“S ollecitiamo la comunità internazionale, gli organismi governativi, i gruppi per i diritti umani e i media a sostenere i profughi Rohingya, perseguendo i responsabili della violenza che ha prodotto questa catastrofe”. Inaugurato dal poeta siriano Adonis, si è chiuso il 18 novembre con un inedito comunicato sull’attualità politica il più importante evento letterario del Bangladesh, il Dhaka Lit Fest. “Un vero e vero proprio festival delle idee”, spiega a il Tascabile uno dei tre direttori, Kazi Anis Ahmed, scrittore e fondatore dell’Università delle arti liberali del Bangladesh. Elegante e sorridente, ci aspetta alla Bangla Academy, nell’area universitaria in mezzo al traffico cittadino. Siamo nel cuore della capitale, una megalopoli da diciotto milioni di abitanti che vanta la più alta densità abitativa al mondo. La Bangla Academy, sede del festival, è un’oasi di tranquillità.
Dall’alto delle finestre della sala stampa si vedono la Bardhaman House, simbolo della tradizione letteraria bangladese, con l’adiacente gazebo dove il reporter della BBC Justin Rowlatt e il ricercatore Azeem Ibrahim, autore di The Rohingyas: Inside Myanmar’s Hidden Genocide, stanno discutendo sul dramma della minoranza musulmana perseguitata dai militari birmani; sulla destra, il laghetto sovrastato dall’auditorium per le sessioni plenarie, dove l’attrice e regista Tilda Swinton ha finito di presentare il suo tributo cinematografico in quattro video-ritratti al critico John Berger. Più avanti, lo spazio ristoro, affollato da famiglie della classe medio-alta e da studenti universitari. Cuffiette alle orecchie, jeans e sandali di cuoio all’ultima moda, fanno la fila alla Holey Artisan Bakery, filiale della caffetteria dove il primo luglio 2016 un gruppo di jihadisti ha compiuto un attentato che ha provocato 29 morti. Per molti, un sintomo della crescente influenza del salafismo-jihadista in un Paese in cui anche la politica istituzionale è spesso violenta.
Sulla sinistra, al di là della strada, c’è il parco Suhrawardy Udyan. Il più importante del Bangladesh: è qui che papa Francesco il primo dicembre ha celebrato messa di fronte a diecimila fedeli. Ed è qui che il 7 marzo 1971 il padre della patria – Bangabandhu – Sheikh Mujibur Rahman (per tutti Mujib) ha tenuto un discorso divenuto celebre, invocando e “proclamando” di fronte a una folla oceanica l’indipendenza dal Pakistan, ottenuta formalmente mesi dopo al costo di una guerra sanguinosa. Quando arriviamo al Dhaka Lit Fest il parco è gremito di gente. Bandiere, cappellini, striscioni, fischietti, canti e slogan. Si celebra l’inclusione del discorso di Bangabandhu nel “Registro mondiale della memoria internazionale” dell’Unesco. Una vittoria incassata da Sheikh Hasina, sua figlia, attuale primo ministro e leader indiscussa dell’Awami League, il partito di governo osteggiato dal Bangladesh Nationalist Party.
L’autobiografia incompleta del padre della patria è diventata un fumetto a puntate. In inglese. Di fronte al tavolo per le firme dei libri c’è un punto vendita con una sagoma del protagonista, molto pop. Disegni semplici, colori vivaci, la serie è stata presentata dall’editore Radwan Mujib Siddiq, dal disegnatore Syed Rashed Iman Tamnoy e dall’editor online della rivista statunitense Granta, Luke Neima. Un’operazione nata per avvicinare i più giovani alla storia dell’uomo la cui foto campeggia su tutti i muri, in tutti gli uffici, in ogni angolo del Paese. E il cui nome, qui, coincide con un evento il cui ricordo è ancora vivo: la lotta per l’indipendenza.
La storia dell’indipendenza del Bangladesh passa per il riconoscimento della lingua bengalese. Nel 1947, quando gli inglesi tirano i remi in barca dopo un lungo regime coloniale, con la partizione dell’India nascono il Pakistan occidentale e quello orientale. Diviso territorialmente dalla casa-madre, il Pakistan orientale è amministrato da lontano. Troppo lontano. Crescono le incomprensioni e gli attriti. A Dacca, già nel 1948 viene dato vita al “movimento per la lingua”. I suoi esponenti chiedono che oltre all’urdu venga riconosciuto come lingua nazionale il bengalese. Seguono anni di scontri accesi e negoziati estenuanti. La richiesta passa solo nel 1956. Il Bangladesh indipendente del 1971, la nazione del bengalese, è figlio di quella lotta, raccontata per esempio in A Photographic History of Language Movement (1947-1956), di Tarek Reza.
I bangladesi tengono alla propria lingua, sedimento di storia e politica. E continuano a coltivarla con cura, anche in ambito letterario. A dispetto della disattenzione dell’occidente.
Il bengalese è una lingua molto diffusa, la quarta più parlata al mondo. Ma è geograficamente circoscritta al subcontinente indiano. Questo l’ha confinata culturalmente. All’estero non c’è sufficiente consapevolezza della ricchezza culturale e letteraria di cui siamo eredi. Con il nostro Festival intendiamo rivendicarla. Ma senza sciovinismi, sia chiaro: siamo per la diversità che si fa valore, per un cosmopolitismo radicato
ci spiega Kazi Anis Ahmed di fronte a una tazza di tè. Da qui, la decisione del bilinguismo, inglese e bengalese, come tratto distintivo del Festival. E la presenza di molti autori stranieri. “Nella prima edizione, sette anni fa, hanno partecipato soltanto 4 autori stranieri, inglesi. Poi grazie al sostegno degli sponsor abbiamo potuto essere più ambiziosi”.
Tra gli stand si aggirano, tra gli altri, il poeta e romanziere nigeriano Ben Okri, l’autore de La via della fame; l’inglese Lawrence Osborne, scrittore di viaggio appassionato di Asia, dove è ambientato anche il suo ultimo romanzo tradotto in italiano, Cacciatori nel buio (Adelphi 2017); William Dalrymple, l’autore scozzese – residente da anni a Delhi – che meglio di altri ha saputo combinare rigore analitico e stile narrativo per ricostruire la storia e il presente dell’area dell’ex Raj britannico. A partire dai loro libri, qui a Dacca ragionano su quale sia lo sguardo giusto per raccontare società diverse senza cedere al romanticismo o al colonialismo culturale.
Quella di interrogarsi su incomprensioni e contaminazioni culturali è una scelta che il pubblico apprezza: “la presenza degli stranieri è fondamentale”, ci racconta Jannati, giovane imprenditrice con alle spalle studi di Letteratura, affezionata frequentatrice del Festival dalla prima edizione. “In Bangladesh i più tradizionalisti temono le influenze esterne, ma si tratta di una minoranza. Io sono a favore della conoscenza reciproca. All’università ci fanno studiare Shakespeare. Non c’è ragione per cui non dovremmo conoscere gli autori contemporanei europei. Vengo qui proprio perché si può discutere di tutto”.
Perfino del rapporto tra religione e secolarismo, nervo scoperto della discussione pubblica e dell’agone politico, già a partire dalla Costituzione del 1972. Il testo di allora annoverava la laicità tra i 4 pilastri costitutivi della nuova nazione, ma è stato rivisto pochi anni dopo per precisare che l’Islam è religione di Stato. “La battaglia per il secolarismo è ancora in corso, ed è una battaglia cruciale”, puntualizza Kazi Anis Ahmed. “Ma l’interrogativo sul rapporto tra politica e religione, tra assolutismo e democrazia investe tante nazioni, ogni fede, non solo il Bangladesh”.
La letteratura come antidoto al fondamentalismo, è la formula del direttore del Dhaka Lit Fest. Come lui, la pensano molti altri. “Meno social e più libri”, consiglia per esempio un’avvocatessa fresca di laurea: “I miei coetanei perdono tempo sui social. Dovrebbero leggere di più. La lettura crea tolleranza, produce empatia con chi è diverso, offre prospettive nuove con cui guardare il mondo. Noi forniamo un piccolo contribuito”, prosegue l’avvocatessa Mehvish, che due mesi fa ha inaugurato Bookcentric, la prima biblioteca online del Paese. “A Dacca ci sono poche biblioteche, e i libri in inglese non si trovano. Noi mettiamo a disposizione per il prestito, a prezzi accessibili, un catalogo di più di mille volumi. Abbiamo cominciato con una pagina Facebook, ma a gennaio speriamo di lanciare il sito Internet”, aggiunge Tasneem, socia di Mehvish e aspirante scrittrice. Sono loro due a occuparsi personalmente della consegna dei libri. Per il 21 febbraio, giorno della lingua-madre, prevedono di lanciare un catalogo in lingua bengalese, “perché a volte è difficile trovare perfino i romanzi dei nostri migliori autori”.
Di buoni autori bangladesi ce ne sono tanti, sostiene Kazi Anis Ahmed. Nel 2004 ha fondato il Bengal Lights Literary Journal. Cinque numeri all’anno stampati, molti testi online e una casa editrice con l’obiettivo di proporre il meglio della letteratura e della saggistica, “sul modello della rivista Granta” (di cui qui al Dhaka Lit Fest è stato presentato il numero su Best of Young American Novelists). Kazi Anis Ahmed ricostruisce per noi le principali tendenze della letteratura bengalese. “La maggior parte degli scrittori del secolo scorso sono stati scrittori d’avanguardia, hanno creduto fortemente nel secolarismo, nelle idee liberali a cui oggi crediamo noi, dando vita a una tradizione progressista”. Con Rabindramath Tagore, premio Nobel per la letteratura nel 1913, autore capace di “tenere insieme esoterismo, spiritualità orientale e romanticismo occidentale”, avviene il vero e proprio “ingresso nella modernità letteraria”. Grazie a un’opera talmente ricca da produrre interpretazioni contrastanti. E due tendenze principali.
Dagli anni Settanta agli anni Novanta ha dominato il realismo socialista, per così dire, con opere che provano a descrivere i cambiamenti della società. E con risultati in alcuni casi buoni, come per Akhteruzzaman Elias, morto alla fine degli anni Novanta, e con Hasan Azizul Haque, ancora attivo.
Dagli anni Novanta, “abbiamo avuto anche qui una letteratura più intimista e una svolta postmoderna, abbandonata negli anni scorsi in favore di un nuovo realismo, meno politicizzato di quello tradizionale, più vero, più vivace. Oggi ci sono tanti bravi scrittori, pienamente consapevoli della storia particolare da cui provengono e più in generale del mondo in cui vivono”, conclude il direttore del Dhaka Lit Fest.
Autori le cui opere formano “una voce distintamente sud-asiatica”. È così che la definisce Ritu Menon, scrittrice ed editrice, volto noto del femminismo indiano, di cui ha ricostruito vicende politiche ed espressioni poetiche in tanti libri. È a capo della giuria della settima edizione del DSC, il Premio per la letteratura dell’Asia meridionale con cui si chiude il Dhaka Lit Fest. Introducendo la premiazione, la battagliera fondatrice della prima casa editrice femminista indiana parla di una letteratura che “ha enormi potenzialità” e che ha saputo costruire “una solidarietà letteraria capace di attraversare le frontiere nazionali che ci hanno diviso. Perché gli scrittori veri non rispettano i confini territoriali”.
Lo dimostrano i cinque finalisti del premio, rappresentanti di quell’ibridismo che ha conquistato anche i lettori occidentali. Tra loro c’è Aravind Adiga con il suo Selection Day (Einaudi 2017), storia di due fratelli giocatori di cricket, già tradotto in italiano come i precedenti La tigre bianca e L’ultimo uomo nella torre. C’è l’indiano-americano Karan Mahajan con Stella bianca, acciaio rovente (Garzanti 2017), un racconto di finzione basato su una storia vera: un attentato terroristico nel 1996 nel mercato Lajpat Nagar di Delhi “e il riverbero che produce sugli autori e sulle vittime”, spiega alla platea l’autore (di cui Garzanti ha già tradotto La moglie sbagliata). E c’è Anuk Arudpragasam, il vincitore.
Si è aggiudicato il premio con The Story of a Brief Marriage (Granta), un romanzo ambientato durante gli ultimi giorni della sanguinosa guerra civile nello Sri Lanka, nel corso di quello che Arudpragasam – di origini tamil – definisce come “un tentato genocidio”. Pantaloni corti sulle caviglie, camicia e gilet, ritira il premio con imbarazzo: “non è giusto gioire per un romanzo costruito su sofferenze vere”. Riconosce il privilegio di cui gode. “Scrivo in inglese, vivo all’estero, ho opportunità che altri tamil non hanno”. Conclude dedicando il premio “a quanti soffrono le stesse persecuzioni che abbiamo sofferto noi. In particolare, al popolo del Kashmir e a quello Rohingya”.