A lla fine dello scorso gennaio il nome di Hind Rajab inizia a circolare nelle notizie: la Mezza Luna Rossa Palestinese pubblica una telefonata dei suoi operatori con questa bambina palestinese, che ha sei anni. Nella conversazione, iniziata da Layan, la cuginetta, le bambine raccontano di trovarsi intrappolate in auto con i cugini e gli zii e di essere le uniche superstiti di un attacco; sono terrorizzate perché vicino a loro c’è un carro armato israeliano. Le ultime cose che si sentono in quella registrazione sono rumori di spari, urla. Quando la Mezza Luna Rossa Palestinese riesce a rimettersi in contatto con l’auto, che si trova a Gaza City, risponde la bambina: anche la cugina Layan è morta, colpita da un proiettile. Il contatto telefonico tra Hind Rajab, ferita anche lei, la madre della bambina, che si trova intrappolata in casa, e gli specialisti dell’organizzazione umanitaria dura tre ore – il tempo necessario perché le autorità israeliane concedano a un’ambulanza di raggiungerla – ma si interrompe quando la bambina smette di rispondere. Anche dell’ambulanza, arrivata in soccorso, non ci sono tracce audio. Due settimane dopo, quando le truppe israeliane si ritirano dal nord di Gaza, vengono ritrovate l’auto e l’ambulanza, entrambe distrutte, con tutti i passeggeri morti: inclusi i due paramedici, Yusuf al-Zeino e Ahmed al-Madhoun, e Hind Rajab. Cos’è successo?
È una delle tre storie approfondite da The Night Won’t End, il documentario di Fault Lines – programma di approfondimento di Al Jazeera in inglese – prodotto da Layla Al-Arian e dalla regista Kavitha Chekuru, con il lavoro giornalistico del corrispondente Sharif Abdel Kouddous. Attraverso indagini scientifiche e giornalistiche che hanno coinvolto Forensic Architecture, EarShot e Airwars – gruppi di ricerca multidisciplinare che si occupano di analizzare casi di violenza e di violazione dei diritti umani – Fault Lines indaga, oltre a quello di Hind Rajab, diversi casi, come quello della famiglia Salem, i primi ad avere la casa distrutta da un attacco aereo; e quello della famiglia Al Ghaf, in cui il padre, andato a cercare un biscotto per il figlio minore all’interno di una delle cosiddette “safe zone”, torna alla propria tenda e la trova distrutta da un bombardamento – il figlio e la moglie morti e gli altri tre figli feriti. Suo figlio maggiore, Mohammed Al Ghaf, morirà dopo un’agonia lunga venticinque giorni al Nasser Hospital, poco dopo aver passato il confine con l’Egitto per ricevere cure. Prodotto all’interno di Fault Lines, il programma di attualità di Al Jazeera in lingua inglese specializzato nell’esaminare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, The Night Won’t End indaga anche il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra a Gaza e le leggi, internazionali e nazionali, che regolano i conflitti, interrogando membri di organizzazioni umanitarie, ex funzionari del Dipartimento di Stato statunitense, portando la voce e le testimonianze delle famiglie coinvolte. Il documentario è disponibile sul sito di Al Jazeera e su YouTube.
Ho intervistato Sharif Abdel Kouddous (giornalista e corrispondente) e Kavitha Chekuru (regista e produttrice), per parlare del loro documentario e del linguaggio politico, retorico e giornalistico attorno a questo conflitto. L’intervista è avvenuta il 15 luglio 2024: al momento il conto delle vittime nella Striscia di Gaza supera la soglia delle 38mila; secondo la rivista scientifica The Lancet la stima reale (al 5 luglio) potrebbe essere di 186 mila vittime.
Sara Marzullo: Il vostro documentario svolge un lavoro prezioso nel mettere insieme i volti e le voci di palestinesi che abbiamo visto attraverso i social in questi mesi, dandoci la possibilità di conoscere a chi appartengono queste vite. Non solo: fate anche qualcosa di molto complesso e necessario, inserite queste storie all’interno del contesto politico che consente a Israele di continuare la sua guerra contro Gaza nelle modalità a cui abbiamo assistito, mantenendo l’appoggio della maggior parte degli stati occidentali. In che modo è stato concepito questo lavoro? A che punto del conflitto? Come avete deciso di concentrarvi sulle storie delle tre famiglie?
Sharif Abdel Kouddous: Le prime discussioni su cosa fare sono iniziate a novembre, spronate dalle dimensioni di ciò che stava accadendo a Gaza. La stagione di Fault Lines in realtà a quel punto era già completa e in teoria non avevamo più episodi a disposizione, ma di fronte alla vastità degli attacchi e ciò che questi rappresentavano, abbiamo ritenuto necessario aggiungerne uno. Abbiamo discusso molto su come girare il documentario, in primo luogo perché ai giornalisti internazionali non era e non è concesso di entrare a Gaza. Questo divieto, imposto da Israele, costituisce una grande violazione della libertà di stampa e ha come conseguenza che siano i giornalisti di Gaza a doversi addossare tutto il peso e la fatica di raccontare questo conflitto, di farlo in un contesto di sofferenza, con un numero mai visto prima di vittime tra le loro fila; il numero di giornalisti uccisi in questo conflitto è collegato in parte allo stesso divieto di accesso imposto ai giornalisti internazionali: penso che se avessimo la stampa di tutto il mondo sul campo, questa farebbe da scudo protettivo. Quindi, Kavitha Chekuru e Layla Al-Arian (rispettivamente regista e produttrice, n.d.a.) si sono messe in contatto con i giornalisti palestinesi presenti sul territorio per capire chi avrebbe potuto aiutarci a raccontare quello che stava accadendo, ma lascio a lei il racconto di questa parte.
Se avessimo la stampa di tutto il mondo sul campo, questa farebbe da scudo protettivo.
Per quanto riguarda l’impostazione del documentario, sulle prime era difficile concepire come raccontare la profondità della crisi in corso: non vuoi in nessun modo minimizzare o escludere quello che succede a Gaza. Gli attacchi senza precedenti al sistema sanitario, al sistema educativo, il modo in cui questi stanno cancellando la vita di Gaza in tutti i suoi aspetti (attacchi che la Corte penale internazionale ha indicato come indizi plausibili di genocidio): come puoi a catturare quello che sta succedendo?
La discussione si è evoluta poi nella decisione di seguire diverse famiglie, raccontando quello che era successo loro: anche se molti di noi hanno visto quanto accade a Gaza sui social, attraverso i video brevi che vengono pubblicati, volevamo avere una visione più approfondita della loro vita, restare con queste famiglie più a lungo e utilizzare le loro esperienze come microcosmo della guerra.
SM: Kavitha, siccome sei regista e produttrice del film, vorrei chiederti come è stato girato, dal momento in cui non era possibile entrare a Gaza; mi interessa sia il punto di vista di Fault Lines che di quello dei giornalisti e delle persone coinvolte, che hanno girato il documentario mentre erano soggette agli attacchi.
Kavitha Chekuru: Siamo stati in grado di girare The Night Won’t End unicamente perché a Gaza erano presenti giornalisti. Sin dall’inizio sapevamo di volerci occupare di un attacco aereo, perché è una delle modalità principali con cui questa guerra viene perpetrata. Sapevamo poi di volerci concentrare su un attacco in una cosiddetta “safe zone”; poi a dicembre, quando le truppe israeliane erano ormai entrate pienamente nel nord della Striscia, hanno iniziato a emergere accuse di attacchi contro civili che sventolavano bandiere bianche e di esecuzioni di civili, e abbiamo capito di volerci occupare di uno di questi casi. In sintesi, quindi, abbiamo iniziato a indagare storie diverse per capire poi su cosa avremmo potuto concentrarci.
Il film si conclude con l’attacco alla famiglia Salem e le esecuzioni sommarie di cui è stata vittima ma, solo una volta che abbiamo raccolto questa storia, parlando con i giornalisti che avevano intervistato la famiglia Salem, abbiamo scoperto che, appena una settimana prima, i Salem erano stati vittima di un attacco aereo. Solo così siamo riusciti a individuare il bombardamento dell’11 dicembre che ne aveva distrutto la casa, quello con cui abbiamo deciso di aprire il film, altrimenti non ne avremmo avuto notizia, perché a quel punto erano rimasti pochi giornalisti nel nord della Striscia di Gaza e, di conseguenza, c’era meno materiale a disposizione. Non esistono “condizioni normali”, certo, ma il bombardamento di cui è stata vittima la famiglia Salem è stato di dimensioni imponenti: sono morte più di cento persone, forse duecento, e praticamente non ne esistono testimonianze.
Siamo stati fortunati che Al Jazeera abbia seguito in modo così esteso quello che accade a Gaza, perché è solo per questo che esiste una documentazione di quello che è successo alla famiglia Salem. Per noi, lavorare con i giornalisti di Gaza a Gaza è stato fondamentale: mi augurerei che più organi di stampa cooperassero con loro, in primis perché ci sarebbe una migliore copertura della guerra e, ancora di più, questi giornalisti avrebbero maggiore supporto: ne hanno estremo bisogno ma non ne stanno ricevendo dalla stampa internazionale.
Hanno iniziato a emergere accuse di attacchi contro civili che sventolavano bandiere bianche e di esecuzioni sommarie e abbiamo capito di volerci occupare di uno di questi casi.
Rispetto alle modalità di produzione, abbiamo lavorato con alcuni team di giornalisti a cui inviavamo le domande per le interviste e che si occupano di filmarle. Una volta registrate, ci hanno inviato le interviste: questo aspetto è stato molto complicato da coordinare. Abbiamo lavorato poi con altri giornalisti indipendenti che abbiamo trovato su Instagram, usando le informazioni di contatto che avevano lì; per esempio, per la parte che riguarda le esecuzioni, ho trovato su Instagram un giornalista che si trovava al nord, perché stava facendo un’ottima copertura di quello che stava accadendo in quella zona. Lo stesso vale per altre parti del film, per cui avevamo bisogno di più filmati: anche lì ho trovato i giornalisti su Instagram. E se possiamo farlo noi, può farlo qualsiasi testata: il fatto che non lo facciano dice molto sul mondo del giornalismo.
SAK: Ci siamo occupati molto del coinvolgimento e delle responsabilità degli Stati Uniti, quindi siamo dovuti andare spesso a Washington D.C., per provare a entrare in contatto con funzionari del Dipartimento di Stato e membri dell’amministrazione di Biden che fossero disposti a parlare con noi. Nonostante abbiamo aperto un canale di comunicazione con il Dipartimento di Stato e con la Casa Bianca a gennaio e dato la nostra disponibilità per qualsiasi tipo di intervista per i successivi quattro mesi, entrambi hanno deciso di non interagire con noi. Ricordo che Fault Lines è il più importante programma di attualità in inglese di Al Jazeera, che a sua volta è uno dei network più importanti al mondo; eppure, nonostante questo, hanno deciso di non accettare i nostri inviti. Eravamo presenti alle conferenze stampa del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca; nel documentario si vede il momento in cui provo a parlare con Antony Blinken, Segretario di Stato, senza ricevere risposte. Abbiamo poi raggiunto alcune delle maggiori organizzazioni umanitarie al mondo, intervistando il Segretario Generale di Amnesty International Agnès Callamard, la Mezza Luna Rossa Palestinese, oltre a ex-ufficiali del Dipartimento di Stato, tra cui Josh Paul e Brian Finucane, per discutere del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra. Infine, per condurre una indagine legale dell’uccisione di Hind Rajab e dei suoi parenti ci siamo rivolti a Forensic Architecture e a EarShot, che hanno usato il materiale che avevamo raccolto per le loro analisi.
SM: Com’è stata la logistica della produzione del documentario? E quanto è durata la lavorazione?
KC: Come ha detto Sharif abbiamo iniziato a parlarne a novembre, ma è stato a gennaio che io e Layla ci siamo messe in contatto con le agenzie di produzione palestinesi che avevano i loro team nel nord e nel sud della Striscia di Gaza. Una volta individuati i casi su cui concentrarci, ogni famiglia è stata filmata in due volte, a distanza di un paio di settimane. Le interviste sono state registrate a inizio febbraio, con l’ultima, direi, a fine marzo. Per la parte che riguarda gli Stati Uniti, come diceva Sharif, siamo dovuti andare a DC molte volte, forse troppe, nel corso di due mesi e mezzo, da marzo a maggio. Abbiamo avuto la fortuna di avere a disposizione l’archivio di Al Jazeera, prodotto dai giornalisti sul campo. Lo abbiamo già detto ma crediamo che gli archivi di Al Jazeera dovrebbero essere aperti alla Corte penale internazionale perché contengono tanto materiale che documenta possibili crimini di guerra. Nel caso delle esecuzioni, è lì che abbiamo trovato filmati dei sopravvissuti e dell’ospedale ed è solo grazie ai giornalisti che si trovavano lì che è stato possibile: se non ci fossero stati avremmo avuto una prova in meno su ciò che è successo a quelle famiglie. L’editing è a cura di Adrienne Haspel: si è chiuso all’inizio di aprile, dopo circa due mesi di lavoro – non è lo standard per un documentario di ottanta minuti, ma Adrienne è stata formidabile.
SM: Parliamo del titolo del documentario: “The night won’t end” è una frase che dice Wissam Hamadah, la madre di Hind Rajab, nel corso della sua intervista, parlando di come la notte sembri infinita, come sia sempre tinta di paura. Lo dice bene Sanjana Varghese di Airwars: la distruzione delle case, dei servizi, degli ospedali e delle moschee è la distruzione della possibilità per queste famiglie di pensare al futuro, di pensare al giorno successivo – appunto, come una notte che non finisce mai. Come ha influenzato il documentario la mancanza di prospettiva futura o di una risoluzione attuale?
KC: Sin dall’inizio, osservando i filmati che arrivavano da Gaza, ci ha colpito molto il costante rumore dei droni, che dura per tutto il giorno e la notte. La notte dovrebbe essere un momento in cui si può riposare, in cui i bambini possono stare tranquilli, ma non è più così. Vediamo la distruzione dei servizi, dalle scuole agli ospedali: a Gaza è stato distrutto ogni grammo di vita e non se ne parla quanto se ne dovrebbe, non parliamo di come i palestinesi siano stati privati di tutti gli aspetti della vita e della società. Riguardo al titolo, proprio per quello che ho detto, abbiamo chiesto ai giornalisti incaricati di fare le interviste di domandare alle famiglie cos’è per loro la notte; sono parole di Wissam Hamadah, una donna magnifica e con una enorme capacità espressiva.
Nonostante abbiamo aperto un canale di comunicazione con il Dipartimento di Stato e con la Casa Bianca entrambi hanno deciso di non interagire con noi.
SAK: Osservando i bombardamenti, ci siamo resi conto che molti di questi accadono di notte. Questo avviene per due ragioni: la prima è che i militari israeliani sanno con maggiore sicurezza che le persone si troveranno a casa e che così possono colpirli con maggiore efficacia, causando distruzione e perdite; la seconda è perché la notte è un momento in cui questi attacchi producono maggiore confusione, per via del buio. Sono tante le famiglie che ci hanno parlato di come la notte rappresenti il momento che fa più paura: dovrebbe essere il momento in cui i bambini sognano, ma molti di loro non vogliono addormentarsi. Oday Salem, il figlio di Hiba, nel documentario dice: non abbiamo mai davvero dormito perché volevamo essere pronti in caso qualcosa fosse successo.
SM: Delle storie che seguite, quella di Hind Rajab forse è la più nota, perché, in seguito alla pubblicazione della sua telefonata con la Mezza Luna Rossa Palestinese e all’incertezza su cosa fosse accaduto, ha circolato anche nella stampa tradizionale. La parte in cui ne parlate nel documentario è forse la più difficile da guardare e forse è questa la ragione per cui questo caso è stato molto raccontato. Non so però quanto nella stampa sia stato reso esplicito che, ricevuta la telefonata, la Mezza Luna Rossa Palestinese ha dovuto aspettare tre ore per ottenere l’approvazione dal governo israeliano per inviare l’ambulanza per soccorrerla. Quell’ambulanza poi è stata colpita da un missile anticarro, nonostante, con ritardo, fosse stata approvata e avesse ricevuto anche un percorso autorizzato da seguire, che ha seguito. Avete collaborato con Forensic Architecture per indagare sul caso: vorrei chiedervi di parlare di questo aspetto e del modo in cui questo caso è stato altrimenti raccontato dai media.
KC: In realtà ci sono stati solo alcuni reportage approfonditi sulle testate maggiori: ce n’è uno rimarchevole del Washington Post, poi ABC ha pubblicato qualcosa e CNN ha fatto qualcosa di breve, anche se è stata la prima testata a mostrare le immagini satellitari in cui era chiaro che al momento dell’uccisione di Hind e della sua famiglia, un carro armato israeliano era presente nell’area. Ma questo è quanto, più o meno: è sconvolgente che non ci siano state più indagini approfondite da parte delle testate. Quando la nostra collega Shireen Abu Akleh è stata uccisa nel maggio del 2022 a Jenin, in Cisgiordania, molte testate hanno svolto indagini approfondite, dal New York Times al Washington Post ad Associated Press a CNN. Quando più volte al Dipartimento di Stato sono state poste domande su questo caso, Matthew Miller, il portavoce, ha detto – e si vede nel documentario – che il Dipartimento aveva chiesto all’esercito israeliano se era coinvolto e questo aveva risposto che non erano nell’area: non c’è stata ulteriore pressione da parte della stampa o forse chi avrebbe fatto pressione non è stato lasciato parlare. Tuttavia, ci troviamo di fronte a delle bugie plateali – perché ci sono prove visive della presenza israeliana, grazie alle immagini satellitari, e la telefonata in cui due bambine terrorizzate ripetono all’operatore della Mezza Luna Rossa che accanto a loro c’è un carro armato – ed è sconvolgente che non ci siano articoli che dicono questo, cioè che il Dipartimento di Stato mente, che l’amministrazione Biden mente, che l’esercito israeliano prende di mira civili.
SAK: Il caso di Hind Rajab non è un caso limite o isolato. Il targeting di civili è comune: nel documentario mostriamo filmati che testimoniano molteplici casi in cui civili sono colpiti da un drone o da un missile. Un’altra cosa comune è negare ai palestinesi l’arrivo di ambulanze che soccorrano i feriti – e anche questo aspetto avrebbe bisogno di maggiore copertura. Abbiamo dedicato il documentario ai giornalisti di Gaza e citato tre dei nostri colleghi di Al Jazeera che sono morti nel conflitto: uno di questi è Samer Abudaqa. Samer Abudaqa è morto perché c’è stato un attacco israeliano su una scuola dove lui e il capo dell’ufficio di Al Jazeera a Gaza City, Wael Al-Dahdouh, erano andati per documentare le conseguenze di un precedente attacco aereo. Avevano dato agli israeliani le coordinate del luogo in cui stavano andando e arrivati nella zona, dove c’erano solo macerie, sono stati colpiti. Wael Al-Dahdouh è riuscito a evacuare la zona, ma le ferite di Samer Abudaqa erano troppo gravi perché riuscisse a muoversi. Una volta arrivati in ospedale, Wael Al-Dahdouh e i giornalisti di Al Jazeera hanno passato cinque ore a supplicare gli israeliani perché lasciassero andare un’ambulanza: nell’attesa Samer Abudaqa è morto dissanguato. Tutto questo è stato trasmesso in diretta: Al Jazeera ne ha dato la notizia e i giornalisti di tutto il mondo erano al corrente di quello che stava accadendo. Noi stavamo provando a comunicare i nostri contatti militari israeliani perché dessero l’autorizzazione all’ambulanza al soccorso, soccorso che è stato negato, e l’ambulanza che ha tentato comunque di arrivare da Samer Abudaqa è stata colpita. Succede di frequente che le unità di soccorso vengano prese di mira quando stanno andando a soccorrere i feriti: questo è un crimine di guerra.
SM: Continuando su questo tema, mi pare che un aspetto che il documentario mette in evidenza è che gli eventi su cui vi soffermate – il bombardamento in cui muoiono il figlio e la moglie di Abdullah Al Ghaf, le esecuzioni e le torture di cui sono vittime i membri della famiglia Salem, l’uccisione della stessa Hind Rajab – fanno parte di una storia più lunga di violenze e di sopravvivenza. Nel caso della famiglia Al Ghaf, il figlio maggiore si salva dal bombardamento, ma le ferite che riporta lo costringono a una agonia di venticinque giorni al Nasser Hospital, senza la possibilità di assumere antidolorifici, per essere poi portato in Egitto, lontano dalla famiglia, dove muore pochi giorni dopo. O appunto, parlavamo del bombardamento che distrugge la casa dei Salem e che li costringe a rifugiarsi dai parenti: è dopo aver scampato il primo attacco che si trovano assediati dai militari israeliani per una settimana, senza acqua potabile, e infine a subire le torture e le esecuzioni sommarie. Nisreen Qawas, la psicologa che è al telefono con Hind Rajab, si chiede se non ci siano centinaia di Hind di cui non abbiamo notizia e di cui non leggiamo nelle notizie.
KC: Il video di Abdullah Al Ghaf che torna dalla famiglia dopo aver comprato un biscotto ai datteri per il figlio per trovarli morti e che mette il dolcetto nelle mani del bambino, ormai nel sudario, è diventato virale; in tanti abbiamo visto quelle immagini terribili – e non è l’unico video di questo tipo. In questo caso volevamo sapere più su quanto era successo: i giornalisti sul campo hanno scoperto non solo che l’attacco era avvenuto in una safe zone, ma anche quello che era successo all’altro figlio, Mohammed. Su Al Jazeera e ancora di più sui social vediamo questi momenti di orrore, ma quello che è ancora più orribile è rendersi conto che sono solo la punta dell’iceberg. Ci sono molti aspetti di questa guerra che si intersecano tra loro: per esempio non abbiamo indagato direttamente gli attacchi agli ospedali, ma Mohammed Al Ghaf è stato vittima non solo di un attacco aereo, ma anche dell’attacco al sistema sanitario, perché al momento in cui è stato ricoverato, il Nasser Hospital era al di là delle sue possibilità di offrire soccorso, non aveva più terapie o medicine disponibili da somministrargli. È come se fosse stato ucciso due volte.
Gli archivi di Al Jazeera dovrebbero essere aperti alla Corte penale internazionale perché contengono tanto materiale che documenta possibili crimini di guerra.
SAK: Per tanti versi la situazione ha solo continuato a peggiorare. Da quando abbiamo iniziato a lavorare al documentario, il servizio sanitario non ha smesso di essere sotto attacco. Quando a Mohammed Al Ghaf viene concesso di andare in Egitto per ricevere cure è troppo tardi; adesso l’accesso all’Egitto è chiuso, perché gli israeliani hanno invaso Rafah, superando quello che doveva essere il limite concesso dall’amministrazione Biden per continuare a dare il suo supporto. Oggi per i feriti è praticamente impossibile ricevere cure se non dopo molte settimane. Questo weekend abbiamo visto uno degli attacchi con più morti in una cosiddetta safe zone, che ha ucciso novanta persone e ne ha ferite più di trecento (l’intervista è stata registrata il 15 luglio, Sharif si riferisce all’attacco ad Al-Mawasi, dichiarata dalle autorità israeliane zona umanitaria, n.d.a.). Queste zone sicure sono affollate, perché è qui che i palestinesi sfollati vanno in cerca di rifugio. La cosa più terribile è che da parte delle testate principali c’è un calo nella copertura del conflitto, copertura che pure è presente a momenti, ma negli ultimi mesi l’attenzione si è spostata altrove, per esempio qui negli Stati Uniti sulle elezioni presidenziali. Gaza è sempre meno sui giornali e, mentre l’attenzione svanisce, in Palestina si assiste a una escalation di violenza, anche perché la mancanza di attenzione permette una violenza maggiore.
SM: Torneremo di nuovo sull’atteggiamento della stampa, ma prima volevo chiedervi di parlare del lavoro investigativo fatto per il film, con Forensic Architecture, Earshot e Airwars.
KC: Per noi è stato un onore lavorare con loro. Quando ti trovi di fronte a qualcosa di così catastrofico come questa guerra è ancora più importante che i giornalisti provino a stabilire questo tipo di collaborazioni, perché ampliano e danno forza al lavoro della stampa. Quando abbiamo parlato con Airwars a gennaio non avevamo ancora deciso di concentrarci sull’attacco del 11 dicembre: li avevamo contattati per chiedere loro se ci fossero stati attacchi che erano saltati ai loro occhi per qualche motivo da poter indagare, ma a gennaio stavano ancora analizzando gli attacchi del solo mese di ottobre, per via del loro enorme numero. Quando poi abbiamo scoperto del bombardamento dell’11 dicembre che ha coinvolto la famiglia Salem, abbiamo condiviso con loro tutte le informazioni che avevamo e da là hanno iniziato le indagini. Su Forensic Architecture: a metà marzo ci trovavamo a Londra per intervistare il Segretario Generale di Amnesty International Agnès Callamard e io e Sharif siamo andati da Forensic Architecture con il caso di Hind.
Su Al Jazeera e ancora di più sui social vediamo questi momenti di orrore, ma quello che è ancora più orribile è rendersi conto che sono solo la punta dell’iceberg.
SAK: Durante tutto il lavoro giornalistico e soprattutto nel caso delle esecuzioni arbitrarie, abbiamo voluto essere il più attenti possibile a trovare prove, per poter parlare con un altissimo grado di accuratezza, con quante più prove a sostegno. Le nostre analisi dei casi di Hind Rajab e delle esecuzioni sono le più onnicomprensive, quelle che hanno il maggior numero di testimonianze (su Hind Rajab, qui il caso, su Forensic Architecture, qui su EarShot; qui Airwars sulla famiglia Salem – n.d.a.). Ci sono prove schiaccianti per dimostrare che Israele è colpevole di attacchi su civili, ma, nonostante questo, queste accuse non sono prese sul serio dagli Stati Uniti, mentre invece, all’inverso, la più fragile delle accuse nei confronti dei palestinesi produce enormi ripercussioni; quando Israele ha suggerito che alcuni dei migliaia impiegati dell’organizzazione umanitaria Unrwa avessero legami con gli eventi del 7 ottobre, gli Stati Uniti hanno deciso di tagliare i finanziamenti a quella è la più importante organizzazione umanitaria per i palestinesi – non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. Questo ha avuto effetti da cui devono ancora riprendersi: António Guterres, Segretario delle Nazioni Unite, ha da poco parlato a un evento per raccogliere donazioni per Unrwa. Queste accuse non sono state ancora provate. Abbiamo poi visto Biden dichiarare, falsamente e più volte, di aver visto foto di bambini decapitati, senza che di questo ci sia alcuna prova. Dall’altra parte, anche quando le prove che dimostrano i crimini di guerra di cui si è macchiato Israele sono schiaccianti, gli Stati Uniti continuano a fare riferimento a “indagini svolte dagli israeliani”: nel caso di Hind Rajab, il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, interrogato da Forensic Architecture sui risultati di quella indagine di cui ha parlato più volte, ha risposto che gli israeliani continuano ad affermare che quel giorno non si trovano nell’area e che poi stavano aspettando informazioni da parte della Mezza Luna Rossa Palestinese e delle Nazioni Unite. Né la Mezza Luna Rossa né le Nazioni Unite sono mai state interpellate da Israele sul caso di Hind Rajab: ci è voluta solo una telefonata per scoprirlo. E ci sono tutte queste prove che mostrano che i militari israeliani erano lì – ci sono immagini satellitari, testimonianze, e le analisi balistiche. C’è solo una faziosità incredibile
SM: Quello della connivenza degli Stati Uniti e della impunità offerta a Israele è uno dei temi portanti del vostro documentario. Dal momento che è prodotto da Fault Lines, vorrei parlare della posizione che questo documentario occupa all’interno del dibattito occidentale, in cui continuano ad essere offerte giustificazioni a un paese alleato. Pensavo all’articolo che Pankaj Mishra ha scritto per London Review of Books, The Shoah After Gaza: “Quando i leader israeliani paragonano Hamas ai nazisti o i diplomatici israeliani indossano la stella gialla alle Nazioni Unite, il pubblico a cui si rivolgono è quasi esclusivamente quello occidentale.”
KC: Prodotto da Al Jazeera, che ha ovviamente seguito questo conflitto fin dall’inizio, Fault Lines solitamente ha come focus gli Stati Uniti. Di conseguenza, quando abbiamo scelto le storie a cui dedicare l’attenzione, volevamo che queste ci permettessero di parlare del ruolo degli Stati Uniti. Usi la parola “impunità”: se volessero, gli Stati Uniti potrebbero fermare questo conflitto, ma sin dall’inizio non hanno mostrato questa volontà, dicendo implicitamente all’esercito israeliano di fare ciò che voleva – e non solo: che non ci sarebbero state conseguenze e che l’invio di armi sarebbe continuato. Questa impunità dura da ben prima della guerra: nel film parliamo della Leahy Law, una legge nazionale che esiste dai tardi anni Novanta, il cui obiettivo è quello di assicurare che l’assistenza militare fornita dagli Stati Uniti non sia offerta a eserciti che commettono abusi. Il processo per l’applicazione della Leahy Law è questo: gli Stati Uniti esaminano l’unità a cui deve essere fornita assistenza militare prima che questa venga fornita, per confermare che non ci siano accuse di violazione dei diritti umani che possano essere ritenute credibili. Nel caso di Israele, però, la legge non è mai stata applicata, anzi, succede l’opposto. C’è addirittura un termine in uso al Dipartimento di Stato: “Israele Leahy Vetting Forum” (ILVF, qui, qui e qui – n.d.A.): l’assistenza militare viene offerta senza che sia stato eseguito alcun controllo e poi aspettano che arrivino eventuali accuse; tuttavia la Leahy Law non è mai stata applicata nei confronti di Israele, nonostante la fondatezza delle accuse di abusi. Lo spiega molto bene Josh Paul nel film: se gli Stati Uniti avessero applicato questa legge in passato, oggi non assisteremmo a quello che stiamo vedendo. Non vedremmo, per esempio, i soldati israeliani postare video dei loro stessi crimini di guerra su TikTok: se il loro comportamento è così sfacciato, è perché sanno che non ci saranno ripercussioni. E questo è responsabilità degli Stati Uniti.
SM: Voglio tornare sulla vostra posizione di giornalisti in un contesto, quello statunitense, il vostro, in cui non sembra esserci una quantità sufficiente di prove in grado di cambiare la politica degli Stati Uniti, proprio perché è una questione di volontà, e in cui le testate di maggiore rilievo usano espedienti retorici per parlare della Palestina, dall’uso della voce passiva, alla richiesta delle redazioni di non usare parole come “territori occupati” o “genocidio”, alla sproporzione di attenzione dedicata alle vittime israeliane rispetto a quelle palestinesi, e in generale il favore accordato al punto di vista israeliano. E poi gli articoli con ben poche prove e fonti verificate usati per giustificare l’invasione della Striscia di Gaza e il fatto che nessuna delle altre testate principali abbia esaminato quelle fonti o smontato le accuse, né questo abbia minato la credibilità di queste voci. Penso a “Screams without words”, l’inchiesta sugli stupri di massa da parte dell’esercito di Hamas durante gli attacchi del 7 ottobre, poi smentito unicamente da The Intercept senza che il New York Times abbia perso credibilità – anzi, è stato anche premiato per la sua copertura del conflitto
SAK: “Screams without words” è stato inserito nell’elenco di inchieste che ha valso al New York Times il George Polk Awards 2023 nella categoria Foreign Report. In generale la copertura del conflitto da parte del New York Times è chiaramente problematica, non vale solo per quel pezzo. È molto frustrante ed è un elemento che da tempo caratterizza il modo in cui stampa americana e occidentale parla della Palestina – penso perché Israele è per loro un alleato importante e gran parte della stampa mainstream non si discosta molto da quelle che sono la prospettive politiche delle amministrazioni in carica, il che è un grande problema. Penso, però, che per quanto sia frustrante è cruciale continuare a parlare di Palestina e che farlo abbia un effetto. Dobbiamo essere cinici, ma nutrire comunque la speranza: c’è una ragione se abbiamo visto un’espressione di solidarietà senza precedenti nei confronti della Palestina e che accada adesso, negli Stati Uniti e in tutto il mondo occidentale, non solo nel sud del mondo. E accade solo perché le persone sanno cosa sta succedendo, perché continuiamo a parlarne. Dobbiamo pensare a cosa ci troveremmo davanti se non avessimo avuto l’ottimo lavoro di reportage che abbiamo avuto, grazie a tutte le storie che sono uscite – senza di questi, dove saremmo? Dobbiamo continuare il nostro lavoro e rendere onore al coraggio resistente dei giornalisti palestinesi a Gaza, sui quali cade il peso di tutta questa copertura mediatica.
SM: Vorrei chiudere la conversazione parlando dell’importanza degli smartphone, che sono una presenza costante per tutto il documentario. Sono non solo il mezzo attraverso cui i giornalisti e le persone che si trovano a Gaza riescono a farci arrivare le loro storie, ma in molti casi anche l’unico luogo in cui sono conservati i ricordi dei propri cari.
KC: Tante di queste famiglie hanno dovuto sfollare tante volte e tutti i loro beni e i loro ricordi fisici sono ora perduti o distrutti. Non hanno più foto stampate: tutto quello che è rimasto è sul loro telefono ed è terribile pensare a cosa succede se il telefono viene perso o si rompe – all’improvviso si trovano senza più le foto della loro famiglia. E anche fuori da Gaza è sul telefono che vediamo queste notizie. Quando la nostra crew ha intervistato la madre di Hind, aveva solo poche foto della figlia sul suo telefono. Ci ha detto che suo marito ne aveva molte di più; abbiamo provato a contattarlo, ma poi ci hanno detto che era morto in un attacco.
Se volessero, gli Stati Uniti potrebbero fermare questo conflitto.
SAK: Vorrei aggiungere solo che i giornalisti con cui abbiamo lavorato hanno subito perdite e danni inimmaginabili: hanno perso familiari, sono sfollati, hanno fame e sono tutti soggetti ad attacchi mirati. Un giornalista freelance con cui abbiamo lavorato, Abdel Qader Sabbah, è stato di recente soggetto a una campagna di diffamazione da parte di HonestReporting, una organizzazione di destra pro Israele. Abdel Qader Sabbah è un giornalista professionista che lavora con Associated Press e CNN e altri organi di stampa: HonestReporting ha dichiarato che ha legami con Hamas, per via di alcune sue foto con dei leader di Hamas – avere quelle foto è piuttosto comune a Gaza – e questo ha portato la CNN a rescindere i rapporti con lui, un gesto che legittima le accuse nei suoi confronti. Questi giornalisti sono presi di mira: questo è un’altro caso in cui una istituzione del giornalismo accetta senza neppure discutere accuse nei confronti di un giornalista palestinese e senza che siano fornite prove: così scredita un giornalista che rischia la vita per raccontare queste storie e gli attacca un bersaglio sulla schiena. Non aver riconosciuto e sostenuto il lavoro di questi giornalisti a Gaza rappresenta un enorme fallimento della stampa di questo paese e ha anche permesso una sequenza mai vista prima di uccisioni di giornalisti che lavorano là.