D al 1857, ogni anno in Messico ha luogo la costruzione della Petatera. L’edificio, di 60 metri di raggio e di fabbricazione artigianale, ospita un’arena dei tori per circa 5.000 spettatori, che si riuniscono per tutto il mese di febbraio a Villa de Álvarez, nello stato di Colima, per la festa di San Felipe de Jesús, una ricorrenza mista pagano-religiosa.
Nelle sei settimane precedenti, trenta abitanti della città danno forma a uno spazio per eventi composto di 70 gradinate di 2,5 m di larghezza per 3,5m di profondità costruite con tronchi di legno locale, poggiate su chiodi e legate con corda di itxle, una fibra vegetale che proviene prevalentemente dalla pianta d’agave. Il rivestimento è costituito da grandi teli di foglie intrecciate di petate, la palma che dà il nome allo spazio. La Petatera, un’ingegnosa opera frutto di un’unione collettiva – e per di più temporanea – è ai nostri giorni il migliore simbolo della tradizione costruttiva informale e la consapevolezza del suo valore fa parte del patrimonio immateriale nazionale messicano.
Se voltiamo lo sguardo all’indietro, troviamo un analogo successo della tradizione informale quando si è affrontata la vicenda piazza Jemaa el Fna di Marrakech. Uno spazio caratterizzato dall’assenza di pianificazione, di funzioni e di elementi costruttivi, ma che consente invece l’accadere di situazioni, che rinforza l’idea del racconto di storie, la possibilità di immaginare quello che non c’è. Entrambi gli spazi offrono l’opportunità di elaborare una riflessione più ampia sui progetti che vedono nell’immaterialità, nel non pensato o nel non appartenente una loro ragione d’essere, e che anzi hanno trovato in questi “difetti” il loro successo.
“Ahora bien, ¿Qué se requiere para que un sitio se convierta en necesario para la comunidad de una localidad? Para ello es menester que los constructores entiendan y respondan a plenitud a lo que la sociedad necesita.” La domanda e la risposta data da Luis Alberto Mendoza Pérez, architetto e ricercatore dell’Università di Colima sono molto chiare: è compito dei professionisti della costruzione rispondere ai bisogni delle società per cui operano.
Ma come dimostra la letteratura socio-antropologica urbana contemporanea, questa vicenda non sembra di essere regolare. Si potrebbe scrivere una storia completa, dalla metà dello scorso secolo, su quelle comunità dimenticate nell’atto – o negli atti – di fare città. A queste comunità, che in seguito verranno definite “rifiuti sociali” va dedicata l’indagine sull’attuale produzione spaziale elaborata in questo saggio. Il tutto con l’intento di prefigurare un percorso di produzione e pratica dello spazio collettivo che miri ad essere inclusivo, a varcare quei confini che definiscono il dentro e il fuori, a superare separazioni razziali, di genere o spirituali; una “passeggiata’’ sulle soglie della differenza che nutra il mestiere della produzione spaziale di esperienze e fallimenti e che, come si è appena detto sopra, tenda a includere il più possibile i quesiti posti da quella collettività per cui i progetti vengono ideati.
Non essendo che un’attività
secondaria del progresso economico, la produzione di rifiuti umani ha tutte le caratteristiche di una questione impersonale, puramente tecnica.
Si sarebbe tentati di dire che, se non ci fossero immigrati che bussano alle porte, bisognerebbe inventarli […] perché offrono ai governi un ideale “altro deviante”, un bersaglio quanto mai gradito per le “tematiche scelte con cura su cui impostare le loro campagne”. […] I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze della globalizzazione che non sono in grado di contrastare, non possono fare altro che “scegliere con cura” i loro bersagli.
L’incertezza e l’angoscia prodotta dall’incertezza sono i prodotti principali della globalizzazione. I poteri statuali non possono fare quasi nulla per placare l’incertezza […]. Il più che possono fare è rifocalizzarla su oggetti alla loro portata; spostarla dagli oggetti per cui non possono fare nulla su oggetti che possono almeno mostrare di sapere gestire e controllare. I prodotti di scarto della globalizzazione – rifugiati, richiedenti asilo, immigrati – si adattano perfettamente a questa definizione.
Se l’eccesso di popolazione (cioè, la quota che non si può riassimilare nei normali modelli di vita e riciclare nella categoria di membri “utili” della società) può essere ciclicamente rimosso e trasportato oltre i confini del recinto entro cui si ricerca un equilibrio economico e sociale, le persone che sfuggono rimanendo all’interno del recinto anche se attualmente in esubero, sono destinate al riciclaggio.
Sono parole di Zygmunt Bauman. Le ricerche di Richard Sennett o di Zygmut Bauman, offrono una buona panoramica sulla storia generale dell’uomo e su quali siano stati i momenti recenti in cui l’umanità ha cominciato ad avvertire una parte di sé come eccedente. La “sovrappopolazione” è il termine con cui questa vicenda dell’eccesso di corpi e di esistenze comincia a farsi presente nel mondo contemporaneo. Secondo gli autori, considerato che la società ha subito un processo di trasformazione da agricola a produttiva e, infine, a consumatrice, è questo continuo bisogno di “evolversi’’ dell’Occidente che produce i “rifiuti sociali”. Bauman vede in Vite di scarto l’accumularsi di quote della società che la politica non ha più idea di come assorbire e sulle quali comincia ad allungarsi l’ombra di un senso di ineluttabile condanna.
Dalla trasformazione dei piccoli appezzamenti di terreno in ampie colture – con lo sviluppo di tecniche massimizzanti la produzione agricola – alla trasformazione delle aree industriali in zone destinate ai servizi terziari, i “membri utili’’ della società vengono mano a mano sempre più circoscritti e inclusi all’interno di un perimetro delimitato, sociale e geografico. E se una parte dei membri, quelli rimasti all’interno di confini fisici, possono comunque trovare una redenzione nel “riciclaggio” e dunque continuare a fare parte di quella cerchia di umanità ancora “utile’’, gli eccedenti di questo processo – oggi identificati con i rifugiati, i richiedenti asilo o i più comunemente indicati come immigrati – non possono che essere un “esubero’’. Scrive ancora Bauman: Diversa è
la situazione degli esseri umani in esubero, che sono già “dentro” e sono destinati a restarvi, perché la nuova saturazione del pianeta impedisce la loro esclusione territoriale. In assenza di luoghi disabitati in cui poterli deportare, ed essendo stati chiusi i posti in cui si recherebbero di loro spontanea volontà in cerca di sopravvivenza, occorre approntare discariche all’interno del luogo che li ha resi superflui.
Dopo i “laboratori coloniali’’ di cui parla Federico Rahola in Zone definitivamente temporanee, che hanno sfruttato oltremodo, o più propriamente “oltremare’’, l’ultimo spazio riservato ad accogliere l’esubero, i “ghetti’’ o i “campi’’ sono le ultime unità spaziali sviluppate nel mondo globalizzato come discarica dei rifiuti sociali.
Un campo per sfollati e un centro per immigrati “irregolari”
da espellere rispondono della stessa necessità, quella di territorializzare in qualche modo i soggetti in eccesso. […] ragionare intorno alla categoria di eccedenza come figura “cumulativa” per indicare una condizione che si pone al di là dell’esclusione […] e in cui si precipitano situazioni ed esperienze anche molto diverse, tutte accomunate da una specifica dimensione di displacement.
Il fatto è che proprio una tale non appartenenza non appare più di “esclusiva pertinenza”, non riguarda determinate aree e solo quelle, e la sua collocazione globale diventa decisamente più complessa: implica una dislocazione, se non rispetta più una geografia fisica, intacca pure quella politica; coinvolge cioè ogni luogo e potenzialmente ogni soggetto che sia prodotto come “in ecceso” rispetto a quel luogo. Tocchiamo qui un punto che definisce il carattere politico dell’eccedenza […]: eccesso è il residuo, ciò che resta fuori, rispetto a forme di appartenenza che sembrano implodere e contemporaneamente diventa il sintomo di un’inclusione che a ogni latitudine si rivela più come impossibile.
Campi informali, centri d’identificazione ed espulsione, tendopoli ed altre aree urbane edificate spontaneamente sono il nuovo paradigma dell’uomo in eccesso, dei rifiuti di una società e di un mondo urbanizzato che non ha più idea di come gestire tutti questi flussi di persone, in una situazione ancor più complessa se si considera che nel 2050 si stima che i due terzi della popolazione modiale abiterà in agglomerati urbani.
La riflessione di Federico Rahola, oggi insegnante di sociologia all’Università di Genova, solleva tra gli altri un punto molto importante: l’assenza di un luogo fisico destinato ad accogliere l’eccesso. Questa “a-fisicità” del rifiuto sociale determina il suo ruolo nel campo politico, come lo destina anche ad essere accolto in “qualunque luogo”. Uno stato di eccezione questo, analogo al già citato discorso sull’appropriazione spontanea degli spazi – intesa come “uso” e non come “proprietà”.
Se la condizione spaziale, l’abitare lo spazio urbano, è un prerequisito essenziale per partecipare alla vita pubblica, perché si trovano ancora difficoltà a fare accedere certe fasce sociali alla pianificazione urbana e a considerare anch’esse come motori del benessere collettivo? Un articolo di Casado Caneque del 2014 sullo spagnolo El Pais mette in relazione la migrazione giovanile con la presenza o assenza di politiche di inclusione rivolte alle nuove generazioni. Non ci si sorprende, ad esempio, di vedere New York, Toronto o Berlino come teste di serie della classifica Youthful Cities Index, stilata dall’omonimo organismo di ricerca canadese che si occupa di misurare le infrastrutture per i giovani nelle maggiori città del mondo.
Un’attenzione, quella verso le infrastrutture per la gioventù, che ad alcuni può apparire velleitaria – si pensi a chi a Roma lamenta la mancanza di parcheggi, piuttosto che reclamare un efficiente trasporto pubblico urbano. Al contrario Youthful Cities, con un metodo che comprende 80 parametri, riesce a valutare in modo obiettivo molteplici aspetti che interessano non solo i giovani, ma l’intera popolazione, come l’accesso all’educazione e alla salute, le opportunità di impiego, la partecipazione cittadina, l’accesso ai finanziamenti pubblici e alla cultura, l’accesso digitale, la sostenibilità ambientale o l’uso degli spazi pubblici. Più in generale, e riprendendo un’altra analoga esperienza, l’attenzione ai giovani consiste nel: “dotar de herramientas pedagógicas que obligan a reflexionar sobre cómo se mira lo publico, para encaminar a transformaciones sociales desde la base, a través de la educación” (Bárcena L.).
Questa esclusione che i giovani spesso vivono nei territori in cui abitano ci porta a considerarli parti di quella categoria del rifiuto sociale, di cui si è sopra tracciata la genealogia. Un discorso analogo va fatto per gli anziani, fortemente presenti nelle nostre città europee o verso i bambini, entrambe categorie non autonomamente redditizie, per le quali le amministrazioni municipali hanno spesso lo stesso approccio rivolto ai giovani o ai migranti.
E, forse, l’incompatibilità tra discorsi pianificatori ed escludenti delle amministrazioni e l’eterogenea mixité che transita per le strade risiede nel fatto che “la strada è un istituzione sociale” – proprio come ci ricorda Manuel Delgado nella sua “antropologia delle strade” – e come tale molto difficile da piegare a un ordine pre-stabilito e, sopratutto, ad una serie di regole che hanno l’implicito scopo di limitare la libertà d’azione nello spazio comune e omologare gli scambi umani a mere transazioni economiche.
El espacio urbano no es el resultado de una determinada morfología predispuesta por el proyecto urbanístico, sino de una dialéctica ininterrumpidamente renovada y autoadministrada de miradas y exposiciones. […]
Son los practicantes de la ciudad quienes constantemente se desentienden de las directrices diseñadas, de los principios arquitecturales que han orientado la morfología urbana y se abandonan a apropiaciones efímeras y transversales […]
En los espacios urbanos plenamente arquitecturizados parece como si no se previera la sociabilidad […]
En cambio, el espacio urbano real – no el concebido – conoce la heterogeneidad de las acciones y de los actores. Es el proscenio sobre el que se negocia, se discute, se proclama, se innova, se sorprende o se fracasa. […] Ahí no hay más remedio que aceptar someterse a las miradas y a las iniciativas imprevistas de los otros. […] Espacio también en que los individuos y los grupos se definen y estructuran sus relaciones con el poder, para someterse a él, pero también para insubordinársele o para ignorarlo.
Se la vitalità è una delle qualità che piano piano pensiamo si sia smarrita nelle città occidentali, quello spazio urbano “reale”, rimpianto da Delgado, è forse ancora sperimentabile?
Allarghiamo lo spettro alle città del cosiddetto mondo “in via di sviluppo”, per contemplare immagini familiari di un tempo passato, divenuto ricordo, dove i bambini giocano per strada, piccoli venditori ambulanti offrono i loro prodotti di stagione e i “grandi” conversano nelle panchine, in riunioni più o meno improvvisate, su temi di attualità, politica o sport. Immaginiamo i pianterreni abitati, che colonizzano i marciapiedi, o le strade ancora sterrate, a ciottoli, con cene o riunioni serali di vicinato.
Senza sottovalutare la forte mancanza di risorse e la piccola o media criminalità, è nelle città del continente africano, del Centro o Sudamerica che ancora troviamo resti di una vitalità urbana, segni di una partecipazione diffusa all’organismo collettivo della città.
È in questi contesti che abbiamo visto affermarsi alcune delle pratiche architettoniche più sperimentali e interessanti degli ultimi 15 anni. Si pensi ad esempio agli alloggi a basso costo e implementabili dello studio di Elemental Chile di Alejandro Aravena o agli interventi di Tatiana Bilbao in Messico, così come ai progetti di spazio pubblico di Rozana Montiel sempre in Messico o a quelli di Giancarlo Mazzanti in Colombia.
Per questi progetti, nati in luoghi di grande sofferenza economica, una delle regole cardine è la semplicità del manufatto spaziale, il quale, una volta liberato da orpelli ed estetismi superficiali, si offre come una cornice di quella vita che in esso abita. O, come si vuole qui sostenere, getta luce sull’invisibile, su quello che spesso non vediamo o non vogliamo più vedere: l’autenticità delle azioni quotidiane.
“Imparare dalla strada”, per utilizzare l’espressione di Joseph Rykwert tratta da un suo scritto del 1976 dedicato alle costruzioni per popolazioni in movimento le quali, secondo Pierluigi Nicolin, “sono destinate a influenzare il pensiero architettonico nei prossimi anni”. Nei casi sopracitati, questa consapevolezza si esprime nell’uso di materiali industriali lasciati “a nudo”, nel lavoro con processi di progettazione e costruzione che lasciano spazio all’indefinizione, all’indecisione o, detto ancor meglio, alla futura azione dei fruitori.
Altre declinazioni di questa attitudine all’ascolto dell’architettura dell’azione possono vedersi nel riutilizzo di elementi della tradizione popolare che Tyin Tegnestue mette in campo a Bangkok – si pensi alle cancellate e agli altri elementi metallici della Klong Toey Community Lantern – o nella fragilità e velocità con cui Olivier Ottevaere e John Lin intervengono con The Pynch, una biblioteca e playground in legno costruiti nella città cinese di Yunnan, che dal sisma del 2012 attende ancora le opere di ricostruzione post-terremoto, come case, spazi pubblici e altre infrastrutture pubbliche.
Se già Walter Benjamin notava come nella Napoli dell’inizio del XX secolo la povertà avesse portato a un’allentamento dei confini spaziali e come questo riflettesse una libertà più radiante di pensiero, è oggi nei territori informali dell’Africa o delle conurbazioni asiatiche e sudamericane che la scarsità di risorse e l’informalità danno luogo a scambi e a momenti di estremo interesse per la nostra pratica. Osservarli, comprenderli, viverli, entrare in empatia o prendersi cura di loro sono alcune delle attitudini con cui va affrontato il nostro odierno lavoro di produzione spaziale. Chissà se, in un futuro prossimo, quest’abile attitudine alla resilienza potrà rivelarsi utile nella progettazione – o non-progettazione – dei nostri territori del quotidiano?
Estratto da Urbanità spontanee, (Leporello, 2021).