in una delle scene spartiacque del film Janis tenta di spiegare ad Ana il senso della memoria storica intimandole di scegliere, di decidere da quale parte della Storia schierarsi perché soltanto così l’identità delle generazioni future, dei figli e delle figlie (Janis è così madre due volte) sarebbe stata più forte.
Al pari di Carne tremula (1997), Madres Paralales è uno dei pochi passaggi dell’opera di Almodóvar in cui si fa riferimento a un avvenimento preciso della storia spagnola. Janis si commuove al pensiero delle ferite lasciate aperte dagli anni di dittatura franchista: la sua storia personale non si può slegare dal silenzio delle fosse comuni in cui all’inizio della guerra venivano gettati i corpi degli uomini strappati alle loro famiglie e case; Janis ha intenzione di dissotterrarne le ossa per riportare alla luce un dolore con cui nessuno aveva mai realmente fatto i conti.
In Madres Paralelas il materno assume una preminenza totalitaria e totalizzante poiché investe ogni aspetto del film: quello di Janis è un corpo materno fisico e allegorico dal momento che, da un lato, attraversa, come in Volver (2006) l’esperienza trasformativa della maternità, con tutta l’ambiguità con cui Almodóvar è solito raccontarla, insieme ad Ana che incarna la sua controparte; dall’altro, il regista la inquadra quasi come una figura totemica, più simbolo che carne, che si fa carico del peso della Storia e di tutto ciò che comporta disseppellirne i resti.
Oggi al cinema vediamo molte più madri tormentate e irrisolte.
Il filo conduttore di molti film presentati quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia è stato riconducibile più che alla messa in primo piano di soggetti femminili complessi, al tema della maternità. Il dato più interessante è che, anche al di là dei circuiti festivalieri, si sta facendo largo una vera e propria tendenza che vede narrazioni sempre meno stereotipate, volte a una destrutturazione del materno. In questo senso, è proprio la lente del genere (l’horror più di ogni altro) a fare da apripista a questi racconti, come nel recente Run di Aneesh Shaganty (2019), oppure in Mona Lisa and the blood moon di Ana Lily Amirpour. L’esempio più recente è il Leone d’oro L’evento di Audrey Diwan, tratto dall’omonimo romanzo di Annie Ernaux, da considerarsi in parallelo con la Palma d’oro di quest’edizione del Festival di Cannes, Titane di Julia Ducournau. Due film che guardano a quella fase di transizione in cui due giovani donne si sentono prigioniere di un corpo che cresce a dismisura e si deforma, non lasciandogli quasi possibilità di scelta: è un corpo – e con esso la “cosa”, come la chiama Ernaux nel suo libro, che questo corpo porta con sé – che vuole essere distrutto, scarnificato, torturato.
Oggi al cinema vediamo molte più madri tormentate e irrisolte. Autrici come Alice Lowe (Prevenge, 2016) Jennifer Kent (Babadook, 2014), Maggie Gyllenhaal e Julia Ducournau, partendo dalla disarticolazione della figura della madre nell’horror a una sua riproposizione comico-grottesca nell’indie movie, ci conducono in una dimensione non idilliaca e lontana anni luce dalla retorica dell’accudimento e della maternità come impegno, dedizione, come passo imprescindibile per sentirsi “complete”. A questo proposito, i cineasti e le cineaste si stanno ponendo molte più domande, andando a esplorare i tratti meno illuminati e più contraddittori, torbidi e silenziati del materno. Il punto di vista, ad esempio, da sempre adottato da Almodóvar: fin dagli esordi la madre è un fantasma che aleggia preminente sulle sue storie, raccontato ogni volta da un’angolazione diversa, mostrando gli aspetti più ambigui e sofferti della maternità. Anche Maggie Gyllenhaal punta l’obiettivo sulla fatica e sul peso di questa condizione messe in luce nel suo esordio alla regia, The Lost Daugher, tratto da La figlia oscura di Elena Ferrante.
Leda è una professoressa di letterature comparate in villeggiatura in Grecia che vive con un senso di colpa lancinante. Quasi vent’anni prima aveva lasciato suo marito e le sue due figlie per qualche anno: l’avevano convinta a distaccarsi i suoi ruoli di madre-moglie-studiosa a tempo pieno, che le stavano stretti, e una storia d‘amore consumatasi con un suo collega più maturo unita al desiderio ardente di proseguire i suoi studi senza gli impedimenti di una famiglia. Con un impianto spazio-temporale stratificato, Gyllenhaal sceglie di mostrare parallelamente le due vite di Leda: l’età giovane, i sogni, la difficoltà e l’angoscia dell’essere contemporaneamente madre e accademica, e una fase di apparente accettazione del proprio destino che, in realtà, cela qualche cosa di sospeso e insoluto.
Quando le viene domandato come sia stato vivere lontana dalle sue figlie per tanti anni Leda ammette di non averne sofferto. È un’ammissione di libertà (e di colpa, in una società che invece riserva agli uomini molta più indulgenza) che ricorda moltissimo un passaggio di Maternità di Sheila Heti (Sellerio, 2018) in cui la scrittrice descrive l’incontro con una sua ex insegnante. Entrambe erano andate a far visita alla bambina appena nata di Marion, amica della scrittrice e in passato allieva della professoressa: “Io le ho raccontato della mia visita” scrive Heiti, “e di quello che si augurava Marion per la mia vita. Lei mi ha detto: Ti prego, non avere figli. La professoressa aveva una figlia di trentacinque anni. Ho capito che voleva provare a salvarmi dalla fatica e dal dolore. Ho detto: Ma avere una figlia non è stata l’esperienza più bella della sua vita? Lei ha taciuto per un attimo, poi ha ammesso di sì”.
I film horror sono uno spazio in cui, storicamente, le ansie sulla natura della maternità e dell’affetto materno vengono disarticolate e contestate, invece di essere rappresentate senza sfumature.
Proprio in questa esitazione si insinuano le riflessioni di Gyllenhaal e di Sheila Heiti. Sono i tentennamenti e le ambiguità che interessano alle due autrici, così come i dubbi costanti e la cognizione delle proprie debolezze. Seppure con modalità differenti – da un lato, il racconto indie e a tratti noir di Gyllenhaal; dall’altro, il romanzo a metà tra autofiction e saggismo di Heti – sia The Lost Daughter che Maternità funzionano perché, come pure ha scritto Sara Marzullo a proposito del romanzo, è nell’incertezza, nell’interrogarsi sull’argomento senza arrivare a una conclusione precisa, considerando l’essere madre e la scelta di non esserlo “nella loro pienezza, con le loro rinunce, ma anche scelte e libertà” che possiamo individuare un significato.
La denaturalizzazione del ruolo della madre ha coinciso nella seconda metà del secolo scorso con una fase di trasformazioni sociali legate ai movimenti femministi, che criticavano l’imposizione del “compito” materno. Negli ultimi anni, è di nuovo una maternità non performativa, come nel film di Gyllenhaal, ma anche mostruosa e gretta, quella che ci viene raccontata al cinema, ad esempio in Mona Lisa and the blood moon di Ana Lily Amirpour, dove Kate Hudson interpreta una madre tutt’altro che apprensiva e docile, pole-dancer squattrinata alle prese con una ragazzina coreana in grado di controllare la mente delle persone. Ancora una volta, come in A girl walks home alone at night, dove la vampira protagonista vagava da sola su uno skateboard e con il chador in mezzo a una città silenziosissima, una presenza demoniaca attraversa le sequenze del cinema di Amirpour. In Mona Lisa and the blood moon, un immaginario western riadattato su toni pop e iper-definiti circoscrive la weirdness della periferia americana evocata dalla cineasta. Lo sguardo è rivolto a un femminile spaventoso – sia materno che filiale, esattamente come in Titane – che inserisce il film in una specifica tendenza, se i film horror sono uno spazio in cui, storicamente, le ansie sulla natura della maternità e dell’affetto materno vengono disarticolate e contestate, invece di essere rappresentate senza sfumature. Una rappresentazione che consente un’esplorazione più radicata di quale sia la natura e la forma dei discorsi normativi dominanti sulla maternità e sulla soggettività femminile.
Non a caso l’ossessività dell’attaccamento materno è oggetto di due film abbastanza recenti: Babadook di Jennifer Kent e Run di Aneesh Chaganty, che ci consentono di riflettere sul modo in cui oggi il cinema horror reinterpreta la figura della madre. In Run, non è difficile scorgere tra le pieghe del volto teso e corrugato di Sarah Paulson la paranoia dello sguardo stringente di Piper Laurie in Carrie – Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, film del 1976 con cui Run condivide l’ambientazione e claustrofobia domestiche e la scelta di costruire la storia sulle uniche figure della madre e della figlia, collimando nella riproposizione di un rapporto madre-figlia compulsivo e malsano. Una dinamica analoga si trova nella relazione madre-figlio raccontata dall’australiana Jennifer Kent in Babadook, dove il terrore e la mostruosità albergano nel profondo del cuore di una madre che non ama suo figlio perché nato il giorno della morte del marito. Amelia lotta con un’inquietudine interiore che si concretizza nell’uomo nero, Babadook, che tormenta le notti di suo figlio; Amelia non sa come venire a patti con il trauma e ne scarica tutta la tensione sul piccolo Samuel. Che fa fatica a crescere. Che desidera morto e mette costantemente – e inconsciamente – in pericolo.In questo senso, Chaganty e Kent mettono in scena due forme di mostruosità materna diverse: da un lato, in Run, abbiamo una madre che ama troppo sua figlia tanto da avvelenarla fin dalla nascita, costringendola alla sedia rotelle per averla sempre con lei; dall’altro, Amelia non è all’altezza degli ideali impossibili della maternità, non riesce ad adempiere a un compito che per natura spetterebbe all’esperienza delle donne. Alla fine, però, Amelia decide di “scendere in cantina”, scontrandosi con il mostro e con il suo stesso trauma, nonché con tutta una serie di aspettative sociali e culturali che riguardano l’essere madre: “abbandonate le pretese di perfezione e abnegazione che la società impone alla figura materna”, citando Elisa Cuter, “Amelia può finalmente riconoscere come sua responsabilità tanto suo figlio quanto il Babadook stesso, che da allora dimorerà nella cantina dove Amelia aveva confinato i ricordi del marito defunto, a simboleggiare il fatto che la morte non può essere rimossa”. In altre parole, queste madri, Amelia, Sarah Paulson in Run, così come le protagoniste di The Lost Daughter e Mona Lisa and the blood moon, fanno del loro meglio per soddisfare i criteri nebulosi della maternità “ideale”, ma sono destinate a fallire; il fallimento è sì al centro delle vite di queste donne, ma non è qualcosa da esorcizzare. In The Lost Daughter, è come se Leda rivendicasse il proprio diritto a fallire, a non farcela, e sceglie di andarsene, lasciandosi alle spalle – seppure per breve tempo – il duplice ruolo di madre e moglie; un gesto liberatorio oltre che politico, perché solo in quel momento Leda è davvero entrata in contatto con la natura del proprio desiderio, per quanto contraddittorio, scomodo e complicato si sia rivelato.
Tutte queste diverse sfaccettature del materno si combinano per esprimere una mostruosità che attraversa generazioni, ideologie e sessualità. Oggi, la decostruzione della maternità, la maternità come innata, naturale e desiderabile, e della coazione a conformarsi a questo ideale riguardano gran parte delle storie sul tema che ci vengono raccontate. Di madri che non si sentono abbastanza capaci, che falliscono nel proprio ruolo ammettendolo apertamente o che detestano i propri figli, così come madri che vogliono liberarsene ancora prima che nascano: è il caso di L’evento di Audrey Diwan e Titane di Julia Ducournau.
C‘è chi considera Titane un film grandioso, manifesto di una generazione fluida, queer e postumana; chi, invece, tutto ciò che il cinema non dovrebbe essere.
Il primo è un coming of age atipico e viscerale ambientato nella Francia degli anni Sessanta, che guarda all’intimismo di Eric Rohmer e Maurice Pialat. Diversamente da Cristian Mungiu, che in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni raccontava in maniera chirurgica e precisa l’aborto, facendoci osservare l’avvenimento dall’esterno e ponendosi a debita distanza, Diwan ci fa sentire la frustrazione e sofferenza di Anne, facendocela avvertire sulla pelle. La messa in scena di Diwan è molto più ravvicinata e il corpo di Anne è il vero soggetto del film: quando si guarda allo specchio, temendo di vedere la sua pancia cresciuta; quando prova, da sola, a procurarsi un aborto o quando si reca ad abortire clandestinamente, dove ogni dettaglio del suo corpo (gli occhi iniettati di lacrime a causa del dolore, il ventre gonfio, il sangue che non smette di uscire) viene portato in primissimo piano. Percepiamo così le sue emorragie, i crampi, il sudore, tutte sensazioni che riguardano lei e anche Alexia, la protagonista di Titane, che rimane incinta di una Cadillac: con una placca di titano nel cranio dopo un incidente, Alexia è il mostruoso femminile per eccellenza, il suo corpo è spigoloso e ha forme minacciose, una sorta di “biological freak”, prendendo in prestito l’espressione da Linda Williams.
C‘è chi considera Titane un film grandioso, manifesto di una generazione fluida, queer e postumana; chi, invece, tutto ciò che il cinema non dovrebbe essere. Il film ha non pochi momenti spiazzanti e spesso la sensazione è di non aver visto abbastanza, di volerne ancora di più perché molto viene adombrato e lasciato senza risposte, dal momento che i catalizzatori dell’approccio di Ducournau, evidenti già in Raw (2016), sono la ricerca e l’esplorazione di ciò che è innaturale, scomposto, ibrido: mostruoso. Ducournau sonda i limiti della corporeità umana negando allo spettatore il piacere di riflettersi nei corpi rappresentati, non normativi e vulnerabili. Non c’è incontro spettatore-immagine nel senso più rassicurante e classico dell’espressione e i codici cinematografici e di genere cui si fa riferimento vengono decostruiti e ripensati.
È un cinema di identità parziali e contradditorie, quello di Ducournau, che riflette, come Audrey Diwan, sulle vulnerabilità del corpo e sul modo in cui reagisce all’intrusione di qualcosa. In un saggio racconto nel volume Women, Monstrosity and Horror film: Gynaehorror, l’autrice Erin Harrington porta avanti una riflessione che riguarda il nesso tra i film horror e l’esperienza della gravidanza: secondo Harrington, questi film fungono da indagine ed esplorazione, mettendo narrativamente in primo piano la questione della maternità come scontro con antagonisti esterni “ma anche contro corpi mutevoli e indisciplinati, che ritraggono vividamente la natura fluida della gestazione stessa”, molto spesso articolando un complicato rapporto tra il proprio corpo gravido e il feto. In L’evento e Titane, la donna e il feto non coesistono né si congiungono felicemente; invece, è come se lottassero per il dominio. Alexia e Anne si fanno continuamente del male: tentano di uccidere il feto prendendosi a pugni il ventre o introducendo fermagli di metallo appuntiti nell’utero; Anne è sul punto di morire per aver scelto di abortire clandestinamente una seconda volta, perché la prima non aveva funzionato, consapevole dei rischi estremi; Alexia si fascia seno e pancia nascondendo la sua identità, fingendosi maschio. In questo senso, la posizione di soggetto della donna tende a divenire subordinata a quella del feto che porta in grembo, specialmente per Alexia, che perde sangue dal colore e dalla consistenza del petrolio, che sente crescere dentro di lei un’altra creatura mostruosa. La stessa che poi le squarcerà il ventre.
Questa negazione rimanda a uno spazio di profondo conflitto in cui i confini e le capacità del corpo sono contestate, cancellate e ridisegnate. È nell’incertezza con cui consideriamo il rapporto tra il corpo della donna e la “cosa” che va a scarnificarlo e torturalo che si insinuano l’orrore e la paura trasmessi dalle immagini di Ducournau e Diwan. Le citazioni ineludibili a chi molto prima aveva già raccontato le stesse cose (Cronenberg, Tsukamoto, Chabrol, Mungiu…) sono già state individuate da chi è solito guardare un film alla stregua di una deposizione, un testo da scandagliare al millimetro per vedere cosa quadra e cosa no. Quello che sorprende di Titane e L’evento sono il punto di vista e lo sguardo assolutamente nuovi e limpidi di cui le due cineaste si servono; film che trasfigurano i loro demoni in due storie diverse, che coincidono però nella centralità del corpo.