N on mi serve un successone; mi serve un buon film” dice Alicia Vikander nei panni di Mira, un’attrice che si sta preparando a calarsi nella parte di Irma Vep e girare un adattamento della leggendaria serie Les Vampires, del 1916. Non un bel film, che indicherebbe un giudizio personale, ma un buon film – a good movie, dice l’attrice. Reduce dall’ennesimo film di supereroi, quello di cui ha bisogno Mira è un film d’autore, che nasca prima come espressione artistica e in seconda istanza come prodotto commerciale. Un augurio probabilmente condiviso dal regista francese Olivier Assays, ma bizzarramente sfidato dal contesto: siamo in una miniserie HBO del 2022, remake di un film indipendente che nel 1996 fu a sua volta remake dell’iconico film a puntate di novant’anni prima – il breve periodo in cui il cinema muto copiava i feuilleton romanzeschi e offriva agli spettatori film a episodi di 20 minuti.
Remake non è neppure la definizione corretta: entrambi intitolati Irma Vep e firmati Assayas, la miniserie e il film sono ambientati nei dietro le quinte di un presunto remake e sebbene mostrino anche spezzoni dell’originale, si incentrano in realtà sugli intrighi interpersonali del set. I due Irma Vep sono in realtà una spassionata serenata alla cinefilia. A differenza di altre arti visive, in cui l’autoreferenzialità può sbrodolare nel kitsch o rinsecchirsi nell’ermetismo elitario, il cinema che dichiara “l’amore per l’amore di se stesso” è miracolosamente generoso, una strana creatura capace di fare i propri interessi ma anche quelli del prossimo (spettatore).
Il cinema che dichiara ‘l’amore per l’amore di se stesso’ è miracolosamente generoso, una strana creatura capace di fare i propri interessi ma anche quelli dello spettatore.
Negli anni Novanta c’era la moda dei film a più mani e Olivier Assayas era un regista promettente che aveva cominciato a lavorare nel cinema scrivendo sulle pagine dei Cahiers, come molti prima (ma pochi dopo) di lui: insieme a Claire Denis e Atom Egoyan era stato invitato a creare un episodio da un soggetto condiviso: una donna straniera soggiorna in un hotel francese. Assayas schizzò la storia di un’attrice di Hong Kong che arrivava a Parigi per girare un film. La collaborazione antologica andò in fumo ma Assayas ne recuperò la premessa e vi inserì l’idea che il film fittizio fosse un remake di Les Vampires, la serie muta scritta e diretta da Louis Feuillade tra 1915 e 1916. Feuillade si era ispirato alle reali malefatte di un gruppo anarchico di primo Novecento, immaginando una gang di criminali che agisce con mezzi paranormali e conta tra i suoi membri la malvagia e sensuale Irma Vep. Lodata da André Breton, la serie o lunghissimo lungometraggio che dir si voglia contribuì a concepire e diffondere la figura della vamp.
L’immagine della femme fatale, una specie di conturbante sirena urbana rivestita unicamente da un sottile strato di tessuto nero che ne lasciava intuire le forme, era impersonata da Jeanne Roques in arte Musidora, attrice poi anche scrittrice, regista e produttrice, e pioniera – insieme alle coeve Alice Guy, Elvira Notari e Mary Pickford – dell’imprenditorialità femminile al cinema. L’ambigua fascinazione di Musidora/Irma Vep, che emanava una carica erotica attiva ma viveva anche momenti di sottomissione coatta e fortuita, venne poi traslata da Assayas nella protagonista del suo Irma Vep del 1996. Per la parte principale ingaggiò Maggie Chung nel ruolo di se stessa, come attrice legata ai film wuxia (di arti marziali) e spaesata ma non ingenua outsider nell’agitata industria del cinema europeo. In una scena divenuta memorabile e omaggiata nella serie del 2022, il personaggio di Chung si trova ad una cena improvvisata da cast e troupe, in cui Bulle Ogier, la madrina della tarda nouvelle vague di Jacques Rivette e Barbet Schroeder, le spiattella che la costumista che la sta scorrazzando in motorino (Nathalie Richard) ha una cotta per lei. A rendere Irma Vep un film di culto per generazioni a venire non fu però solo la sotto-trama queer, ma anche la “cinefilia cannibale” di Assayas, che tra le altre cose assegnò il ruolo di René Vidal – il regista visionario e bisbetico alle prese col fittizio remake di Les Vampires – all’attore che più incarna lo spirito del cinema francese e cioè Jean-Pierre Léaud, ai più noto come Antoine Doinel.
Le stratificazioni, i tributi e le citazioni che animavano l’Irma Vep film del 1996 sono amplificati nella miniserie del 2022 come un pupazzo gonfiato nei punti giusti, che esplicita i connotati senza deformarsi o diventare grottesco. La cinefilia si materializza in oggetti di scena e si propaga in vari livelli di feticismo, più evidentemente a livello formale. In una scena il nevrotico regista René Vidal, qui interpretato da Vincent Macaigne, è inquadrato davanti al portone dello studio della propria terapista mentre stringe tra le mani una di quelle sportine di tela che vengono date a fiere o eventi culturali. Solo che qui non è un semplice prop fabbricato per l’occasione ma proprio la borsa di un’edizione passata del Cinema Ritrovato, lo storico festival bolognese dei film restaurati. L’assistente di Mira, Regina (Devon Ross), legge il secondo volume de L’immagine-tempo di Gilles Deleuze e più tardi, quando scopriremo che ha appena finito l’accademia di cinema ma già si è assicurata finanziamenti per il primo lungo, pronuncia una battuta che pare scritta per farsi pubblicità e insieme mette a tacere critiche di pretenziosità rivolte alla serie: “hai bisogno di me, nella tua vita c’è bisogno di una nerd di cinema che crede di saperla più lunga degli altri”. Regina è come un professore cultore della materia che fa lezione strizzando l’occhiolino ai suoi studenti – “che barba questi antichi…”: sfacciata ma consapevole, coinvolge e converte nella sua missione nel momento in cui se ne distacca auto-ironicamente.
La serie fa le veci di questo spirito “pedagogicool” innanzitutto a livello formale, con composizioni mise-en-abyme del genere “il film dentro il film dentro il film”. Pur un po’ sempliciotte, queste soluzioni eludono una simmetria rigida e si aprono a crepe e contaminazioni reciproche, influenzando trama e protagonista, e parallelamente offrendo brevi incursioni didattiche. Di livelli se ne contano almeno quattro: spezzoni dell’originale Les Vampires in bianco e nero, estratti del remake fittizio in pseudo pellicola, spezzoni dell’originale Irma Vep del 1996, siparietti di un immaginario making-of di Les Vampires, anch’esso con patina retrò e talvolta narrato in off tramite passaggi dal diario di Musidora. Ma oltre a queste matrioske e alla linea narrativa base, c’è l’intrusione di un altro media esterno, e cioè personaggi che mostrano ad altri personaggi video sui propri telefoni.
A rendere Irma Vep un film di culto per generazioni a venire non fu però solo la sotto-trama queer, ma anche la ‘cinefilia cannibale’ di Assayas.
Nulla di rivoluzionario, se non fossimo però in un’opera di Assayas, che nel 2018 ha realizzato una commedia d’intrattenimento intellò sul concetto di e-book e proprietà intellettuale, intitolandola nientepopodimeno che Non-fiction. Il gesto del regista René che mostra un estratto di Les Vampires a Mira per prepararla a una scena, o di Regina che allunga l’iPhone su cui scorre un’intervista di Musidora ormai anziana sulla TV francese, è quello che facciamo tutti quando consumiamo e condividiamo contenuti audiovisivi. Quest’azione, oltre a raffigurare la “cinefilia vulgaris” che si forma su Reddit, Wikipedia e YouTube prima che ai festival o sui testi accademici, è una rappresentazione cinematografica del double screen, l’utilizzo simultaneo di due schermi – solitamente tv/computer e smartphone – che pervade non solo il nostro tempo libero ma spesso anche quello lavorativo. Tracciando un parallelismo, la linea narrativa base (la storia di Mira che gira un serial remake) rimpiazza lo schermo principale, quello “più grande” che un tempo era anche l’unico e che ingloba il secondo – suggerendo così una strana simbiosi tra osservatore esterno e soggetto della messinscena. È un po’ come se Assayas avesse visualizzato ciò che Emanuele Trevi scriveva in Sogni e favole ricordando il cineclub: “I cinefili erano uno spettacolo più interessante di qualunque film”. Esplicitandola, peraltro nelle vesti di un reboot, Irma Vep 2022 coopta la passione per il cinema come una novità da vendere – in un modo simile in cui Stranger Things capitalizzava sull’invecchiamento di una certa fetta di spettatori tramite il fattore nostalgia, o House of Cards sulla combinazione ad-hoc di generi assodati come vincenti.
Qui i “cinefili-mostri” – quelli che in sala si siedono davanti per venir investiti per primi dall’immagine sullo schermo – ribatteranno che tale operazione non accade per la prima volta. Classici come La nuit américaine, The Players, Il disprezzo, All That Jazz, 8 ½ e il suo fratellastro Stardust Memories, e in tempi più recenti Le Pornographe, Birdman o The Souvenir I e II, declinano e vendono una simile fascinazione per la cinefilia. Ma siccome non può prescindere dalla storia del cinema, la cinefilia viene spesso fraintesa come un amore reazionario. La divulgazione del cinema delle origini nel mito di Musidora/Maggie Chung/Alicia Vikander e l’accettazione se non addirittura l’incoraggiamento del suo sfruttamento commerciale dimostrano però il contrario, sia sul piano diegetico che formale. Seguendo l’esempio dei surrealisti tanto apprezzati da Assayas, il personaggio di Alicia Vikander/Mira/Irma Vep finirà per trapassare le pareti sia letterali dell’hotel in cui alloggia che quelle metatestuali, sia quelle materiali che oniriche, influenzando di fatto lo svolgimento narrativo.
Inoltre, a differenza dei film zombie che per esistere devono presupporre l’ignoranza del concetto di zombie, in Irma Vep miniserie tutti – pubblico, cast & crew – sanno bene che esiste un Irma Vep film di culto, della cui memoria il regista René Vidal (a questo punto un passepartout per Olivier Assayas) si strugge. I personaggi vivono in un mondo in cui, come Boris 4 scherza sulla “famosa piattaforma” mentre scorre in streaming su Disney+, non solo le serie hanno preso il sopravvento sul consumo dell’audiovisivo, ma pure gli auteurs flirtano con l’algoritmo per portare a casa la missione: esprimere la propria visione, guadagnarci e intanto convertire gli spettatori a un ideale di cinema sovversivo al contesto in cui esso opera. Posizione forse ipocrita, forse paradossale, ma tutt’altro che conservatrice o anti-moderna come talvolta viene intesa la cinefilia.
La serie è stata prodotta dall’ex distributore indipendente A24, che in meno di dieci anni è diventato una specie di mini-major in stile Miramax degli anni d’oro. A24 ha poi venduto l’idea ad HBO, che ha trasmesso la serie negli Stati Uniti, mentre in Europa è stata affidata ai canali locali (Sky Atlantic in Italia). Pur non essendo stata inglobata da colossi ancora più aggressivi, la natura della miniserie Irma Vep non ha nulla di diverso da Emily in Paris, The Squid Game o Narcos (eccetto, forse, essere stata concepita con una lunghezza episodica ma definita). Però, in coerenza con la sua filmografia, con l’intreccio degli otto episodi e soprattutto con la loro manifestazione materialistica, Assayas vende un’idea di cinefilia che non è solo astratta e storica, ma anche pratica e concreta: uno spettacolo osservabile e pure “agibile”, nella misura in cui il suo apprezzamento e inserimento nel mondo “vero” diventano una sorta di fascio di luce per guardare e capire la realtà.
Assayas vende un’idea di cinefilia che non è solo astratta e storica, ma anche pratica e concreta: uno spettacolo osservabile e pure ‘agibile’, un fascio di luce per guardare e capire la realtà.
Nel corso della serie, la scena della festa per l’appunto modellata sull’originale del 1996 vede tutti i personaggi interrogarsi sulla natura del loro lavoro. Uno degli attori, interpretato da Vincent Lacoste e ben calzante il ruolo dell’irritante cinefilo francese, si dice sorpreso che un autore come René Vidal abbia accettato di fare televisione. Il direttore della fotografia (Antoine Reinartz) difende la scelta, forse parlando in nome di Assayas: “non stiamo facendo TV – è un serial come ai tempi del cinema muto”. “È un po’ come tornare alle origini”, suggerisce quindi Regina, “i serial hanno rimpiazzato i romanzi, possono considerarsi dei film lunghi”. “Le serie non sono film lunghi, sono dei contenuti. L’industria dello spettacolo è gestita dagli algoritmi”, la corregge la costumista Zoe (Jeanne Balibar), prendendo le parti dei puristi. Qualcun altro suggerisce che pure il primo cinema, quello mescolato al vaudeville in cui Musidora bazzicava, era “contenuti”. “E no,” ribatte allora il personaggio di Lacoste, “Non avevano idea di cosa stavano facendo, stavano inventando il mezzo e si sono fatti guidare dall’immaginazione”. Finché un altro attore (Lars Eidinger) non sbotta: “Che problema hai con le serie?”. “Le piattaforme”, risponde sempre il purista, “hanno bisogno di contenuti e così li dilatano. Ci si adatta al mercato. È il contrario dell’arte!”.
Ma il punto è sempre stato un altro, interviene nuovamente Zoe: preferire, amare il cinema su tutto, perché “è meglio dell’arte: cattura la realtà in modi in cui le altre arti non riescono”. Sarò di parte, ma come darle torto: “La pluralità inesauribile dei film”, scriveva ancora Emanuele Trevi, “era la fonte di una felicità sempre in grado di rinnovarsi, perché se ognuno di questi aveva sempre un inizio e una fine, un titolo che li delimitava e li distingueva dagli altri, un regista, dei protagonisti, una trama, il Cinema invece era un nastro di Moebius, un’immagine concreta dell’infinito”.