N el corso di una lunga carriera nel mercato della localizzazione di prodotti giapponesi all’estero, Matt Alt è riuscito a entrare in diretto contatto con il cuore pulsante dell’industria dell’intrattenimento multimediale del Sol Levante cogliendone in pieno l’essenza. Il rapporto esclusivo che ha saputo intrattenere con i protagonisti della produzione culturale nipponica si traduce innanzitutto in un’antologia inedita di aneddoti e curiosità dietro la nascita dei manufatti made in Japan più innovativi e fortunati. Questo già basterebbe a soddisfare la curiosità dei cultori di cultura pop asiatica della prima ora ma, fortunatamente, tra le pagine di questo libro si nasconde molto di più: ricostruendo la fitta trama di eventi, incontri fortemente voluti o fortuiti, influenze reciproche, piccole e grandi rivoluzioni che hanno segnato l’evoluzione culturale e tecnologica del Giappone a partire dal dopoguerra, Alt non offre ai lettori soltanto una Storia del pop nipponico, ma anche una preziosa guida alle bellezze e ai pericoli dell’immenso tesoro che rappresenta, mettendone in evidenza le luci più brillanti come le derive più ambigue e oscure attraverso un’analisi lucida e profonda, necessaria nel contesto del panorama culturale contemporaneo caratterizzato da un ritorno all’esotismo sfrenato e, in parte, ingiustificato.
Una preziosa guida alle bellezze e ai pericoli dell’immenso tesoro del pop nipponico: ne mette in evidenza le luci più brillanti come le derive più ambigue.
Pensiamo alla diffusione massiccia del manga nelle librerie italiane e internazionali, al dominio incontrastato degli anime nel mercato della distribuzione streaming come nei canali televisivi privati e pubblici tradizionali; pensiamo anche al settore videoludico con Mario + Rabbids di Ubisoft Italia, il successo più limpido ottenuto dall’industria nostrana negli ultimi vent’anni segnato dalla presenza comunque ingombrante dei celebri personaggi creati dal colosso Nintendo. Pensiamo alla moltitudine di ragazzi che inseguono il sogno bello e impossibile di diventare mangaka o animatori, destreggiandosi tra accademie di belle arti e scuole di fumetto; all’ossessione ingiustificata per il sushi di terz’ordine, oppure al dilagare improvviso degli hikikomori, figli di un disagio che pensavamo non appartenesse al nostro sentire.
Oggi più che mai la cultura giapponese è parte integrante delle nostre vite e sarebbe sciocco, a più di sessant’anni dal primo impatto significativo con la nuova cultura giapponese, verificatosi in occasione del trionfo di Akira Kurosawa e del suo Rashōmon a Venezia, continuare a subire passivamente la marea di stimoli e impulsi che giungono su base quotidiana dal lontano Oriente. POP ポップ in questo senso arriva, nei suoi capitoli finali, ad assumere persino i toni di un racconto dell’orrore, con la cronaca limpida e cruda dell’ascesa della nuova destra alternativa americana e del suo rapporto con la cultura otaku. Alt ci ricorda che la deriva fascista del fandom nipponico nasce dalla fruizione superficiale e passiva dei prodotti giapponesi. La mente torna subito su certi tentativi di strumentalizzare icone manga praticati dai principali gruppi della destra giovanile italiana, alla Meloni-chan su un drago al Romics che saluta i fan de Le bizzarre avventure di JoJo.
Alt ci ricorda che la deriva fascista del fandom nipponico nasce dalla fruizione superficiale e passiva dei prodotti giapponesi.
Il successo planetario dei prodotti giapponesi, tuttavia, è il culmine di un percorso che nasce da presupposti di tutt’altra natura. POP ポップ ha il grande pregio di descriverli con precisione chirurgica, individuando nei primi anni del dopoguerra un crocevia fondamentale da cui partire. Jeep giocattolo e manga drammatici, animaletti kawaii e idraulici baffuti: le icone di questo impero dei sensi nascono dall’urgenza di smantellare, ricomporre e integrare il passato e il presente in una proposta di futuro pieno di speranza, o comunque meno amaro del reale quotidiano. La macchinina in metallo di Matsuzo è concepita recuperando uno dei simboli della disfatta bellica, assemblata utilizzando materiali di recupero e infine presentata al pubblico come un piccolo grande mezzo di trasporto verso un domani pacifico. Nella commovente autobiografia manga Gekiga bakatachi (I fanatici del gekiga), Matsumoto Masahiko racconta le imprese di un trio di mangaka alle prese con la creazione di una nuova via alla narrativa sequenziale che, partendo dal caos delle macerie fisiche e psicologiche della prima generazione di perdenti giapponesi, avrebbe poi finito per offrire ore e ore di sollievo, divertimento e speranza a lettori di qualunque età, genere e nazionalità.
Tutta la storia giapponese è costellata da piccole e grandi operazioni di sintesi e sincretismo, sempre entusiasmanti o quantomeno istruttive. Dall’integrazione dei caratteri cinesi e del buddhismo, all’animazione limitata “nonostante” Disney e alla ricostruzione dell’inferno dantesco in chiave manga action, non c’è stimolo o input che i giapponesi non abbiano saputo recepire e assimilare in maniera pratica o creativa.
Le icone di questo impero dei sensi nascono dall’urgenza di smantellare, ricomporre e integrare il passato e il presente in una proposta di futuro pieno di speranza, o comunque meno amaro del reale quotidiano.
“Tecnica occidentale, spirito giapponese” è il motto che in epoca Meiji aveva spinto l’élite culturale nipponica a intraprendere un percorso di studio e assimilazione di tutto ciò che potesse contribuire allo sviluppo del Paese e portarlo ad affrancarsi dal giogo dell’occupazione occidentale. È un motto che ben riassume questa capacità di sapersi adattare, ricostruire e poi contribuire in maniera determinante al discorso culturale internazionale. È una sintesi esauriente di molti racconti presenti all’interno di questo libro, e un concetto che spiega con semplicità il motivo per cui, nonostante Disney abbia ispirato decine di migliaia di artisti nel mercato dell’editoria e dell’animazione, è esistito un unico e solo Osamu Tezuka. L’esempio dell’animazione occidentale filtrata dalla sensibilità orientale del Dio del manga moderno ha generato un’eredità artistica immensa, composta di decine di migliaia di pagine di manga e altrettanti frame di animazione, ma soprattutto un modello di artista artigiano, poliedrico e ingegnoso, capace di declinare le sue creazioni in molteplici linguaggi.
Tetsuwan Atom, la prima serie televisiva animata trasmessa in Giappone, nasce dall’esempio di Disney e UPA quanto dalla tradizione del Kamishibai, il teatro itinerante con immagini in successione che allietava i pomeriggi dei ragazzi prima dell’avvento del televisore. La natura ibrida, sospesa e profondamente interattiva dell’animazione realizzata da Mushi pro. ha reso Atom un prototipo perfetto su cui sperimentare i primi tentativi di media mix: per i ragazzi che all’epoca restavano incollati alla televisione, era come se le pagine del manga originale avessero preso davvero vita su schermo. Il dinamismo immobile del disegno di Tezuka si adagiava perfettamente sull’impalcatura essenziale dell’animazione limitata di Atom, ma soprattutto investiva tutto il merchandise legato alla serie di un’energia magnetica, una forza di attrazione a cui i ragazzi non riuscivano a resistere e che avrebbe garantito allo studio di generare i profitti necessari per restare in attività. Già dal 1963, quindi, il merchandising costituirà il mezzo di sostentamento principale dei maggiori produttori di anime. La diffusione dell’immagine di un personaggio oltre le pagine del manga e lo schermo televisivo, unita alla sua presenza materiale nel contesto sociale e culturale quotidiano ha garantito l’ascesa inesorabile della cultura otaku, in Giappone prima e successivamente oltre i confini nazionali.
Tutta la storia giapponese è costellata da piccole e grandi operazioni di sintesi e sincretismo, sempre entusiasmanti o quantomeno istruttive.
Quando arrivarono in Italia, anime e manga erano già da tempo ingranaggi collaudati della potente macchina di contenuti nipponica. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, un numero crescente di anime, inizialmente conosciuti come semplici cartoni animati, popola emittenti private e pubbliche, ed è accompagnato da operazioni commerciali legate alla produzione di pubblicazioni cartacee, dischi di sigle animate e gadget. In un entusiasmante e notevole giro del mondo in 25 frame al secondo, la prima a comparire sul programma La tv dei ragazzi è Barbapapà, una produzione internazionale che coinvolge anche Francia e Olanda ispirata ai fumetti di Tison e Taylor. Tezuka esordirà sugli schermi italiani con Janguru Taitei, conosciuto da noi come Kimba, il leone bianco, nel 1982. L’impatto degli anime sulle generazioni di giovani cresciute a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta è per certi versi devastante, considerando per esempio l’onda lunga del successo di cui ancora oggi godono le serie di fantascienza dedicate ai robottoni di Nagai Gō, amate dai giovanissimi e dai bamboccioni ormai quarantenni che ancora faticano a dire addio ai ricordi di infanzia.
L’effetto nostalgia, anch’esso generato da quel dinamismo immobile ingegnerizzato nello studio di Tezuka e perfezionato dagli altri studi di animazione, segna il rapporto che tanti ragazzi degli anni Ottanta intrattengono con l’animazione giapponese. A stupire è anche la varietà di generi e stili che caratterizzano queste animazioni, talmente grande da soddisfare senza fatica né particolari discriminazioni spettatori e spettatrici giovanissime e adolescenti: da Urusei Yatsura (Lamù) a Captain Tsubasa, da Hokuto no ken (Ken il guerriero) a Berusaiyu no bara (Lady Oscar), gli slot pomeridiani e serali dedicati ai cartoni animati hanno sempre qualcosa per tutti. È lontana la monotonia derivata dalla narrazione centralizzata occidentale: negli anime, anche il più debole degli ingranaggi può diventare eroe.
È lontana la monotonia derivata dalla narrazione centralizzata occidentale: negli anime, anche il più debole degli ingranaggi può diventare eroe.
Al crescente interesse verso l’Oriente, in parte agevolato anche da questo processo di democratizzazione narrativa, si affianca anche la fascinazione verso gli aspetti ancora più esilaranti ed estremi della cultura videoludica giapponese sbocciata tra sale giochi di periferia e consolle casalinghe, secondo modalità che per certi versi ricalcano l’invasione negli Stati Uniti di Sega e Nintendo. Videogiochi e anime hanno così spianato la strada alle prime pubblicazioni di manga degli anni Novanta, con editori come Granata Press e Star Comics a capitalizzare il successo degli adattamenti animati di Ken il guerriero e Dragon Ball, o realtà più alternative come Coniglio Editore e altri oscuri editori a battere i territori delle pubblicazioni erotiche e grottesche. A partire dall’ultima decade del secolo scorso, il manga entra così in pianta stabile nel circuito della distribuzione da edicola al pari delle altre pubblicazioni a fumetti di produzione italiana e occidentale, mentre per quanto riguarda gli anime assistiamo all’arrivo in sordina delle prime animazioni per adulti: Akira di Ōtomo Katsuhiro, lanciato anche su Fuori Orario di Rai Tre e Neon Genesis Evangelion di Anno Hideaki a incantare un pubblico di futuri scrittori, disegnatori, lettori e registi nell’ambito della programmazione Anime Night di Mtv.
Infine, all’alba del nuovo millennio, un piccolo ma significativo evento editoriale segna un passo ulteriore nell’ascesa del manga nel nostro Paese. Forte della sua esperienza da mangaka nella redazione delle riviste giapponesi Morning e Mandala, il fumettista e illustratore Igort introduce una svolta radicale nel panorama degli adattamenti manga proponendo con la sua casa editrice Coconino Press volumi one-shot e serie brevi di autori del calibro di Taniguchi Jirō, Maruo Suehiro e Tatsumi Yoshihiro, presentati in una veste editoriale che richiama, tra sovraccoperte e copertine in bicromia, carta spessa e avoriata, le migliori produzioni giapponesi. Igort ha osservato da vicino il mercato del manga e ne conosce bene le potenzialità espressive: in Giappone, il manga è vissuto al pari di un secondo idioma, un linguaggio capace di dialogare con un pubblico che trascende età e genere trattando qualsiasi tematica e argomento. Con la pubblicazione di Quartieri lontani e un’altra manciata di titoli tra cui i tankōbon francesi della serie Autoroute du soleil di Baru nel 2004, si inaugura la lunga stagione del manga da libreria, un fenomeno che attualmente coinvolge anche la produzione di titoli commerciali e arriva a rappresentare il 30% dell’intera produzione libraria in Italia. Il dato è impressionante, soprattutto perché a differenza di altri settori “forti” come quello del videogioco o dell’animazione, il fumetto in Italia ha una tradizione di rilievo internazionale che poggia su grandi editori come Sergio Bonelli Editore e Astorina, riviste storiche come Topolino e Linus e festival da capogiro come Lucca Comics & Games. Il manga continua a sottrarre pubblico alle maggiori realtà del settore, intercettando prima di tutto gli adolescenti, con narrazioni pensate appositamente per loro, scritte intorno a tematiche sempre attuali e realizzate con un linguaggio che non tradisce la struttura del manga moderno architettato da Tezuka nel lontano 1952, ma si limita ad aggiornare gli elementi fondanti, integrando nuovi stimoli e impulsi provenienti da altre opere e molteplici linguaggi espressivi.
‘Tecnica occidentale, spirito giapponese’ è il motto che aveva spinto l’élite culturale a intraprendere un percorso di assimilazione di tutto ciò che potesse contribuire ad affrancarsi dal giogo dell’occupazione occidentale.
È innegabile, quindi, che la presenza sempre più ingombrante di manga, anime e videogiochi provenienti dal Giappone sia determinata prima di tutto dalle qualità e dai meriti della proposta. Scrittori, registi, mangaka e creativi producono i loro lavori mossi dalla stessa urgenza che ispirava i pionieri delle pure invenzioni nipponiche. È legittimo da parte degli appassionati vivere questa stagione felice del rapporto tra Italia e Giappone. Tuttavia, è altrettanto vero che una riflessione profonda su questo rapporto sia quanto mai urgente. L’impressione è che l’impoverimento culturale derivato dall’omologazione a contenuti e stilemi tipici di manga, anime e produzioni nipponiche in generale sia un rischio reale, un malessere silenzioso i cui sintomi sono però già ben visibili, per esempio nella produzione di Euromanga come nella progettazione delle Japan Town, veri e propri ghetti in cui le organizzazioni dei maggiori festival europei tentano di contenere l’onda crescente del popolo otaku come fosse bestiame, con risultati che oscillano tra l’horror e lo splatter. La speranza è che partendo dall’esempio giapponese descritto da Alt sia possibile un’opera di rinnovamento culturale, una nuova stagione caratterizzata da un dialogo più profondo e proficuo tra Occidente e Oriente.
Estratto da POP ポップ. Come la cultura giapponese ha cambiato il mondo (add editore, 2023).