“A nche se non lo vuole, questa città imparerà a conoscere i riti segreti di Bacco”, dice Dioniso nel prologo delle Baccanti di Euripide. È la tragedia in cui l’ordine della città è messo in discussione dall’arrivo del dio che scioglie ogni vincolo e abolisce ogni confine. Mettere in scena l’unica tragedia greca in cui compare Dioniso, dio della tragedia, fin dall’inizio ha comportato una messa in gioco del teatro. Come rappresentare la vitalità dirompente che stravolge ogni classificazione e gerarchia? La manifestazione più concreta dell’energia dionisiaca è il furore bacchico, che nella tragedia è narrato ma non esibito. La sua violenza, che culmina nella caccia a mani nude agli animali, poi fatti a pezzi e mangiati crudi, resta fuori dallo spazio del teatro. Le donne tebane salgono sul monte Citerone, fuori dalla città, concretizzando con questo esodo una differenza che sfugge alla norma dominante.
Lo stesso Euripide, nel testo che sarebbe stato messo in scena postumo intorno al 405 a.C., affrontò il problema di rappresentare il dionisismo: l’ebbrezza del dio è quella del vino che porta oblio e sonno, conforto popolare che accomunava i cittadini e rappresentava un valore tradizionale – canta il coro: “ciò che la gente semplice considera sua norma” – opposto all’individualismo elitario che si diffondeva nella polis ateniese. Ma l’ebbrezza era anche quella sconcertante delle baccanti col loro spargimento di sangue. La follia apparteneva al rito celebrato da queste ultime, quindi parte integrante di una religiosità istituzionalizzata e dotata di un valore positivo. Ancora il coro: “beato chi conosce i misteri degli dèi e […] risolve il suo io sui monti, ormai baccante, per sacre purificazioni”. Ma follia dionisiaca è anche quella che colpisce i personaggi che non riconoscono la divinità del giovane straniero, come fa Penteo che gli dà del “ciarlatano che fa incantesimi e sortilegi” e minaccia di decapitarlo. Il dio che scioglie e distrugge, “dolcissimo e terribile”, ha un’ambivalenza che è difficile elaborare e non è mai senz’altro rassicurante: le Baccanti non si concludono infatti con un trionfo risolutivo della giustizia divina che cancella ogni inquietudine morale, ma con la pietà per la sorte che colpisce il re Penteo e sua madre Agaue, puniti per l’empia accoglienza data a Dioniso. Queste ambivalenze si ripresentano ogni volta che si prova a ridar vita all’epifania tragica del dio che danza.
Di volta in volta, nella storia del teatro, Dioniso ha presentato sul palco l’alterità – etica e prima di tutto corporea – che pretende e ottiene un inevitabile riconoscimento perché scuote la stessa identità di chi la vuole rifiutare, e cioè il potente, il colonizzatore – nella rielaborazione di Wole Soyinka del 1973 – ma più radicalmente: l’io che si crede padrone della vita. Così il re Penteo, che disconosce Dioniso e lo fa incarcerare, dovrà vedere sfaldarsi il potere delle sue catene, della sua autorità sull’ordine civile, e infine, mosso dal desiderio di vedere le baccanti nella loro promiscuità con gli animali selvaggi, sarà ucciso da sua madre che, colpita dalla follia bacchica, lo sottopone allo stesso procedimento di disconoscimento, vedendolo come una bestia selvatica, e per contrappasso lo decapita: Penteo muore per mano di chi gli ha dato la vita.
La caduta delle barriere si estende alle gerarchie sociali: i servitori si uniscono ai padroni in un ballo orgiastico guidato da Dioniso.
La tragedia di Euripide cercava di fare i conti con un’epi-demia, cioè “l’arrivo nel paese” del dio della generazione e della distruzione, del dio che spezza e attraversa le forme imposte dallo sguardo umano, così come fa la vita nella sua dimensione biologica (in greco: zoé) e non biografica (bios). L’assegnazione di uno spazio rituale al dio straniero nel pantheon ateniese era un compromesso che non poteva esaurirne l’impulso a rompere ogni argine e dicotomia. A maggior ragione, in un mondo che ha dimenticato il nome di Dioniso quell’impulso si ripresenta sotto forme nuove e inattese, come le epidemie di ossessi nel medioevo, che Nietzsche nella Nascita della tragedia assimilava ai cortei dionisiaci, e il tarantismo mediterraneo, le cui origini pagane erano sottolineate da Ernesto de Martino ne La terra del rimorso. Gli spettacoli raccolgono un frammento di questa energia che scorre tra diverse civiltà, rituali privi di istituzione religiosa, rivolti a spettatrici e spettatori che conservano gli stessi bisogni e le stesse fragilità.
Nel The Bacchae di Eleni Papakonstantinou, Dioniso-zoé è un meteorite che arriva dallo spazio per distruggere la Terra. La sua natura biologica si annuncia con un mito sulla vita cellulare in quanto vita originariamente asessuata, che successivamente comincia a riprodursi per mitosi e poi assume forme animali, incapaci di contenerne in modo perfetto l’unico slancio erotico. Questo Dioniso, pertanto, arriva a distrugge i ruoli e i costumi che impediscono di realizzare i desideri, che oggi non sono più soltanto quelli delle donne costrette ai doveri domestici e dei poveri bisognosi di oblio e riscatto, ma investono una ricerca erotica e personale più diffusa. Questo aggiornamento corrisponde a un lavoro sul testo. In Euripide, il desiderio di Penteo di osservare le baccanti in azione portava il re, spinto da Dioniso, a travestirsi da donna per mimetismo e appostarsi su un albero. Papakonstantinou sviluppa questo episodio leggendolo non come un tranello del Dio che condanna il miscredente all’esperienza di una transizione di cui egli nega la possibilità, ma come una liberazione: Penteo travestito scopre in sé e sprigiona un’energia erotica che non conosceva, che lo porta a un amplesso con lo stesso dio. La caduta delle barriere si estende alle gerarchie sociali: i servitori si uniscono ai padroni in un ballo orgiastico guidato da Dioniso, di cui torna in mente il nome latino: Liber. In questa versione della tragedia non muoiono i protagonisti, ma le loro identità rigide e controllate.
Allo stesso modo Agaue non ucciderà il figlio, ma si unirà con lui in una festa orgiastica che nelle Baccanti originarie manca. E la sua maternità esibita si trasmetterà anche al dio, che esibisce una gravidanza. Questa etica e estetica “queer”, di cui parla anche Papakonstantinou, non si limita però alla festosa e sfrenata esposizione di una sessualità prima repressa o esclusiva di determinate categorie. Implica anche una commistione di forme musicali, dall’opera lirica al pop, e forme figurative, dalla videoarte alla danza. Le apatiche conversazioni della scena iniziale, che si svolgono intorno a un tavolo imbandito, gelida versione di un focolare domestico, lasciano spazio a una scena mobile, decentrata, agitata da luci stroboscopiche, suoni aspri e ritmi forsennati, dove la parola diventa canto, il corpo e la sua voce prendono il sopravvento. Lo spettacolo diventa simile a un rito, dove la struttura tragica ritorna alle proprie origini precedenti alla messa in scena teatrale: le processioni bacchiche.
“Tu non sai che vita vivi, né cosa tu faccia, né chi tu sia”, dice Dioniso a Penteo nelle Baccanti euripidee. È il monito di un dio al mortale, ma è anche – siamo nell’Atene di Socrate – un invito alla conoscenza, che non si raggiunge però con la dialettica, bensì con la follia rituale, la danza sfrenata. Questo tipo di esperienza non era solo greca. Ancora Dioniso: “Fuori dalla Grecia, tutti danzano, e celebrano questi riti”. Di spettacoli-rito se ne sono visti diversi e di diverse matrici al Romaeuropa Festival 2023, con una scelta che legge con attenzione un bisogno di rigenerazione culturale sempre più diffuso anche al di fuori dei teatri. Angela (a strange loop) di Susanne Kennedy, costruito come un processo alchemico di trasformazione, in cui la protagonista attraversa un itinerario di malattia, sparizione e rinascita simbolica, mentre chi osserva percepisce un collasso della distinzione tra reale e virtuale. Between Ashes and Roses di Lemi Pontifasio, che riporta in scena le cerimonie dei suoi antenati samoani per promuovere una diversa visione cosmica.
E ancora, RE:incarnation di Qudus Onikeku, dove la mitologia yoruba ispira una performance che unisce i riti di possessione al festoso afrobeat della Lagos di oggi, seguendo un percorso che di nuovo passa per la morte e la rigenerazione spirituale, accompagnato da percussioni che agitano i corpi umani trasformati in ibridi da corna, maschere, snodi cinetici stranianti. Nelle grida gioiose risuonava l’arrivo di Bromio, “il rumoroso”. In tutti questi spettacoli, la componente logica, verbale, era assente o subordinata (un altro esempio straordinario di questa ricerca, a Roma, è stata l’esibizione della performer Lorena Stadelmann a Short Theatre, un “rito sciamanico” costruito intorno alla voce e alle maschere) – come se il teatro tornasse verso origini rituali e prima ancora semplicemente animali, in cui le peripezie del corpo non sono articolate in un testo e perciò assumono una diversa e vigorosa sensatezza.
Dentro il testo delle Baccanti, questo rimando dallo spettacolo al rito coincide con la presenza delle donne tebane che danno il titolo alla tragedia, trasformate dalla follia dionisiaca: le baccanti non compaiono in scena, benché protagoniste, ma restano invisibili, lontane, a svolgere le loro azioni rituali di cui veniamo a sapere indirettamente. Come lavorare per riportare in vita quelle figure? Diverse opzioni, dall’approfondimento del testo alla sua abolizione, sono state esplorate nei mesi scorsi in una vera e propria epidemia di messe in scena che ha attraversato l’Europa del 2023.
Un invito alla conoscenza che non si raggiunge però con la dialettica, bensì con la follia rituale, la danza sfrenata.
Una prima opzione consiste nel lavoro sul testo. A Mühlheim an der Ruhr, un intero festival dedicato all’ebbrezza, Rausch, si apre con le Bakchen di Philipp Preuss. Il conflitto tra il potere e l’insidia costituita dalle baccanti è introdotto da un Dioniso nudo, cornuto, che avanza al ritmo leggero di una musica dance. La regia è grandguignolesca, tra balletti comici, gelide prese di coscienza e la catastrofe finale esibita da un intreccio di corpi nudi, bagnati di latte e sangue. Ma prima della conclusione c’è un intermezzo: la scena è coperta da uno schermo dove compaiono i volti dei presenti inquadrati da una telecamera che si muove sul palco. È così evocato il Panopticon, il meccanismo di osservazione pervasiva che Michel Foucault discusse in Sorvegliare e punire, il suo testo sull’origine del carcere e dell’“ortopedia sociale”. Un personaggio viene avanti e si rivolge al pubblico, tiene un discorso sul senso dello spettacolo a cui stiamo assistendo. Scorrono le parole di Foucault, il filosofo che ha teorizzato il dominio come forma di controllo interiorizzata, e la libertà come esercizio di potere contro ogni condizionamento e “costruzione del sé”.
Un lavoro più rigoroso sul testo originale di Euripide è alla base delle Baccanti di Archiviozeta. Lo scenario è la Villa Aldini di Bologna. Nei pressi di un centro per richiedenti asilo si manifesta il dio che, come racconta il coro euripideo, viene dall’Asia. Questo nesso produce subito una fusione: la prima apparizione di Dioniso è una figura a dieci braccia e cinque teste, maschili e femminili. Balena per un attimo la remota parentela tra Dioniso e il dio che danza indiano, Shiva. Il riferimento puntuale si evince da una rilevante modifica del testo: “Io vengo da Lahore”, dice il dio, nominando la città oggi pakistana dove si fermò l’impresa di conquista di Alessandro Magno, che andava sulle tracce del dio straniero e credette di trovarne gli adoratori in India. Il mito dell’origine indiana di Dioniso era già in Euripide, dove il coro celebra le “Baccanti dell’Asia”. L’incontro tra Europa e India – dove “India” è sinonimo di un molteplice altrove geografico-culturale, come mostra la storia degli ultimi secoli – in questo nuovo prologo recitato dal dio passa per l’Anatolia, la Persia, per città dove “barbari e greci convivono”.
Ammoniti su questa apertura degli spazi, gli spettatori si spostano di fronte alla facciata neoclassica della villa. Cadmo e Tiresia, divenuti baccanti, danzano ai margini della struttura, sul prato. Un Penteo-donna si affaccia e li contempla sprezzante. “Nella follia e nel furore bacchico c’è grande forza profetica”, la avverte Cadmo. “Quando il dio entra nel corpo fa predire il futuro al posseduto”. Ecco un’altra delle forme di mania riconosciute dai greci, di cui parlava Platone: poetica, erotica, divinatoria e rituale. Ed ecco il riferimento alla possessione, in cui i moderni hanno riconosciuto in altri tempi e paesi la realizzazione di quei quattro entusiasmi.
Penteo scende dal tempio per fronteggiare lo straniero. Dioniso è incarnato da due attori, uomo e donna, che girano intorno al re come a incantarlo. Questa molteplicità esprime un tratto fondamentale della figura di Dioniso, che riguarda proprio la possessione. La rappresentazione del dio come individuo antropomorfo non deve trarre in inganno, poiché è soltanto uno dei modi umani di vederlo. Penteo, approssimandosi alla morte, lo vedrà come toro. Ma Dioniso è anche vino, pulsazione del cuore, scatto muscolare, è insomma un’energia multiforme che si manifesta nel corpo e precede la coscienza di sé. Dioniso è il dio che viene da fuori, entra in un individuo come un elemento estraneo, raggira l’io; eppure, si deve dire, è il mio corpo quello che agisce (Agaue dovrà accettare di avere ucciso il figlio, credendolo preda).
Questa compresenza di identità e alterità è essenziale all’esperienza indotta da Dioniso, e caratterizza fin dall’inizio il dio in quanto greco che è creduto barbaro, umano che è anche animale. Nietzsche, dopo aver celebrato il “dilagare al di fuori dell’io” del dionisiaco, si convinse che l’Io è “una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta, come ego”. Come il corpo umano è fatto di tanti individui, le cellule, così la psiche è molteplice, la sua unità è solo un’istituzione: è “un’organizzazione sociale di molte anime”. Alla luce di questi sviluppi, dare un corpo a Dioniso appare niente più che un espediente riduttivo, una necessaria strutturazione di un fenomeno che sfugge al principio di individuazione.
Il finale della tragedia, dopo la liberazione di Dioniso, si svolge nella vegetazione della Villa. Gli spettatori sono portati lontani dalla scena, si avvicinano al luogo della morte di Penteo. Le baccanti si sono dileguate, il dio osserva la scena da lontano. Restano Agaue e Tiresia, sconvolti dall’epifania, mentre lo sguardo ordinario si ricompone.
L’ambivalenza del dio “dolcissimo e terribile” e delle sue menadi è ancora evidentissima dopo migliaia di anni di storia.
Un altro metodo per affrontare le Baccanti si trova agli antipodi del lavoro sul testo, con la sua regola di non presentare agli occhi le baccanti e la moltiplicazione fisica della figura di Dioniso. Si tratta stavolta di annullare la molteplicità fisica dei personaggi e ridurre il testo a un monologo, rendendo tutti i personaggi insieme assenti e presenti. Così fece Ronconi nelle sue Baccanti del 1978. Nel 2023, Bromio di Anagoor – opera di ricerca collettiva guidata da Simone Derai e Marta Ciappina – realizza una scelta più radicale: le parole del testo di Euripide non sono più proferite, la vicenda silenziosa del corpo prende il sopravvento. E finalmente vediamo le baccanti.
Lo scenario è di nuovo la città di Mühlheim an der Ruhr, dove un corteo dionisiaco procede sull’asfalto fino a un palazzo disabitato, dalle cui finestre cave proviene una musica. Potrebbe trattarsi di una di quelle epidemie di ossessi che avvennero nella Germania medievale, che ricordava Nietzsche. Ma potremmo essere in qualsiasi città del mondo industriale. Gli spettatori si accodano, attraversano la strada fermando le automobili, senza sapere cosa li attende. Si sale nel palazzo. Singolare coincidenza: anche qui – come a Bologna – c’erano immigrati e profughi di varia origine, dapprima della Germania Est poi soprattutto dai Balcani. Prima ancora c’era un centro di imballaggio di un’industria alimentare.
Nello scenario di queste vicende in cui si legge la storia dell’Occidente capitalista, lo spazio adesso è spoglio. Ci sono solo baccanti in piedi, immobili. Cercano qualcosa con lo sguardo perso nel vuoto, e a un certo punto cominciano a fissarti negli occhi: l’esperienza straniante dell’incontro visivo con qualcuno che sembra essere altrove, e al tempo stesso presente con un’intensità anomala. I danzatori, nelle prove, hanno danzato assoli su delle musiche dotate di un significato personale per ciascuno di loro. L’obiettivo era evocare e sciogliere col movimento emozioni e slanci depositati nella storia del corpo. Questi reperti mnestici divenuti conato e coreografia personale, sono stati traslati nella musica composta da Mauro Martinuz. Mentre i bassi fanno vibrare il pavimento, inizia la trance poetica, la danza, un crescendo forsennato in cui ogni performer è isolato e insieme collegato agli altri in una medesima esperienza psichedelica.
In Bromio, a dispetto della mancanza del testo originale, c’è una profonda fedeltà ad esso. Come le donne di Tebe, i danzatori – come ciascuno di noi – sono stati sconvolti e definiti da qualche evento remoto che è definitivamente associato alla loro vita fino alla morte. Con l’emergenza di questo vissuto, sulla pelle arrossata e sudata, nelle braccia rotanti, negli occhi sbarrati, o socchiusi in mobile meditazione, si sprigionano gioia e sgomento, fino al parossismo. Dopo il climax, mentre i corpi rallentano, vengono lette delle frasi, dei precetti rivolti al tu che sta tornando a prendere il controllo: “parla della morte”, evita ogni eufemismo, parlane con i bambini. Dioniso, lo ricordiamo, era celebrato per il vino, un alimento vegetale che al contrario del grano porta l’oblio, dunque non alimenta ma toglie, sottrae, anticipando la caducità dell’individuo. Eppure infine si rivela: “ogni sentimento è bene”. Si esce scossi, ma sollevati: poiché osservare finalmente un riflesso di quei riti di cui fin dall’antichità abbiamo saputo solo indirettamente, svela la possibilità che più volte si è realizzata e si realizza: Dioniso è “la vita indistruttibile” (così anche il sottotitolo di Bromio), ritorna in altre forme, distrugge quelle vecchie che credevamo nostra legge o destino, e questa epifania può spezzare la rigidità del nostro io, le forme ripetitive, ridarci vita nuova.
L’ambivalenza del dio “dolcissimo e terribile” e delle sue menadi è ancora evidentissima dopo migliaia di anni di storia, l’eruzione di un magma che non smette di aprire nuove bocche sulla crosta dell’esistenza. Un libro recente di Adriana Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo, indica un ulteriore aspetto delle Baccanti, indagando più a fondo quella scena che non ci è stata mostrata: le donne in stato di furore, che nella loro “effervescenza nutritiva non distinguono fra umano e animale”, dando luogo a una “festa naturale dell’alimento gratuito, ridondante e inebriante”. Questa immagine di ipermaternità, di nuovo, produce un senso disorientante e controverso. L’assimilazione della donna a animale irrazionale sembra una versione rovesciata dello sguardo degradante che riduceva le tebane ai lavori domestici, ponendole sotto una gerarchia naturale retta dalla norma maschile. D’altra parte, osserva Cavarero, “la vicinanza all’animalità, al mondo generale del vivente, alla zoe in questa esperienza” – che è “esclusivamente femminile” – “può assumere tuttavia un significato positivo, conoscitivo, ontologicamente partecipativo, la cui portata supera di gran lunga la negatività del canone misogino”.
Nella prossimità nutritiva agli altri animali si esprime una verità che originariamente si manifesta nell’esperienza del parto, origine di ciascuno. L’individuo è carne di un altro, secondo un processo che si ritrova in ogni specie e che le baccanti incarnano in forma iperbolica e frenetica: “corpo che nutre corpo, vita che alimenta vita, vivente che sfama vivente”. Così il parto e la nutrizione appaiono, nella donna, come principi di una “zoo-ontologia” in cui ci si riconosce esseri viventi omogenei agli altri. Questa verità, che oggi l’etnologia cerca di riscoprire mettendosi in ascolto di popolazioni lontane come quelle amazzoniche, si apprende già nell’evento intimo in cui ciascuno è nato e l’identità era ancora fusa a quella di un’altra. Così le Baccanti incarnano la forma più radicale di alterità del dio rispetto all’umano, che precede tutte le peripezie dell’anima: l’essere animali, appartenere a “una zoé che tende a abbracciare tutti i viventi”.