La storia che non cambia
Un reportage dalla Kiev in guerra in dialogo con il Diario russo di John Steinbeck e Robert Capa.
Un reportage dalla Kiev in guerra in dialogo con il Diario russo di John Steinbeck e Robert Capa.
“K iev deve essere stata un tempo una bellissima città. È molto più antica di Mosca. È la madre delle città russe. […] Ora è semidistrutta. I tedeschi hanno dimostrato ciò che potevano fare. Ogni edificio pubblico, ogni biblioteca, ogni teatro, persino il circo stabile sono stati distrutti, non dai colpi delle armi da fuoco, non durante una battaglia, ma col fuoco e con la dinamite. L’università è crollata tra le fiamme, le scuole sono in rovina. Non era la guerra, era la selvaggia distruzione di ogni edificio di cultura della città, e di quasi tutti gli splendidi palazzi costruiti nel corso di un millennio”.
John Steinbeck introduceva con queste parole la città di Kiev in Diario russo (1947): parole cariche di rancore verso i nazisti invasori e di ammirazione per la cultura e la storia ucraina. Il premio Nobel americano era partito per attraversare e raccontare l’Unione Sovietica in uscita dalla seconda guerra mondiale; per il viaggio la sua penna era accompagnata dalle immagini di Robert Capa – l’esperto fotoreporter dell’agenzia Magnum.
I due riuscirono a “dare un volto al nemico” dell’America, l’URSS, che fino a poco prima era stato un importantissimo alleato. Dopo 75 anni, si ritorna a una distruzione simile a quella che si lasciarono dietro i nazisti, ma oggi ad essere capace di creare questo scempio, di radere al suolo intere città, sono proprio i russi, che rivendicano parte del territorio ucraino.
Nel 1947 Steinbeck e Capa stavano viaggiando tra i principali centri di quello che si stava configurando come il grande nemico statunitense.
Marinka, Bakhmut, Trostyanets, Mariupol, Chasiv Yar sono i nomi di alcune delle città ucraine vittime della furia russa. Oggi sono cumuli di macerie abitati da fantasmi, o da quei pochi che hanno deciso di restare, e, come a Bakhmut, sopravvivono sotto terra perché in superficie cadono bombe e missili per tutto il giorno. Siamo a quasi due anni di guerra, e la fine non sembra vicina.
Nel 1947 Steinbeck e Capa stavano viaggiando tra i principali centri di quello che si stava configurando come il grande nemico statunitense. Le pagine del diario e le fotografie che raccontano la vita a Mosca, Kiev, Stalingrado e nella Georgia costituiscono l’affresco di una popolazione estremamente diversa da quella statunitense, ma eterogenea anche al suo interno. Russi, ucraini e georgiani, pur vivendo tra i confini dell’imponente Unione Sovietica, conservavano tradizioni e linguaggi differenti. “Anche se la maggior parte degli ucraini parla e legge il russo” precisava Steinbeck, “la loro lingua è molto diversa, più simile alle lingue degli slavi del Sud che a quella russa. Molte parole ucraine, in particolare nelle campagne, sono uguali a quelle ungheresi e molte sono più simili al ceco che al russo.”
Oggi come allora è il carattere delle persone a colpire chi li guarda da fuori. Con una differenza: allora la guerra era finita, oggi no.
È durante un mio viaggio di lavoro in Ucraina che le storie di ieri e di oggi si avvicinano e trovano spazio in questo racconto. Mi sono tornate in mente le pagine di quel Diario, le descrizioni dei volti e dei modi di fare ucraini, le fotografie di Capa e le storie dei protagonisti. Non è difficile scorgere nell’Ucraina odierna una narrazione che già si era manifestata nel passato. La Kiev che si riprendeva dall’invasione nazista, lo spirito nazionalista, l’ottimismo, la fede. Oggi gli eventi assumono dei contorni simili e ad esaltarsi è l’animo di un popolo che si ritrova a fare i conti con un nuovo invasore.
“Sebbene Kiev abbia subito più distruzioni di Mosca, i suoi abitanti non hanno l’aspetto abbattuto di quelli della capitale”, scriveva Steinbeck. “La loro andatura è più tranquilla, le loro spalle più dritte e ridono per le strade.” Oggi come allora è il carattere delle persone a colpire chi li guarda da fuori. Con una differenza: allora la guerra era finita, oggi no. Ma i sorrisi e la cordialità, l’ottimismo e la fede sono invariati. Gli ucraini non contemplano la possibilità di una sconfitta, ogni morto è un morto per la libertà, il futuro non può che sorridergli e già immaginano i giorni in cui la Russia dovrà pagare il prezzo dei suoi crimini atroci di fronte a un tribunale internazionale.
Gli ucraini non contemplano la possibilità di una sconfitta, ogni morto è un morto per la libertà.
Un distacco da una realtà ben più complessa che ha creato però un immaginario estremamente solido. Il senso di resistenza ucraina si è formato anche intorno a questa narrazione della realtà, una narrazione che ha accresciuto in maniera esponenziale un già forte senso di appartenenza alla propria terra e alle proprie tradizioni. Questo si è riflettuto nell’esito della guerra, che ha sconvolto più volte i piani del presidente russo Vladimir Putin. Tale unione di intenti ha permesso al presidente Zelenskiy di porsi obiettivi quasi irrealizzabili , almeno agli occhi degli occidentali, come quello di riprendere per intero la Crimea, sotto occupazione russa dal 2014.
Il viaggio
Per entrare nell’Unione Sovietica, Steinbeck e Capa avevano dovuto aspettare il visto, che per il secondo era stato più complicato ottenere. “C’era una certa riluttanza a far entrare un fotografo in Unione Sovietica, mentre nulla si opponeva al fatto che vi entrassi io, e questo ci parve strano, perché la censura può tenere sotto controllo una pellicola fotografica, ma non il cervello di un osservatore” raccontava Steinbeck. “Qui dobbiamo spiegare una cosa che scoprimmo vera per tutta la durata del nostro viaggio. La macchina fotografica è una delle più spaventose armi moderne, soprattutto per chi è stato in guerra, per chi è stato bombardato e cannoneggiato, perché dietro ogni bombardamento c’è sempre una fotografia. Dietro città rase al suolo, dietro paesi e fabbriche ridotti in rovine, ci sono i rilievi aerei, le foto scattate dagli apparecchi ricognitori. E quindi la macchina fotografica è uno strumento che incute terrore, e un uomo con una macchina fotografica è sospetto, viene spiato ovunque si rechi.”
Oggi non cambia granché, se non il fatto che le persone di cui avere paura sono di più. Mentre immortalavo gli spazi della metro/rifugio della capitale sono stato fermato dalla polizia, “devi cancellare tutto”. Se non fosse stato per Yana e Luda, che mi accompagnavano, mi avrebbero sequestrato tutto. Ma è chiaro che aleggi un sospetto verso chiunque non sia ucraino. La paura di essere spiati, qui, non è di chi mette piede nel paese con una macchina fotografica ma degli stessi ucraini. Ogni affermazione, ogni foto, ogni post può essere utilizzato come informazione preziosa per l’intelligence russa. Al fronte, ad esempio, bisogna stare attenti a cosa si fotografa. Non bisogna riprendere l’area attorno alla quale avvengono i combattimenti perché potrebbero fornire informazioni vitali sulle posizioni ucraine. Nella capitale bisogna risparmiare dall’obiettivo tutte quelle strutture considerate strategicamente critiche, ma anche gli edifici pubblici, se non si possiede una precisa autorizzazione. Spesso neanche l’accredito rilasciato dalle Forze Armate Ucraine basta. Qua, per un giornalista italiano infatti, non serve il visto, bensì un accredito, un foglietto digitale: obbligatorio per andare al fronte, consigliato per lavorare nel resto del paese. I tempi per riceverlo sono lunghi e nonostante la mia richiesta fosse avvenuta quasi tre settimane prima della partenza, l’accredito mi sarebbe arrivato solo pochi giorni prima di ritornare in Italia. Non era indispensabile ma mi avrebbe sicuramente aiutato in alcune occasioni.
La resistenza ucraina si è formata intorno a una narrazione che ha accresciuto in maniera esponenziale un già forte senso di appartenenza alla propria terra e alle proprie tradizioni.
Inizia il viaggio. Lo farò in pullman e parto con Luda, che chiamo babuska: è la nonna della mia compagna Kseniya. Starò da lei, che torna in Ucraina dove vive parte della sua famiglia. Capa e Steinbeck avevano affrontato aerei scassati, ritardi e incidenti. Qua gli aerei non ci sono, sopra l’Ucraina è stata indetta la No-Fly Zone a febbraio 2022. 45 ore di pullman che mi separano dall’arrivo e la prima cosa che sento appena salgo sul mezzo è odore di cibo. Steinbeck:
Ciascuno aveva con sé del cibo: pagnotte di pane nero, mele, salsicce, formaggio, lardo affumicato. […] è veramente una buona idea. Con una pagnotta di pane nero nella valigia siete sicuri di non soffrire la fame per due giorni se qualche cosa non va bene durante il viaggio. C’era uno strano odore nell’apparecchio che non riuscii per lungo tempo a identificare, ma alla fine scoprii di che cosa si trattava. Era l’odore del pane nero di segale nell’alito dei passeggeri. Solo dopo averne mangiato un po’ ci si abituava a quell’odore e non lo si sentiva più.
L’odore nel pullman io non riesco a identificarlo, ma tutti si sono portati appresso pranzi e cene. Ci si fida poco degli autogrill e più del cibo fatto in casa. Il tanfo iniziale poi è passato, forse era formaggio.
Non ci sono uomini a bordo. Quelli tra i 18 e i 65 anni non possono lasciare il paese: va da sé che quelli che tornano da fuori non esistono, o sono in pochi. Molte donne tornano dalle proprie famiglie per la Pasqua ortodossa. Alcune vivevano già in Italia, dove lavorano come assistenti familiari, altre hanno lasciato il paese a causa del conflitto. Anche questa non è una novità di questa guerra. Steinbeck lo aveva descritto: “Notammo ancora una volta la mancanza di uomini. Le donne erano molte di più degli uomini e alcuni di quei pochi che lavoravano erano mutilati. Il macchinista, per esempio, aveva una mano senza dita”, spiegava. Fuori dal paese oggi non possono andare, per strada se ne vedono di meno, molti sono al fronte, lungo la linea di contatto tra russi e ucraini. A un mese dall’inizio del conflitto erano in centinaia di migliaia i nuovi arruolati in seguito all’invasione. La storia che non cambia.
Guerra e distruzione
Tra Cherkasy, Kiev, Irpin e Bucha, l’impronta della guerra è profondamente differente. Nella città del centro Ucraina si assiste all’incombenza del conflitto. È nelle sirene che ti svegliano di notte, tra i cavalli di frisia di fronte ai palazzi amministrativi, nell’assuefazione alla paura delle persone, dai feriti negli ospedali. Nella capitale e nelle piccole città adiacenti, invece, la guerra si vede anche nei palazzi distrutti e dalle strade bucate.
Può sembrare strano, ma quello che si vede si può descrivere con le parole dell’autore americano di 75 anni prima, con una differenza: Steinbeck, che pure sottolinea la dissomiglianza tra ucraini e russi, spesso parla di “popolo russo”, sottintendendo anche la gente ucraina. Un errore che oggi non è più possibile fare. “La guerra”, scriveva “non è una cosa nuova per Kiev. A partire dalle invasioni dei selvaggi tatari, la città è stata luogo di guerra per migliaia di anni. Ma nessuna tribù selvaggia, nessun invasore è stato più stupidamente e calcolatamente spietato dei tedeschi.” Oggi molti ucraini non troverebbero difficoltà a sostituire “tedeschi” con “russi”.
Dalla violenza selvaggia dei nazisti si arriva a quella dell’esercito russo. Il ragazzo che ci accompagna a Irpin e Bucha, piccole città da qualche migliaio di abitanti a pochi chilometri da Kiev e divenute presto campi di battaglia occupati dai russi per arrivare nella capitale, mi racconta di quei giorni. Alcuni conoscenti sono riusciti ad allontanarsi dalla città in tempo, con la consapevolezza che forse non sarebbero mai tornati, sapendo che avrebbero potuto non rivedere mai più la loro casa così come l’avevano lasciata. “Era un terno al lotto” racconta. “Un mio amico ritornò dopo che l’esercito ucraino aveva scacciato quello russo. La sua casa era ancora in piedi. Quella del vicino completamente distrutta.”
È stupefacente come fotografie di un’altra epoca sembrino mostrare una realtà non dissimile a quella di oggi. La distruzione di allora è quella di questi giorni. Qui siamo a pochi chilometri da Kiev. Il centro della capitale è stato prevalentemente risparmiato, anche se alcuni missili si sono abbattuti anche lì, facendo diversi morti. Irpin, al centro delle cronache durante le prime settimane di conflitto, è una città fantasma. I palazzi crivellati dai droni, le strade rivoltate, le case bruciate. Si cerca di ricominciare ma c’è tanto da ricostruire. Diversa è Bucha, la città del massacro, che per giorni ha occupato le prime pagine di ogni giornale occidentale dopo il ritrovamento di una fossa comune nello spazio adiacente alla Chiesa di Sant’Andrea. Oggi il sito viene ricordato da un altarino che commemora le centinaia di vittime civili. Della città diventò però virale un’immagine che mostrava una strada rasa al suolo, cimitero di numerosi carri armati e macchine bruciate. Oggi quella strada è stata quasi completamente ricostruita, così come le piccole case ai suoi lati.
Steinbeck delineava la distruzione della città facendo emergere la vitalità dei suoi abitanti e la crudezza dei loro oppressori. “Lungo la strada che conduceva all’albergo notammo che le ragazze ucraine sono […] aggraziate, camminano con passo ondeggiante e sorridono facilmente.” L’autore si stupisce spesso di come un popolo martoriato come quello ucraino allora potesse continuare a vivere con ottimismo, allegria e fiducia nel futuro. “I loro vestiti non sono migliori di quelli delle donne di Mosca, ma sono portati con maggior cura e ricercatezza.”
Questa fiducia nel futuro e questo ottimismo sono rimasti, ma la guerra non è finita e di sorrisi, oggi, ce ne sono pochi. La famiglia che mi ospita è un mondo a parte. Gli zii della mia compagna cercano di far vivere alla figlia Solomiia la sua infanzia, senza mostrarle tutto quello che succede intorno. Le sirene, però, le sente. Così come ha capito che la nuova normalità è andare a scuola e raggiungere in fretta e furia con la sua classe lo shelter più vicino non appena si sente il suono della minaccia aerea. Nella famiglia nonostante tutto si sorride. Gregory e Luda, i nonni di Kseniya, mi accolgono con tanta ospitalità, ma in babuska la luce negli occhi si è già assopita, così come in tantissime altre persone che incontro, ormai abituatesi alla guerra.
Nel libro le immagini della Kiev rappresentata da Capa rievocano le descrizioni dell’autore americano. Palazzi distrutti sullo sfondo, donne e bambine che passeggiano con i loro vestiti puliti e stirati in primo piano. La sensazione è quella di una comunità che non vuole subire ma vuole ricominciare.
Oggi Kiev, capitale di un paese in guerra, sembra raccogliere il testimone di quelle immagini e replicarle in chiave moderna. Dove il centro città mostra i carri distrutti provenienti dal fronte, famiglie e persino turisti (ovviamente ucraini) camminano ammirando l’iconografia del conflitto. Dai memoriali in Piazza Maidan ai mezzi distrutti, dalle foto dei militari uccisi ai sacchi di sabbia alle finestre e i cavalli di frisia a proteggere le entrate degli edifici pubblici.
Mentre si cerca di far fronte ai razzi russi, i cittadini sono ritornati a vivere dimenticandosi della paura. Avvezzi ai suoni delle sirene che squarciano l’(a)normale silenzio e alle esplosioni notturne, la popolazione riprova a stamparsi sulla faccia un sorriso difficile da decifrare. Erano sorrisi diversi, sicuri e pieni di gioia, quelli raccontati da Steinbeck.
A mostrare l’incertezza e la fine ancora lontana del conflitto non sono tanto le persone. Mi spiego meglio. Alle 10.39 di un giovedì di aprile il suono allarmante delle sirene lacera il silenzio della capitale. Vado subito a controllare sul telefono. Questa volta le sirene suonano in tutte le regioni del paese, un evento raro. L’ovest ucraino quel suono sta imparando quasi a dimenticarlo. Questa volta, però, la mappa dell’Ucraina si colora di rosso, è decollato un MIG-31K dell’Aeronautica Militare Russa, difficile da intercettare con mezzi di difesa antiaerea. In un articolo di un paio di mesi prima avevo letto che le persone corrono a rifugiarsi non solo nei bunker e negli shelter, ma anche nelle metropolitane. Quelle di Kiev vanno molto in profondità, addirittura la stazione di Arsenal’na è la più profonda al mondo, con i suoi 105 metri sottoterra. Natasha, che ci ha portati in giro per la città durante quei giorni, racconta che nei primi tempi dell’invasione alcune stazioni, soprattutto la Arsenal’na, erano state utilizzate come rifugio antiaereo, anche per lunghi periodi. Le persone erano scese con i materassi e le coperte, il cibo in scatola e le medicine, e avevano dormito lì a lungo, senza sapere se e quando sarebbero potuti tornare su. Ora la situazione è cambiata. Nessuno scende giù e tanti salgono su. Vestiti da lavoro con la valigetta in mano, indossando abiti casual tra gruppi di amici. Una realtà quasi paradossale per l’assurdità del momento. Nessuno si ripara. A scendere giù le scale della metro ti ritrovi di fronte un’onda di persone che quasi ti investe. Giù in profondità solo qualcuno aspetta che finisca quel suono infernale, per gli altri è un momento come un altro, di certo non possono perdersi due ore nel niente.
La macchina fotografica è uno strumento che incute terrore, e un uomo con una macchina fotografica è sospetto, viene spiato ovunque si rechi.
A descrivere la precarietà della città è l’architettura. Come già notato si possono vedere i mezzi della guerra, così come anche le protezioni lungo le strade, i portoni e le finestre. Quello che colpisce sono però le opere e i monumenti. Le statue hanno una loro funzione all’interno della struttura di ogni città, sono simbolo del luogo in cui si trovano. Dall’antichità queste stavano dove potevano essere viste o venerate, in spazi sacri o civili. E servivano a trasmettere l’influenza di chi le aveva commissionate. Oppure l’importanza della divinità o dell’individuo che rappresentavano. Oggi la loro funzione si è evoluta. Forse non sono più venerate, e la loro importanza non risiede nella loro sacralità, ma la loro presenza racconta l’esistenza in quei luoghi di un passato, di una storia che lì ha potuto formarsi nel corso dei secoli. Kiev questa sacralità della storia l’ha dovuta mettere in pausa. I monumenti, le statue, gli altari, tutto è stato coperto da sacchi di sabbia e protetto da lastre di acciaio per ripararle dal nemico. L’iconografia di una città la cui assenza racconta la guerra di oggi.
Dal Monumento a Bohdan Chmel’nyc’sky, il condottiero dei cosacchi, a quello a Dante Alighieri, dalla Fontana monumento ai fondatori di Kyiv alla principessa Olga a piazza Mykhilivs’ka. Tutti i grandi personaggi della storia sono avvolti da ogni tipo di protezione. Ora a Kiev non c’è tempo per la memoria, per proteggerla c’è bisogno di nasconderla, aspettando giorni migliori per lasciare spazio al passato, e al suo ricordo.
A testimoniarlo è anche il Museo storico nazionale dell’Ucraina. “Si avvicina una guida” racconta lo scrittore americano Dave Eggers. “Si chiama Svitlana. Indossa jeans attillati e un gilet di pelliccia sintetica arancione. Le chiediamo se sia possibile vedere il resto del museo. Ci risponde che gran parte dell’edificio è vuoto, che gli ottocentomila manufatti più preziosi sono stati nascosti per evitare che venissero trafugati dalle forze russe”. Avevo letto queste parole prima di arrivare in città. L’idea era fotografare il vuoto delle stanze, per continuare il racconto sulla guerra attraverso l’assenza di memoria. Il museo ad aprile è aperto. Le stanze sono per lo più svuotate. Ma se è vero che a colpire è la mancanza della storia che ci si aspetterebbe di trovare, ciò che sorprende di più è che queste stanze sono già riempite della storia presente. L’ingresso con i resti delle battaglie di Bucha e Irpin, le stanze con i volti dei morti dell’Azovstal, l’ala con le esposizioni delle bandiere ucraine firmate dai combattenti.
Ciò che dovrebbe raccogliere il testimone del passato del paese diventa lo specchio di quello che è oggi. Ancora una volta la storia viene messa in pausa, perché, ora, c’è spazio solo per il presente e il futuro. Ricordare cosa era l’Ucraina prima, il suo rapporto con la Russia, è diventato troppo doloroso. Steinbeck scriveva della grande forza di volontà nel ricostruire la città dopo la distruzione nazista. Oggi bisognerà, invece, riedificare non solo palazzi e strade, ma in molti vorranno ricostruire un intero passato, troppo vicino a quello degli invasori. Un’idea di cancellazione che forse può far storcere il naso, ma che allo stesso tempo è difficile da comprendere se non si è nei panni dei protagonisti di questa guerra.
La vita che continua
Bombe, guerra, dolore, morte. Il racconto di un conflitto nei media passa principalmente per questi quattro assi ma ciò che la gente vive è ben diverso. La distruzione è realtà, la paura è tangibile, i morti sono veri. Sono i loro concittadini, i loro amici, i loro cari. Ma nelle zone più lontane dal fronte non si vive solo di tormenti. La vita prosegue nei modi che meno ci potremmo aspettare, dando spazio alla cultura, all’arte, all’allegria. Per qualche momento le persone abbandonano le proprie fragilità, si districano dalla disperazione che li assilla quotidianamente e si concedono qualche accenno di vita, la vita com’era prima.
Steinbeck e Capa si ritrovano in un circo, un circo nuovo e di poche pretese dopo che quello vecchio era stato spazzato via dai nazisti. La gente ritrova la spensieratezza, i bambini possono vivere per qualche ora il sogno fiabesco che solo uno spettacolo circense può regalare.
A Cherkasy, 76 anni dopo, gli ucraini continuano a riempire i luoghi di cultura. Nella Filarmonica della città c’è Asafatov, cantante che porta una ventata di musica pop-rock. Una canzone dopo l’altra e quasi ci si potrebbe scordare di essere in un paese in guerra. La gente si alza in piedi per applaudire, alcune ragazze cantano. Gli sguardi del pubblico tradiscono un’innaturale serenità.
Nella narrazione di una guerra è difficile trovare il tempo per raccontare ciò che accade lontano dai campi di battaglia, spesso lo si fa quando una guerra finisce. Steinbeck e Capa descrivono i popoli che fanno i conti con gli strascichi di un conflitto che ha spazzato via città e persone come una bufera. Nella ricostruzione, però, comincia a rinascere quel senso di quotidianità di cui la gente ha un disperato bisogno. Riappropriarsi della vita che le era stata tolta, dei luoghi, degli amori. Oggi, dove la guerra sembra bussare da ormai un anno e mezzo senza mai sfondare, gli abitanti cercano di tenersela stretta quella quotidianità, prima di perderla. L’assuefazione al fragore delle sirene, alle notizie tragiche, ai bombardamenti vicini, ha fatto nascere un pensiero fatalista; la consapevolezza che da qua non si può più scappare si traduce nel mantra “è inutile continuare a nasconderci, viviamo le nostre vite finché siamo qua”.
Se è vero che si cerca di dare un taglio al passato, per concentrarsi sul presente, è altrettanto vero che se il passato si intreccia fortemente con il presente è difficile nasconderlo, e anzi, diventa un punto di forza su cui basare nuove fondamenta. Di nuovo alla Filarmonica di Cherkasy questa volta a riunirsi sono i bambini delle classi elementari. Una gita fuori scuola per guardare lo spettacolo che Grisha, il nonno della mia compagna, porta sul palco insieme agli attori e coristi del corpo della Filarmonica. La storia è quella di una donna ucraina sedotta e abbandonata da un uomo di alto rango russo, la simbolizzazione della cultura imperiale moscovita verso la subordinata Ucraina di quei tempi. Si tratta della trasposizione di “Katerina” del famoso poeta e simbolo dell’Ucraina Taras Shevchenko. Il richiamo alla storia, alle usanze del popolo ucraino, catturano i ragazzi per oltre un’ora. Canti popolari e costumi tradizionali si prendono la scena di fronte alla platea di giovani che sta crescendo con un invasore dentro casa. Qui la cultura diventa patriottica, la storia diventa presente.
Steinbeck racconta proprio attraverso la festa degli spettacoli e dei balli, delle messe in scena e dei poemi la tradizione ucraina e la voglia di rinascita. Un filo conduttore che sembra non perdersi nel corso di più di settant’anni e due guerre violentissime.
“L’energia di queste giovani donne era incredibile. Per tutta la giornata, fin dall’alba, avevano lavorato nei campi e, dopo una sola ora di sonno, erano pronte a ballare tutta la notte.” È nella fattoria Shevchenko (praticamente un nome che diventa icona dell’Ucraina) che lo scrittore e il fotografo si immergono nelle festanti notti dei giovani lavoratori e lavoratrici. A riempire la serata il ballo e il teatro. In questo caso era “una piccola commedia di propaganda, ingenua ma ben fatta”, che finisce tra le risate di un pubblico che non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle la guerra, per accogliere un futuro che non poteva che essere radioso. Oggi come allora, si vive tra la realtà e la finzione, lì dove la finzione diventa una simbolica via d’uscita dalla crudezza della realtà. Se nei racconti di Steinbeck e nelle foto di Capa la via era ormai in discesa, oggi la strada degli ucraini è ancora incerta. Rimangono le testimonianze e i racconti del passato e i loro intrecci col presente. Il popolo che cambia nemico ma lo affronta allo stesso modo, con l’ansiosa ricerca di non smarrire la propria esistenza sotto la catastrofe della guerra, con la certezza che tutto questo verrà presto consegnato alla storia.