A lla sessantesima edizione della Biennale d’Arte di Venezia, il padiglione Germania presenta una mostra collettiva intitolata Thresholds, a cura di Çağla Ilk, che include le opere di Yael Bartana, Ersan Mondtag, e una serie di installazioni sonore presso l’isola della Certosa nella laguna veneziana. Il progetto espositivo è animato dal tentativo di fornire una risposta a questioni urgenti legate agli attuali sconvolgimenti (geo)politici su scala planetaria. Nel suo testo curatoriale, la curatrice espone in questo modo le due domande che informano Thresholds: “Durante un periodo di crisi globali e guerre, ci siamo posti la seguente domanda: Quali potrebbero essere i luoghi di solidarietà? Come possiamo superare i costrutti territoriali e i modi di pensare legati allo Stato-Nazione?” Questa contrapposizione tra spazi di solidarietà e Stati-Nazione appare giustificata dal fatto che “per molte persone in tutto il mondo vivere sulla soglia tra nazionalità e appartenenza è un’esperienza traumatica e violenta”. Thresholds si propone di “generare, a partire da questa esperienza, una posizione di comprensione e trascendere momentaneamente questi confini”.
Come viene esposto in un altro testo introduttivo presente nel booklet della mostra, questo progetto espositivo intende mostrare come i confini che dividono le diverse comunità umane possano mutarsi in “uno spazio di transizione che permetta di immaginare un futuro condiviso a partire dalla nostra realtà presente” nel tentativo di rappresentare “i sogni e le narrative che emergono da uno spazio liminale”. Questi spazi di confine si pongono quindi come luoghi di connessione e interazione tra le diverse culture umane, piuttosto che come barriere insuperabili. (A tal proposito, nel saggio Progettare il disordine, Richard Sennett e Pablo Sendra dimostrano come anticamente le mura della città fossero spesso anche sede di mercati, proprio perché esse facilitavano gli scambi con l’esterno anziché semplicemente isolare la comunità cittadina al loro interno).
Uno dei due lavori esposti negli spazi del padiglione Germania è un’opera multimediale intitolata Light to the Nations dell’artista israeliana, attualmente di base a Berlino, Yael Bartana. Mettendo in relazione fantascienza e misticismo ebraico, l’opera narra un possibile esodo dal pianeta Terra a bordo di una nave spaziale, con il fine di garantire la sopravvivenza della razza umana minacciata da un’imminente catastrofe globale. Nella descrizione di Light to the Nations, il testo introduttivo alla mostra sottolinea che
pur essendo basato sulle tradizioni ebraiche,
Light to the Nations trascende i confini religiosi, etnici, nazionali, statali e tribali, offrendo un futuro a tutta l’umanità, […] L’astronave naviga oltre le nozioni tradizionali di spazio, territorio e connessione umana con la Terra, sfidando sia la forza di gravità, sia il desiderio umano di appartenenza. Essa diventa quindi un simbolo di redenzione e istanza di nuove strutture sociali, ridefinendo così la relazione dell’umanità con le sue origini terrestri e territoriali.
Light to the Nations è costruita come un’opera d’arte totale dai caratteri epici. Articolata in tre parti organicamente disposte negli spazi del padiglione tedesco, l’opera ne pervade gli ambienti con un’atmosfera cupa e sinistra che evoca il destino infausto che incomberebbe sull’umanità intera. Nella prima stanza, in un ambiente fumoso appena illuminato da luci ipnotiche in cui riecheggiano suoni bassi e monotoni, è sospesa a mezz’aria una riproduzione in larga scala della nave spaziale progettata per l’esodo. La sua struttura riproduce il diagramma delle Sephirot, le dieci emanazioni divine che nella tradizione cabalistica costituiscono i principi fondamentali della vita umana. Le dieci Sephirot diventano qui le sfere che compongono la nave spaziale, ognuna delle quali è designata ad ospitare una delle funzioni necessarie alla vita di una comunità umana nel corso di un lungo viaggio interstellare.
Mentre il suo nome, Generation Ship (nave generazionale), riprende un’idea sviluppata nell’ambito della letteratura fantascientifica dei primi anni del Ventesimo secolo, che immagina un viaggio di migliaia di anni verso nuovi pianeti da colonizzare. Il nome Generation Ship fa riferimento al fatto che, a causa della sua durata plurimillenaria, durante questo viaggio interstellare si succederebbero diverse generazioni di cosmonauti prima di raggiungere la destinazione finale. In un’altra stanza del padiglione, l’ambiente interno di una delle sfere della nave spaziale è ricostruito in forma di installazione video immersiva, permettendo ai visitatori di immedesimarsi nei cosmonauti della missione Generation Ship.
Light to the Nations pervade gli ambienti con un’atmosfera cupa e sinistra che evoca il destino infausto che incombe sull’umanità intera a causa dei cambiamenti climatici.
Passando nello spazio principale del padiglione, ci si ritrova davanti ad uno schermo LEDwall semicircolare di dimensioni imponenti su cui è proiettato il film Farewell. L’opera video ritrae il gruppo di persone selezionate per la missione Generation Ship nell’atto di celebrare il rituale di addio alla Terra abbigliati da silfidi, gli spiriti del vento della mitologia tedesca. In questa parte dell’opera, infatti, il riferimento culturale non è più quello ebraico, ma quello dell’antica cultura germanica. Il rituale si svolge in un paesaggio notturno illuminato dalla luna piena e riproduce alcuni motivi della Ausdruckstanz, una forma di danza sviluppatasi nella Germania di inizio ‘900 in contrapposizione al balletto classico, considerata come l’origine della danza moderna. L’Ausdruckstanz è tuttavia anche alla base delle coreografie oceaniche dei regimi totalitari del secolo scorso, che spesso compaiono nei film di propaganda di regime. Infatti, ad uno sguardo più attento, è facile notare come Farewell sia in realtà una fedele riproduzione dei primi minuti del film Olympia di Leni Riefensthal, il film commissionato dal regime nazista per documentare i giochi olimpici di Berlino del 1936. Infatti, la prima parte di Olympia ritrae uomini e donne seminudi impegnati in una serie di attività fisiche col fine di rappresentare l’ideale nazista di corpo ariano.
Per quanto sia difficile credere che l’opera centrale del padiglione Germania sia un monumentale tributo a un film prodotto sotto la supervisione di Joseph Goebbels, l’incredibile somiglianza tra Farewell e le scene introduttive del film di Leni Riefenstahl non lascia dubbi sul fatto che l’artista israeliana le abbia replicate intenzionalmente: il gruppo di donne e uomini che danzano in cerchio davanti alla luna piena con le braccia e le mani tese verso l’alto, l’uomo che corre attraverso un paesaggio notturno verso l’osservatore sollevando una torcia, poi ritratto da una prospettiva angolare dal basso che ne mette in risalto il petto muscoloso, sono scene perfettamente sovrapponibili a quelle di Olympia. Inoltre, la colonna sonora di Farewell che ricorda i cori cupi e patetici del Götterdämmerung wagneriano sottolinea in maniera ancora più efficace il riferimento alla cultura germanica di un periodo arcaico e leggendario, un immaginario su cui il regime nazista fondava la sua estetica politica.
Farewell è una fedele riproduzione dei primi minuti del film Olympia di Leni Riefensthal, il film commissionato dal regime nazista per documentare i giochi olimpici di Berlino del 1936.
In un punto di passaggio tra due spazi del padiglione, su un piccolo schermo tv, viene trasmessa una videointervista alla storica dell’arte Doreet LeVitte Harten, che in qualità di esperta in fantascienza e misticismo ebraico ha collaborato all’ideazione dell’opera di Yael Bartana. Nel corso della sua intervista, Doreet LeVitte Harten espone in maniera dettagliata i fondamenti teorici, teologici, e politici su cui regge l’opera. Soffermandosi su un concetto centrale di Light to the Nations, quello di generation ship, Doreet LeVitte Harten spiega come questo topos della letteratura fantascientifica venga declinato nell’opera di Yael Bartana:
La particolare
generation ship di cui discutiamo qui è stata creata a seguito dell’aumento del livello degli oceani. Tel Aviv è stata sommersa e il mare sta raggiungendo Gerusalemme. Non c’è più spazio dove poter vivere. Una cometa si sta avvicinando alla terra e la temperatura sta diventando insostenibile. È diventato troppo pericoloso per la vita umana. Bisogna evacuare questo luogo.
Nella spiegazione di Doreet LeVitte Harten emerge quindi un primo elemento di ambiguità dell’opera di Yael Bartana rispetto alle intenzioni del progetto espositivo di cui essa fa parte – “superare i costrutti territoriali e i modi di pensare legati allo Stato-Nazione”. Circoscrivendo lo scenario nei confini dello Stato israeliano, sembra che sia proprio lo Stato-Nazione ad operare come agente della salvezza della razza umana, cosa che emerge ancora più chiaramente in un passaggio successivo dell’intervista:
Noi qui stiamo parlando di una nave spaziale ebraica. Ma di fronte al cataclisma, questa non sarà l’unica nave spaziale. È probabile che ogni superpotenza lancerà la propria
Generation Ship, nel tentativo di salvare il proprio popolo, la propria religione, e la propria eredità culturale.
Le spedizioni interstellari sarebbero quindi il risultato dell’iniziativa di varie superpotenze, che immaginiamo essere Stati-Nazione, il cui obiettivo sarebbe quello di salvaguardare esclusivamente l’identità etnica, culturale, e religiosa in cui ciascuna superpotenza si riconosce. Dal discorso di LeVitte Harten, emerge quindi chiaramente che Light to the Nations sarebbe il racconto del modo in cui la superpotenza israeliana tenterebbe di salvare dalla catastrofe il suo popolo, la sua religione, la sua eredità culturale. Analizzando perciò l’opera di Yael Bartana nelle sue effettive articolazioni interne, aldilà di vaghi riferimenti universalistici alla salvezza dell’umanità intera, diviene evidente che essa sia da situare all’interno di uno specifico orizzonte ideologico, ovvero quello delle politiche che informano l’attuale operato dello Stato israeliano, fondate sull’identificazione della comunità nazionale con un particolare gruppo etnico e religioso – “Israele è lo Stato-Nazione del popolo ebraico”, com’è dichiarato nella Legge Fondamentale approvata dalla Knesset nel 2018. Questa identificazione tra Stato israeliano e popolo ebraico, com’è stato fatto notare da diverse organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea per voce del suo alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, implica l’esclusione delle comunità non ebraiche dal pieno riconoscimento del proprio diritto di cittadinanza.
Light to the Nations sembra quindi partecipare della visione ideologica propria dello stato israeliano. Oltre infatti alle affermazioni di Doreet LeVitte Harten, che non lasciano molto spazio per interpretazioni coerenti con la dichiarata visione utopistica di Thresholds, è inoltre facile notare come nel film che ritrae i partecipanti alla missione Generation Ship (il già citato Farewell) compaiano esclusivamente persone bianche dai tratti caucasici, cosa che confermerebbe il quadro teorico-politico delineato da Doreet LeVitte Harten, che afferma la centralità di uno Stato- nazione che s’identifica con un popolo, una cultura e una religione nella narrativa salvifica di Light to the Nations.
All’interno di questo già ristretto gruppo di persone, vi sarebbe poi un’ulteriore selezione effettuata sulla base di principi esposti da Doreet LeVitte Harten:
È cruciale selezionare il miglior gruppo genetico possibile. Questo significa che tutti vorranno imbarcarsi sulla nave spaziale, ma dato che sarà possibile imbarcare solo 98 persone circa, ognuna di queste deve essere un vero gioiello. Questi dovranno essere intelligentissimi e in perfette condizioni fisiche.
Muovendosi sulla sottile linea di confine tra utopia e distopia che caratterizza la narrativa fantascientifica, viene quindi spiegato che le persone che avrebbero diritto di salvarsi, sarebbero selezionate non solo in base alla loro appartenenza etnica, culturale, e religiosa, ma anche in base alle abilità fisiche e mentali. Per quanto possa sembrare inevitabile adottare dei principi di selezione in un contesto drammatico quale un’imminente catastrofe globale, dalla quale solo un ristretto gruppo di persone potrà salvarsi, non si può far a meno di notare che legare il diritto di sopravvivenza di uomini e donne alle loro abilità fisiche e mentali costituisce il principio fondamentale dell’eugenetica. Affermare quindi che la salvezza potrà essere garantita solo a chi appartiene ad uno specifico gruppo etnico-religioso, che rispetti inoltre determinati standard eugenetici, conferisce inevitabilmente una connotazione radicalmente suprematista all’opera di Yael Bartana.
Le spedizioni interstellari sarebbero quindi il risultato dell’iniziativa di varie superpotenze, che immaginiamo essere Stati-Nazione, il cui obiettivo sarebbe quello di salvaguardare esclusivamente l’identità etnica, culturale, e religiosa in cui ciascuna superpotenza si riconosce.
Un altro aspetto fondamentale di Light to the Nations è la particolare interpretazione del concetto cabalistico di Tikkun Olam (o “riparazione del mondo”) proposta da Doreet LeVitte Harten. La storica dell’arte israeliana spiega come nella narrativa di Light to the Nations questa nozione fondamentale della teologia ebraica che concepisce la riparazione del mondo come un imperativo morale, si articola secondo una duplice dinamica: è necessario abbandonare la terra sia per permettere a quest’ultima di guarire dalla presenza umana (“Dobbiamo fare spazio per dare una possibilità al mondo di guarire”), sia per fare in modo che sia l’umanità stessa a seguire un processo di guarigione. “La riparazione della terra è anche la nostra riparazione. Perché noi non saremmo capaci di vivere in un mondo catastrofico”.
Questa nozione di “riparazione del mondo” assume tuttavia dei caratteri inquietanti se messa in relazione a quei principi suprematisti precedentemente esposti. L’implicazione logica sarebbe infatti che chiunque non rispetti quei principi di selezione stabiliti prima della partenza verrà lasciato morire sulla terra. Poi una volta che la Terra completerà il suo processo di riparazione e tornerà ad essere nuovamente abitabile, i discendenti delle persone selezionate per la missione Generation Ship potranno tornare a ripopolarla con una nuova forma di umanità eugeneticamente rigenerata; una prospettiva definita da Doreet LeVitte Harten come la “dimensione messianica” di Light to the Nations. Perciò, anziché configurarsi come un progetto sulla salvezza dell’umanità intera, nella sua diversità e pluralità, il lavoro di Yael Bartana sembra rappresentare un esperimento eugenetico su larga scala mirato alla creazione di una comunità umana etnicamente ed eugeneticamente omogenea.
In un altro passaggio della sua intervista, Doreet LeVitte Harten sottolinea il legame tra questa nozione di salvezza e la catastrofe: “Tutte queste catastrofi sono molto importanti perché gettano le fondamenta per la Generation Ship, per una possibilità di salvezza”, un’affermazione che sembra alludere alla desiderabilità di queste catastrofi. Anche in questo caso quindi si presenta un’ambiguità di fondo nella narrativa di Light to the Nations che ne mette in luce degli aspetti preoccupanti: perché ci sia possibilità di salvezza, è fondamentale che ci sia la devastazione del pianeta e lo sterminio della quasi totalità della popolazione umana. Questo discorso, che in sé potrebbe essere considerato una elaborazione di un elemento proprio della letteratura fantascientifica, assume dei risvolti inquietanti nel momento in cui lo Stato israeliano ci fornisce un esempio fattuale di questa aberrante relazione tra salvezza e distruzione con l’attuale guerra su Gaza. Nella realtà, fuori dalla cornice della speculazione fantascientifica, lo Stato israeliano sembra aver legato la sicurezza del suo popolo allo sterminio del popolo palestinese e alla distruzione del territorio in cui esso vive.
È lo stesso titolo, Light to the Nations, tratto da un passaggio del libro d’Isaia dell’Antico Testamento, “voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra”, a evidenziare ulteriormente la visione di fondo di quest’opera. La “luce delle nazioni” farebbe riferimento alla missione della nazione israeliana di diventare guida e modello per tutte le altre nazioni. Nella sua intervista, Doreet LeVitte Harten fonda questa pretesa, enfatizzando la presunta superiorità della nazione israeliana rispetto alle altre:
Noi crediamo sinceramente che siamo il meglio che possa indicare la strada all’umanità. Noi siamo il faro che fa luce nelle tenebre e il resto dell’umanità seguirà la nostra scia. In effetti, stiamo ripetendo la storia biblica di Isaia. Noi serviremo da luce al resto delle nazioni in termini etici, morali e di decoro. Noi siamo la cosa migliore che si possa trovare, e tutti dovrebbero fare come facciamo noi perché è la cosa giusta da fare.
Nonostante il tono roboante delle affermazioni di Doreet LeVitte Harten possa lasciar intendere che in queste parole ci sia un intento ironico o provocatorio, esse appaiono tuttavia perfettamente coerenti con la struttura dell’opera di Yael Bartana. Inoltre, non si può fare a meno di notare che queste affermazioni sono tragicamente simili alle altrettanto deliranti dichiarazioni del presidente Benjamin Netanyahu sull’ineccepibile moralità dell’esercito israeliano rilasciate il 28 ottobre 2023, poche settimane dopo l’inizio delle operazioni militari a Gaza che porteranno lo Stato israeliano ad essere messo in stato d’accusa per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e genocidio presso la Corte di Giustizia Internazionale.
Stupisce che in anni di presunto impero del politicamente corretto un’opera che scherza su eugenetica e atavismi nazisti non abbia suscitato particolari reazioni.
In un altro passaggio dell’intervista a Doreet LeVitte Harten, viene sottolineato il legame tra letteratura fantascientifica e colonialismo: “È impossibile pensare alla fantascienza, senza pensare anche al colonialismo. Perché la fantascienza è basata sull’urgenza di lasciare il proprio luogo per conquistarne un altro”. Sebbene, come nota Doreet LeVitte Harten, la fantascienza si sia successivamente dimostrata capace di offrire gli strumenti per una critica al colonialismo, è tuttavia evidente che il lavoro di Yael Bartana rimane coerente con la letteratura fantascientifica di fine ‘800 e inizio ‘900, che trovando il suo fondamento culturale nel colonialismo europeo, perpetra elementi propri del suprematismo bianco. È con la comparsa dell’Afrofuturismo nel secondo dopoguerra che la fantascienza diviene anche uno strumento per mettere in discussione la cultura occidentale razzista e coloniale, sviluppando narrative speculative in cui il viaggio verso nuovi mondi diventa una modalità con cui gruppi etnici storicamente oppressi dal colonialismo occidentale trovano possibilità di emancipazione dalla loro condizione di subalternità.
I protagonisti della narrativa fantascientifica di Light to the Nations, israeliani bianchi dai tratti caucasici, costituiscono tutt’altro che un gruppo etnico-sociale oppresso; al contrario, essi sono coloro che occupano una posizione dominante nella comunità politica di cui fanno parte. Perciò la ricerca di nuovi mondi sembra costituire un mezzo per rafforzare il privilegio a discapito di chi occupa una posizione di subalternità all’interno della comunità che essi dominano. Anziché somigliare alle sperimentazioni nel campo della fantascienza di Sun Ra e Octavia Butler, con i suoi principi suprematisti, Light to the Nations richiama più adeguatamente il progetto utopico Nueva Germania dei coniugi tedeschi Bernhard Förster e Elisabeth Nietzsche, la colonia ariana fondata in Paraguay alla fine del Diciannovesimo secolo con l’obiettivo di creare una nuova Nazione germanica purificata da elementi non ariani.
Anziché configurarsi come un progetto sulla salvezza della razza umana, nella sua diversità e pluralità, il lavoro di Yael Bartana racconta senza giudizi un esperimento eugenetico su larga scala mirato alla creazione di una comunità umana etnicamente omogenea.
L’esplicito richiamo al colonialismo di Light to the Nations lascia interdetti, se messo in relazione al dibattito attuale sulla necessità della decolonizzazione del sistema culturale occidentale che anche importanti istituzioni culturali, quali la stessa Biennale di Venezia, stanno portando avanti ormai da anni. Nel corso dell’intervista a Doreet LeVitte Harten, il colonialismo viene presentato in maniera disinvolta come una dimensione priva di qualsiasi criticità, definita semplicemente come “l’urgenza di lasciare il proprio luogo per conquistarne un altro”, tralasciando tutto il portato di morte e distruzione che il colonialismo implica.
La nozione di colonialismo è inoltre declinata sia nella sua dimensione fantascientifica, come colonizzazione di altri pianeti, sia nella sua dimensione storica, come fondamento della letteratura fantascientifica. L’assoluta naturalezza con cui un’opera che rivendica la validità del colonialismo viene inclusa in un progetto espositivo, Thresholds, che come già riportato ambisce a superare “confini religiosi, etnici, nazionali, statali e tribali”, unita alla totale assenza di copertura giornalistica di questa aberrazione, conduce inevitabilmente ad interrogarsi sulle modalità con cui tale il processo di decolonizzazione del sistema dell’arte venga effettivamente attuato. Dal 2020, a seguito dell’uccisione di George Floyd da parte di un agente della polizia di Minneapolis, il movimento Black Lives Matter ha messo in evidenza e sfidato le fondamenta razziste e coloniali della cultura occidentale. L’ondata di lotte e manifestazioni che hanno travolto le principali città europee e statunitensi hanno permeato molte delle istituzioni culturali occidentali.
Queste si sono dimostrate, spesso in maniera un po’ sorniona, disponibili ad accogliere e supportare le rivendicazioni politiche di questo movimento transnazionale, al punto che nel 2020, a Black Lives Matter è stata assegnata la prima posizione nella prestigiosa Power100, la classifica delle 100 persone più influenti nell’arte contemporanea stilata dalla rivista britannica Art Review. Da quel momento, numerosi musei e istituti di arte contemporanea si sono impegnati a diversificare le proprie acquisizioni includendo artisti non bianchi nelle loro collezioni, adottare policies antirazziste, includere in organico personale non bianco, e promuovere progetti e iniziative che ampliano lo spettro dell’arte moderna e contemporanea al di là dei confini dell’Europa e Nord America, cosa che ha permesso di dare vita ad un processo di analisi critica dei legami tra la cultura contemporanea occidentale e passato coloniale. Light to the Nations appare in totale controtendenza rispetto a questo processo di trasformazione e, cosa ancora più sorprendente, pare che nessuno ci abbia fatto caso.
Questa svista potrebbe segnalare, semplicemente, uno stato di fondamentale superficialità della critica d’arte, magari legato alla sua crisi ormai conclamata. Ma il fatto che critici e giornalisti non abbiano sentito l’urgenza di discutere pubblicamente dell’impressionante ambiguità di un’opera presentata da uno dei padiglioni principali della Biennale, potrebbe essere il segnale di qualcosa di più profondo ed inquietante, ovvero, che in determinati contesti politico-culturali, colonialismo e suprematismo bianco rimangono realtà assolutamente legittime e tollerate.