O gni giorno, una drag queen si sveglia e sa che dovrà performare meglio della sua collega. Sembra questa la filosofia del programma RuPaul’s Drag Race, in cui diverse drag devono sfidarsi a colpi di recitazione, sfilata, ballo. Gli indossatori del genere femminile devono dimostrare di possedere i talenti propri dell’instabile identità drag: interpretare una canzone registrata come se vibrassero le proprie corde vocali (il lipsync), praticare l’arte dell’insulto (il reading), evocare col proprio corpo la quintessenza di una diva e la sua parodia, da Marlene Dietrich a Cher. Grazie alle quattordici stagioni del talent americano, la cultura underground drag ha iniziato a diramarsi nel mainstream; RuPaul, queen conduttrice e mother del reality, ha abbassato il ponte levatoio e accolto nelle fortezze culturali gay, a volte queer, il grande pubblico. In una dialettica di perdita e guadagno, il drag ha smarrito brandelli di erotismo e politica nell’incontro con l’alterità-non-drag e trovato popolarità, visibilità e nuove meravigliose contraddizioni. Questo processo di “disneyficazione” del drag ha concesso al prodotto rupauliano di approdare in diversi Stati: Thailandia, Gran Bretagna, Canada, Olanda, Spagna e, nel 2021, Italia.
Drag Race Italia è germogliata nello sgomento dei reazionari italiani e nella loro denuncia di “una propaganda LGBT”; è stata modellata nella tensione tra il kitsch glam del programma d’origine e il gusto melò del telespettatore italiano. Tra ciò che è rimasto dell’American drag dream nel format italiano c’è la struttura: ogni puntata è divisa in mini, maxi sfida ed eliminazione finale, valutate dai giudici e dalla presentatrice in drag. Sulle loro spalle e su quelle delle partecipanti hanno gravato tutte le responsabilità delle prime volte. La drag culture che orbita attorno alle performance di parodia e problematizzazione dei generi sessuali ha vissuto l’avvento della race in Italia come un evento epocale. Come si fa per la nascita del primogenito, era in sala d’attesa, irrequieta, da anni; avrebbe potuto finalmente presentare più esperienze drag – in una versione edulcorata e commerciale, certo – a chi ancora non le amava: il grande pubblico, televisivo per giunta. La speranza di questo microcosmo era che l’arte e l’ironia drag venissero valorizzate anche in Italia e che la performance riuscisse a inaugurare un discorso contro la violenza dei dualismi e delle semplificazioni.
In una dialettica di perdita e guadagno, il drag ha smarrito brandelli di erotismo e politica nell’incontro con l’alterità-non-drag e trovato popolarità, visibilità e nuove meravigliose contraddizioni.
In questo clima di aspettative, l’intervista per Gay.it di Priscilla, regina presentatrice (“host” nel linguaggio drag) di Drag Race Italia, è stata elaborata come un tradimento. La queen napoletana, popolare a Mykonos, aveva un ruolo pedagogico nei confronti delle sette concorrenti del talent show: in una fantasia da fata madrina, doveva guidare le protagoniste della Race con suggerimenti estetici e performativi e decretare, ad ogni episodio, la vittoria o sconfitta di una di loro: una deus ex machina dalle aspirazioni genitoriali. Questa figura ha rappresentato anche l’anello di congiunzione tra cultura mainstream e underground, poiché era l’artista a moderare l’incontro tra diversi corpi drag e il pubblico della televisione generalista.
“Ora mi sono fatto un’idea molto più vasta del panorama drag italiano attuale. Le nuove generazioni sono un po’ troppo presuntuose.” Priscilla ha pronunciato una sorta di omelia funebre del drag in Italia; eppure, lo vediamo calcare la passerella di un tempo che lo incarna. In un momento in cui l’essenza di ogni cosa si è sgretolata e, magicamente, è evaporata, la performance drag ci mostra che abbiamo perso qualcosa che non possedevamo: tutto ciò che abbiamo spacciato per “naturale”, i fondamenti della nostra identità (anch’essa evaporata), vista innanzitutto come maschile o femminile, lo abbiamo costruito culturalmente. Abbiamo creduto a una bugia collettiva per non fronteggiare il molteplice. Il drag ci rivela questa bugia attraverso un’altra bugia – estetica stavolta – e urla che va bene così, gioca sul terrore umano di non avere più dogmi e punti fermi, ci mostra quale libertà derivi dall’eliminare le polarizzazioni. È il modo per vedere che l’essenzialismo ci ha traditi e per elaborare questo tradimento, sintomo e cura, sé stesso e la sua gogna.
Che il drag viva e transiti nelle contraddizioni, in una dinamica dal gusto tutto contemporaneo, si è reso ancora più evidente nella polemica seguita alle dichiarazioni di Priscilla. Ora non è più possibile ignorare il rumore del sommerso, la capillarità di un contrasto da sempre presente nella storia del drag. Quest’arte, che è terrorismo contro i dualismi, è a volte dicotomica: esiste un old e un new school drag e una rottura tra loro, visibile nel contrasto tra Priscilla e le altre. L’idea di “old school” e “new school” non si lega necessariamente all’esperienza, all’estetica o all’età ma a un metodo e una forma dentro cui ci perderemo, vestendoci da Alice e scoprendo quanto è profonda la tana del dragconiglio. Nelle parole di Priscilla, quindi, leggiamo una critica nei confronti del panorama drag italiano, delle nuove performer, dell’arretratezza artistica italiana rispetto all’estero. Molte artiste, comprese le partecipanti alla race italiana, hanno subito reagito tramite dirette social, meme, storie di Instagram.
Dalla seconda metà del Novecento, a Parigi, le artiste ‘en travesti’ s’identificavano con la transessualità e iniziava a delinearsi un ulteriore livello di profondità del travestitismo: qual è il rapporto tra identità di genere, sesso e performance drag?
“Secondo i nostri predecessori (i ‘veri’ travestiti), non siamo niente di più che civette senza talento, buone solo per mostrare il nostro corpo.” Questa frase ci catapulta già nella complessità perché non viene dal new drag: è una considerazione di Bambi, performer del Carrousel, locale parigino di travestiti del Novecento. Nel 1954, i suoi spettacoli en travesti, come quelli di Coccinelle e Capucine, venivano visti di cattivo occhio dalla vecchia guardia del Carrousel e del travestitismo scenico in generale. No, nessuna passivo-aggressività, era guerriglia da camerini tra vecchio e nuovo: insulti, lamette nei pennelli del cerone, fuoco appiccato sulle piume degli abiti delle altre. I vecchi travestiti, i “trasformisti” che si muovevano nella sfera della comicità e del grottesco, vedevano nell’innovazione la fine, non potevano concepire un modo altro di spettacolarizzare il genere. Eppure, quel modo era un corpo davanti ai loro occhi, sessuato e glam, i cui margini tra pubblico e privato, identità e performance si distorcevano, i confini sbiadivano per svanire e riapparire. Dalla seconda metà del Novecento, a Parigi, le artiste en travesti s’identificavano con la transessualità e iniziava a delinearsi un ulteriore livello di profondità del travestitismo, il non detto diveniva urlo: qual è il rapporto tra identità di genere, sesso e performance drag?
Lasciamo che la domanda ci risuoni dentro e ritorniamo al futuro; ancora oggi il vecchio e il nuovo drag si scontrano in una storia non lineare che si muove per morsi e salti. Come avveniva nel Novecento, anche l’old school del presente salda la propria identità e, in una dinamica bellica, si pone in contrapposizione con un’alterità percepita come mancante. L’old guarda a un mitologico passato con una malinconia che non crede il new school possa comprendere, immerso com’è nella meraviglia infantile. E ha ragione: il new school attuale è una bambina che si annoia nel definirsi e si anima nella relazione con l’alterità. Cerca altri spazi, altri modi di essere con l’altro, fuori da competizioni e poteri, altre decostruzioni non più del femminile ma del concetto di genere. È già avvenuto: il vecchio drag taccia il nuovo di essere smemorato e superficiale, il nuovo dimostra il proprio amore per la memoria e la profondità con la dissacrazione e il dubbio.
Partiamo da questa prima crepa, da questa compenetrazione tra passato travestitico anni Cinquanta e presente drag, dalle loro analogie. Le parole di Bambi non ci interessano soltanto per imbrattare l’idea cristiana di storia teleologica, ma anche per mettere in crisi l’idea di “morte del drag” italiano contemporaneo. Seppellirlo adesso significherebbe dire addio a un corpo della postmodernità, tatuato di natura e artificio, di migliaia di altre scritte che non si leggono più perché ricoperte di scarabocchi. Non solo in una realtà complessa il drag fornisce visioni complesse della realtà, ma è anche il mezzo di propagazione di queste visioni: il suo linguaggio si articola sulla necessità aspaziale e atemporale di sovvertire le gabbie culturali; per questo, riesce ad accogliere ogni soggetto, mostra e diffonde le pratiche queer oltre gli argini della comunità LGBTQIA+; nel pastiche e nel gioco radicali, si rende universale.
Non solo il drag fornisce visioni complesse della realtà, ma è anche il mezzo di propagazione di queste visioni: il suo linguaggio si articola sulla necessità aspaziale e atemporale di sovvertire le gabbie culturali.
“[Le nuove generazioni] spesso cominciano questa professione come puro divertimento, iniziano subito ad esibirsi, non fanno la gavetta e si sentono arrivate”, leggiamo dall’intervista di Priscilla. Che vuol dire avere nostalgia di un’arte drag passata, della gavetta, dell’umiltà? Rimpiangere il “vero drag”? La morte del drag così raccontata ci ricorda quella “del maschio”. La destra radicale e i segmenti reazionari della società del secondo dopoguerra denunciavano la graduale scomparsa del “vero maschio”, dei “vecchi fusti”; Il Borghese, ad esempio, disegnava una serie di idealtipi nostalgici di una mascolinità coraggiosa e onorevole che veniva messa al bando dai controtipi dell’epoca, femminilizzati ed erotici. “La trasformazione della storia in natura, dell’arbitrio culturale in qualcosa di naturale” è un processo che ha nutrito la paura nei confronti di ciò che eludeva – parzialmente – le strutture del dominio maschile. Ergendo l’uomo virile che feconda, paga e protegge a punto zero e neutro del discorso, il resto, ciò che va oltre questa mitologia o non crede alla favola essenzialista, è devianza, declino, morte della “verità”. Ma il “maschio” era già falso e vuoto, costruito su basi culturali; si tratta, come per il drag, della morte di un cadavere. Entrambe le esperienze corporee e instabili, entrambe le performance non si lasciano ingabbiare in definizioni; il tentativo di catalogare il drag, passato e non, come fosse una pietra di aggettivi, nasce sotto il segno del fallimento. Perdiamo se siamo alla ricerca della naturalità del maschio e del drag, non rispondono ad alcuna normativa che non sia della mutazione in una cultura in mutazione. Sono diversi, certo, ma sono entrambi fantasmi: il drag è dicotomia e il suo superamento, assenza e presenza del genere sessuale; ogni volta che ci focalizziamo sulla sua vita ne riconosciamo la morte. Quindi come possiamo guardarlo senza attributi monolitici? In trasparenza, lasciamogli la dignità di essere spettro.
Se le profezie funeree sul drag non si sono avverate nel Novecento o, meglio, si sono avverate in continuazione, allora non avevano una fondatezza contingente né un peso ontologico (se qualcosa può averne). I presagi di lutto non provenivano dall’analisi della realtà ma dai terrori e dalle fascinazioni, dalle percezioni del tempo – e di oggi. Fortuna che sono loro a immergerci ancor più in profondità di un fenomeno rispetto alla sua osservazione; la “morte del drag” non ha valore, ma piangerla sì. È ciò che vediamo in controluce nelle parole di Priscilla: una perdita immaginaria che si espande in cerchi concentrici di significato, fuori e dentro il tempo e lo spazio, micro e macrocosmi, come in uno stagno che è un ibrido tra terra e acqua ed è loro e altro.
Insomma, se il drag non muore o è morto già, quali sono i cerchi reali del conflitto? Cerchio uno: Estero vs. Italia: “Non c’è nessuna drag italiana, al momento, che potrebbe affacciarsi all’estero”, dice Priscilla. Ciò che dovrebbe guidare la vita artistica del drag italiano è l’Estero; il metro di giudizio del successo è Altrove perché il drag non è italiano. Ho intervistato alcune artiste che si definivano “en travesti” mentre indossavano un altro genere e non volevano essere associate al drag perché “non c’entravano nulla con l’America”. È innegabile l’influenza che gli Stati Uniti e il reality RuPaul’s Drag Race hanno esercitato sull’espressione e il linguaggio della parodia dei generi in Italia negli ultimi quindici anni. Ma non dovremmo cancellare la storia specifica del drag italiano: schiudiamo una porta sul fenomeno se ci affacciamo alle feste del deputato Vincenzo Cicerone all’epoca della dolce vita. “Alla luce di un paralume rosa a pagoda, si sforzava di eccitare gli ospiti sollevando un lembo del suo paludamento per mostrare le gambe, completamente depilate, e i piedi con le unghie rosse di smalto”, scrive di lui Giò Stajano. E Cicerone non era il solo: Marziano II di Lavarello, il barone Langheim, in diverse case del secondo dopoguerra, si ballava in un’estetica drag ante litteram. Nelle case di tutti gli italiani, invece, nelle domeniche dall’odore di ragù, sono entrate le Sorelle Bandiera, il trio drag anni Settanta della trasmissione L’altra domenica, il “precedente” per eccellenza. Insomma, a prescindere da tutte le figure che possiamo evocare, in Italia si è fatto / si è state drag anche senza importazione. E, per complicarci tutto ancora, il microcosmo nasce e fluisce fuori dalle derive stataliste: le performer sono, fin dal secondo Novecento, in un tour perenne, i locali si scambiano artiste, il fandom applaude (schiocca le dita) per performance transnazionali. I cultisti del drag non cedono alla tentazione di guardare solo ciò che hanno a portata di mano.
Quindi, se l’Estero non è origine e addirittura non ha troppo senso parlare di Estero e Italia, perché aspirare, per avere successo, a questo glitch dell’Altrove? Perché lavorare come drag all’Estero ha un riconoscimento economico maggiore rispetto all’Italia, almeno a livello percettivo. I soldi incoronano l’Estero autorità. Ma porre l’autorità del capitale all’esterno, come l’occhio panottico, ha delle conseguenze sociali e pedagogiche.
Perdiamo se siamo alla ricerca della naturalità del maschio e del drag, non rispondono ad alcuna normativa che non sia della mutazione in una cultura in mutazione.
Cerchio due: Autorità vs. altramaternità. “Non sarò più transigente, per rispetto nei confronti della mia gavetta, di me stessa e del pubblico, che merita un prodotto di alto livello. Non devono esserci sbavature. E lo farò anche per il loro bene, anche se quelle poche volte che sono stata un po’ più rigida con la prima stagione loro mi hanno schifata”, afferma Priscilla nell’intervista.
L’autorità si configura nel 2022 su linee di mercato, nomina il prodotto, crede nella perfezione e in una rigidità a tenuta stagna. La formazione e il miglioramento dell’artista non avvengono se non in un’ottica di guadagno e perdita che cancella le instabilità, i dubbi e le complessità del singolo, il suo essere (post)umano. Il “computo e monetarizzazione del tempo”, per dirla alla Bauman, diviene un processo non più arginabile ai contesti di produzione e straripa nei luoghi del gioco e dell’autodeterminazione. La pedagogia nera, fatta di autorità, obbedienza ed economia, volge spesso lo sguardo a uno standard artistico: edifica un modello che non tiene conto dell’utopia sovversiva coltivata dalla drag culture, del fatto che oltre l’arcobaleno vuole trovare la dissoluzione dei paradigmi, non gli stessi ribaltati e rivestiti di glitter. Competizione, esclusione, guadagno: come si possono tatuare sulla pelle di un fenomeno queer? Voler legare, in modo consapevole, queste parole a chi rifiuta una costruzione stabile e semplicistica delle identità, figurarsi se sulle logiche capitaliste, suona da minaccia neoliberista.
“Da persona queer, non riconosco l’autorità” afferma Ava Hangar, drag performer. Il nuovo drag non si basa sul principio di autorità ma su quello di altramaternità. Cioè? “Le comunità africane e afro-americane hanno riconosciuto che attribuire a una persona la piena responsabilità della maternità di un bambino potrebbe non essere saggio o possibile. Di conseguenza, le othermother (le donne che assistono le madri di sangue condividendo le responsabilità materne) sono state tradizionalmente al centro dell’istituzione della maternità nera.” L’othermothering riconcettualizza le istanze nativiste e biologiche familiari, riconosce una responsabilità comunitaria nella formazione dell’individuo e dissemina la maternità in più soggetti. Per la crescita di un soggetto drag, complesso com’è, e per la cura verso ogni sua sfumatura, non può bastare la madre che l’ha partorito, sono necessarie le storie di chi è parte di quel mondo, la polifonia di vissuti. Ha bisogno di qualche madre che gli dica che fa schifo e di andare avanti così. “Crescete più che potete, cercate una spalla, continuiamo a darci una mano”, Fay Skifo come corpo drag materno si appella a questi principi per rispondere alle critiche di Priscilla. Questa pedagogia drag è il riconoscere che esistano letture multiple e che nessuna pratica discorsiva possa catturare e controllare l’identità del soggetto o le pratiche pedagogiche stesse.
Cerchio tre: Forma vs contenuto. Inabissiamoci ancora: l’altramaternità è una pratica queer. Non solo per il contenuto costellato di molteplicità, ma per la forma. Anzi, in questa pratica queer i confini tra forma e contenuto si rendono nebbia che inghiotte le polarizzazioni. Ava Hangar, nel rispondere a Priscilla, recita una preghiera di empatia e apertura. Il metodo drag si misura costantemente in un esercizio di equilibrismo tra ironia universale dissacrante e riconoscimento profondo di qualsiasi alterità. Paradossalmente questa relazione con l’Altro si pone in rotta di collisione con alcune realtà associative che si proclamano queer ma aggrediscono ciò che reputano “estraneo” (quanto sarebbe facile parlare delle TERF?). A volte, negli istanti della performance, il drag invece riesce a oltrepassare il dualismo originale: noi e loro. La nuova forma drag ascolta, gioca, accoglie e si lascia accogliere nell’altro; a morte gli oggetti che sono mutevoli, è lei, la forma, al centro del discorso ai margini. Perché non si può essere queer senza cura.
La linfa del drag scorre nello spazio dove c’è alta tensione, nella sua frammentazione; la sua espressione è piena solo quando afferma e trasforma e nega e si contraddice.
“Non dimenticate che avete tutti questi diritti grazie alle nostre lotte”, l’omosessualità rinfaccia al queer in una dialettica mai risolvibile che rimbomba nella polemica di Priscilla. La spaccatura della comunità drag appare come lo specchio tornasole di quella interna all’universo LGBTQIA+. Mentre nel new school drag forma e contenuto si confondono, l’old si riempie di contenuto: da filosofia affermativa mira a costituire un’identità e una cultura comuni, armi che possano scalfire lo status quo e immaginare nuovi paradigmi, non più discriminatori e coercitivi. Se l’old school risiede nelle teorie che sorreggevano le prime rivendicazioni omosessuali e della New Left in generale, il new school tenta di divenire un insieme di pratiche queer che decostruiscano paradigmi e dogmi. Per farla breve, mentre le filosofie affermative omosessuali e femministe hanno montato un tavolo Ikea che tenesse conto delle loro specificità e dell’uso che avrebbero dovuto farne, il queer lo ha smontato e ci ha costruito una libreria traballante che continua a demolire per divertimento.
Cerchio che lancia una molotov sugli altri cerchi. Ho assistito a uno spettacolo in cui tre drag queen – new school – parlavano di quanto fosse difficile essere una donna, avere un corpo elaborato socialmente come femminile e andare a fare la spesa. La loro conversazione era serrata in un capanno d’affermatività identificativa (di quelle filosofie che creano e saldano le identità), tanto che non riuscivano a vedere la presenza che stavano escludendo, il soggetto che si schiariva la voce per essere vista. La donna che era sul palco insieme a loro non è stata ascoltata. Zittita la carne che possedeva quella narrazione. Lanciamo una molotov quindi sui discorsi incentrati sul “vs.”, quelli di qualche riga fa. Non crederemmo davvero alla distanza reale tra old e new? Tra Estero e Italia, autorità e altramaternità, forma e contenuto? Non sarebbero altre sporche dicotomie? La linfa del drag scorre nello spazio dove c’è alta tensione, nella sua frammentazione; la sua espressione è piena solo quando afferma e trasforma e nega e si contraddice. Drag è omosessualità e queerness e loro parodia. È reale solo quando prova a scoprirsi new e queer e fallisce ancora e ancora. Muñoz direbbe: il queer e il drag non sono ancora qui.