A partire dal 6 dicembre verrà proiettato nelle sale italiane Loveless, nuovo film del regista russo Andrey Zvyagintsev e vincitore del premio della giuria all’ultimo festival di Cannes. È un film che senza cambiare il registro espressivo dei precedenti, e senza smettere di mandare immagini di tetro imbestiamento dalla Russia di Putin, è stato costruito invertendo il principio narrativo abituale: non tanto intorno a un personaggio, quanto alla sua assenza. Non si tratta di cinema sperimentale, il personaggio è vero e concreto: Alexey, un ragazzino di dodici anni che vediamo apparire nei primi minuti e poi mai più. Destino filmico appropriato per una vita che gli stessi genitori di Alexey sembrano considerare insignificante.
Boris e Zhenya, che si odiano e si stanno separando, cercano infatti di liberarsi di lui come di uno spiacevole ricordo: lui non lo vuole, lei nemmeno. Hanno entrambi una nuova vita che li aspetta. Insultandosi a vicenda decidono che il bambino andrà in un collegio per orfani mentre Alexey, che li ascolta nascosto dietro la porta, piange in silenzio per non farsi notare. Da questo momento non lo vedremo più.
La vita di Zhenya, proprietaria di un salone di bellezza, è dominata dal rancore verso sua madre e verso suo marito. Al nuovo e ricco partner, che ostenta alle dipendenti come un costoso gioiello, racconta di non avere mai amato nessuno e di avere provato disgusto alla nascita del bambino. Boris sta facendo carriera nell’azienda di un cristiano ortodosso fondamentalista, teme di perdere il lavoro a causa del divorzio e conta di risposarsi il prima possibile con la nuova compagna per non farsi vedere solo alla festa aziendale di fine anno. In questo loro universo solipsista non c’è posto per Alexey. Cercano di vendere la casa in cui stanno ancora abitando, fanno progetti per il futuro; flirtano felici e passano gran parte del tempo a scrivere sms. Vogliono lasciarsi alle spalle la vecchia vita; quel figlio di troppo, che provoca in loro il fastidio di un errore irrimediabile, passa le sue giornate in solitudine. In questo contesto familiare, in un anonimo quartiere di Mosca, Alexey non viene rapito e non scappa: smettiamo di vederlo. Fino a quando anche i genitori – avvisati dalla scuola che il bambino è assente da due giorni – si rendono conto di non averlo visto per un po’.
Più che la storia di un ragazzino scomparso, Loveless racconta l’indifferenza suscitata dalla sua scomparsa.
È un tratto costante del lavoro di Zvyagintsev: raccontare storie sottraendo di proposito due elementi essenziali allo storytelling ortodosso quali la spettacolarità dell’evento e il crescere della tensione. Non ci sono scene culminanti, non vediamo gli eventi decisivi. Contro il facile e indignato pathos umanista del “valore della vita” e del “diritto alla vita”, nei suoi film Zvyagintsev ci mostra personaggi che uccidono premeditatamente o colposamente, violentano e si suicidano senza tumulto, senza scandalo, nell’irrilevanza più assoluta. Come se in quella Russia che resta sempre e solo uno sfondo anonimo (con le periferie cittadine, gli edifici in rovina, le abitazioni dei ricchi e quelle dei miserabili, la foto del Presidente appesa alle spalle dei burocrati) la morte e il sangue fossero una presenza così ubiqua da non meritare una menzione specifica. Restano sullo sfondo anche loro, che il film ci racconti i crimini di un politico di provincia, come in Leviathan, oppure un omicidio domestico come in Izgnanie. Il primo piano è per la vita quotidiana dei personaggi che diffidano gli uni degli altri, vivono di inganni, ridono come scimmie, si accoppiano di nascosto, tradiscono i propri amici e si ubriacano senza gioia in un incubo sommesso fatto di indolenza, violenza e viltà. Non a caso nei film di Zvyagintsev non riusciamo a simpatizzare con nessuno, nemmeno con le vittime. Ci sono solo dei dannati che con il sottofondo incessante e insensato della televisione (fatto di esercizi ginnici, ricette di cucina e relazioni di coppia) vivono tra fucili, bambini, vodka e pornografia.
In questo, Loveless non fa eccezione. Più che la storia di un ragazzino scomparso, racconta l’indifferenza suscitata dalla sua scomparsa. Per Alexey non riesce a preoccuparsi nessuno: la polizia ha troppo da fare e dopo aver compilato un formulario suggerisce ai genitori di rivolgersi a un’associazione di volontari. La nonna, divorata dall’odio verso Zhenya, lo chiama “quel tuo bastardo”. Quando le ricerche si avviano e proseguono infruttuose tra le strade del circondario e gli ospedali della città, Boris e Zhenya si uniscono passivamente al gruppo dei soccorritori e cercano conforto pensando al futuro, a quella vita che finalmente sorriderà loro quando i problemi saranno finiti. Zhenya è finalmente innamorata, la nuova compagna di Boris è già incinta. Meditano di punire Alexey per quel dispetto così inopportuno (proprio adesso che si stanno lasciando) e provano solo rancore: verso la nonna, verso la polizia, verso i volontari. La telecamera, che non entra mai in “soggettiva”, ci mostra strade deserte, case popolari, le stanze vuote della burocrazia davanti alle cui finestre cade la neve. Boris e Zhenya si rimproverano a vicenda, urlano, si picchiano: ma il film è gelido, il montaggio lento. Le foto segnaletiche di Alexey, appese dai volontari in giro per il quartiere, cominciano a scolorirsi.
Non sapremo cosa sia successo al bambino. Di lui, semplicemente, non si parlerà più. Senza spiegazioni la telecamera passerà a mostrarci Boris con la nuova famiglia – infastidito dal secondo figlio come lo era stato dal primo – e Zhenya che corre diligente sul tapis roulant nell’opulenta casa del suo amante. Porta una felpa su cui è scritto “Russia”.