D a quando Mark Fisher ha dato un volto sociale e collettivo alla sua depressione, parlare della natura politica di questo stato mentale, così pervasivo e tipico nel mondo contemporaneo, ha smesso di essere un tabù. I tempi morti in attesa di un futuro spaventoso, la sensazione di vivere in un mondo grande e terribile, il senso d’impotenza e inadeguatezza rispetto ad esso, se non l’angoscia di essere fallitɜ, in tutti i possibili sensi della parola, e la crudele incapacità di vivere, non erano più le caratteristiche di tante storie di alcunɜ, isolatɜ e nascostɜ nella propria quotidianità. Queste passioni tristi diventavano, nei suoi saggi, tanto reali e parte dell’infrastruttura circostante, quanto pervasiva può apparire una fitta rete autostradale estesa su scala globale: capace di connettere luoghi, modi e forme di vita con la loro specificità seppur accomunati dalla consapevolezza di condividere un medesimo piano esistenziale.
La depressione, quel senso di essere un “good for nothing” (un buono a nulla), in grado di cadenzare, come un perturbante leitmotif, il ritmo di tante vite, tuttavia, raramente assume toni romantici e fatalisti; perlopiù non conduce alla ribellione o a uno sprezzante rifiuto; non tende a prendere la forma aristocratica e anarchica del flȃneur, fieramente inadatto, in grado di opporre l’ozio e la creazione individuale a ogni forma di oppressione collettiva, di affermare l’incontrollabilità della vita contro ogni categoria posta al di sopra di essa; essa vive piuttosto ripiegata, riflessa continuamente su pareti in cui il proprio “io” (il parassita della vita diceva Gadda) diventa una gabbia inevitabile, un schermo che deforma senza pietà ogni percezione.
Depressione e malinconia non si manifestano soltanto all’interno degli individui e della loro esperienza personale, ma sono divenute pesante patrimonio politico della modernità.
La risposta di Fisher a questa apparente trappola di impotenza individuale mi è sempre sembrata definirsi attorno a un complesso vitalismo in cui la depressione smetteva di essere esclusivamente una patologia da denunciare e curare; depurata da narcisistiche dinamiche di colpa (in grado di combinare auto-esaltazione e mortificazione), essa veniva, invece, canalizzata nel desiderio di politicizzare ciò che nella propria vita appariva insostenibile, nel bisogno di conflitto e, così, legata ad un’entusiastica rabbia capace di riconnettere soggettività, di aprire una breccia in quello che lui chiamava “il castello dei vampiri”. Depressione e malinconia, appunto, non si manifestano soltanto all’interno degli individui e della loro esperienza personale, per quanto comune e condivisa; in quanto affetti del presente, sono divenute pesante patrimonio politico della modernità. La stesso teorico inglese, infatti, legava questi stati anche all’assenza di necessarie organizzazioni e efficaci pratiche solidali all’interno della vasta galassia progressista, afflitta dall’individualizzante e autoreferenziale culto della purezza militante.
Per Enzo Traverso la malinconia di sinistra costituisce una vera e propria tradizione nascosta che, emblematicamente nel lavoro di Walter Benjamin, si concentra nell’elaborazione di grandi sconfitte storiche. I vinti nell’infinita lotta contro l’oppressione capitalista ci perseguitano come spettri; chiedono vendetta o reclamano le nostre memorie al punto di richiedere l’istituzione di una vero proprio culto martirologico (“lutto e militanza”). Insieme ad esso viene la convinzione di sentirsi esiliatɜ dalla storia (coloro che hanno perso il sol dell’avvenire), di essere statɜ messɜ da parte e, quindi, maggiormente incapaci di intervenire su un mondo non in grado di rispondere e reagire in modo appropriato ad angosciose questioni presenti e minacce future. Le analisi di Furio Jesi sulla memoria della sconfitta spartachista (e sull’intera macchina mitologica costruita intorno all’icona di Spartaco, il Cristo dei proletari) evidenziano i rischi legati a narrazioni escatologiche completamente focalizzate su una passività rispetto alla storia. Per farla breve, in una prospettiva in cui il dado è già stato tratto e si deve solo fare i conti con il risultato finale, il piacere legato alla celebrazione di tragici agnelli sacrificali sostituisce il bisogno di costruire una nuova immaginazione politica.
Pertanto, collettivamente, la malinconia di sinistra si struttura come un fenomeno problematico sotto vari punti di vista: lo struggimento dolce a cui essa si accompagna (in cui, come per l’oblio alcolico, si trova conforto nella propria tormentata tristezza) diventa un ulteriore impulso all’inazione, se non alla conservazione, come evidenziato da Wendy Brown, e ad una spinta nichilista nell’affrontare nuove sfide, in cui opportunità e rischi sono già stati esperiti e dati. La sconfitta e l’esilio fanno dei militanti malinconici degli individui eletti, in grado di guardare il mondo dall’alto e pertanto, restii a muoversi da questa posizione di presunta sicurezza e superiorità. Insieme alla consapevolezza di essere già passati, di esistere come residui della storia, può emergere anche un profondo rifiuto del mondo, una volontà di diserzione, che si definisce non in quanto esplicito e pubblico atto di ribellione politica, ma attraverso l’esaltazione nostalgica e passatista.
La ‘malinconia di sinistra’ costituisce una vera e propria tradizione nascosta che, emblematicamente nel lavoro di Walter Benjamin, si concentra nell’elaborazione di grandi sconfitte storiche.
In questo senso è facile vedere, a mio parere, come la malinconia di sinistra possa trovare anche delle inaspettate continuità in altre tradizioni politiche, filosofiche, e, soprattutto, estetiche, come, ad esempio, nel pessimismo di estrema destra. Si può pensare al famigerato Ezra Pound, a Yukio Mishima – e a tanti altri presunti cavalieri mancati che volevano ritirarsi nei boschi – o a chiunque, da Spengler in poi, sia stato ossessionato da tramonti (pleniluni, pomeriggi afosi) di civiltà. In entrambi i casi, la critica della modernità, il sottolineare l’insostenibilità delle sue strutture e apparati, seppur apparentemente condivisibili, hanno invece la funzione di porre una glaciale condanna esistenziale all’inazione, alla rinuncia, se non, nei peggiori casi, invitare all’accettazione dell’opzione autoritaria. Il sole nero dei malinconici, funereamente trionfante su post-apocalittiche lande desolate, attacca senza pietà le vibranti immagini di vita e possibilità a cui si associano idee di progresso e utopia, facendo del negativo, nel senso meno dinamico e creativo del termine, l’unico vero motore della storia e della natura.
Ovviamente questa breve analisi non si pone come obiettivo quello di condensare e risolvere tutto il pensiero e l’estetica del negativo con la facile dicitura di snobismo intellettuale o, peggio, di fascismo o criptofascismo. Da un lato, se si permette una poco seria parentesi autobiografica, mi sentirei quantomeno ipocrita nel farlo dal momento che, oltre a essere metallaro (per vocazione malinconico), ho sempre nutrito un profondo affetto per mondi e personaggi avvolti da una tragica atmosfera esistenzialista, in cui si vive fuori tempo massimo, nell’impossibilità di fare veramente i conti con il mondo circostante: i confusi samurai senza padrone di Kurosawa, le tormentate e perturbanti femmes fatales dei grandi noir, o i fuorilegge con atavici codici d’onore di tanti e tanti classici sono solo alcuni esempi di queste potenti figure concettuali.
Da un punto di vista più sistematico, il negativo, inteso come forza problematizzante, creativa e conflittuale, costituisce senza ombra di dubbio una delle colonne portanti della tradizione dialettica (e non solo), così come il motore affettivo di tanto “pessimismo” (soprattutto nell’arte). Qui, appunto, le passioni tristi non esistono come afflizioni e condanne, ma diventano materia magmatica e irrisolta, strumenti attraverso i quali è possibile trovare nuova forza d’agire, una rinnovata potenza. Del resto, la stessa analisi di Traverso della malinconia di sinistra è ben più complessa del quadro precedentemente offerto da me e strettamente legata al bisogno di non denigrare la sua forza e la sua necessità in relazione a vari corsi e ricorsi storici, così come per la centralità, nella lotta per l’emancipazione collettiva, del lutto e della sua elaborazione.
La malinconia di sinistra si struttura come un fenomeno problematico: lo struggimento diventa un ulteriore impulso all’inazione.
In tal senso, mi piacerebbe qui proporre una rilettura politica della depressione e della malinconia legandole a un altro affetto a me, campanilisticamente, molto caro: appocundria (che potrebbe essere anche letta come traduzione dialettale di ipocondria); e all’opera di quello che credo sia stato il suo più grande interprete contemporaneo: Massimo Troisi. Nota ai più per uno splendido brano omonimo di Pino Daniele, questa complessa emozione è stata oggetto di diverse letture: noia, accettazione fatalistica, insoddisfazione esistenziale, struggente malinconia. In ognuna di esse, appocundria indica uno stato vicino a quello depressivo, un malessere connesso all’inazione e all’insoddisfazione. Allo stesso tempo, questa “passione” non assume la forma di una chiusura narcisistica, né un invito all’autocompiacimento solitario, quanto un continuo e irrisolto richiamo alla vita. Gli stessi versi di Pino Daniele ne raccolgono la profonda ambiguità:
Appocundria me scoppia / ogne minuto ‘mpietto /peccè passanno forte / haje sconcecato ‘o lietto /appocundria ‘e chi è sazio / e dice ca è diuno /appocundria ‘e nisciuno… / Appocundria ‘e nisciuno.
Quest’inquietudine e vena d’inadeguatezza erano in Troisi continuamente ripresi nei suoi gesti, che, come racconta la voce narrante di Martone nel recente documentario a lui dedicato, Laggiù qualcuno mi ama (2023), avevano una poetica universale, in grado di comunicare al di là di ogni barriera linguistica. Raccontavano una malcelata fragilità soprattutto di fronte alla passione amorosa, al desiderio, all’impossibilità di reprimerlo, e alla sua incostanza, all’essenza mutevole dei sentimenti, allo stesso tempo sfuggevoli e paralizzanti. Non a caso, uno degli aspetti più ironici della maschera comica di Troisi, viene ricordato, era un’afasia stracolma di suoni, in cui l’eccesso verbale, l’incompletezza delle frasi, e la rimarcata incertezza sembrano continuamente cercare una risposta altrove, soprattutto nell’interlocutrice femminile.
Da questo scostamento stilistico e concettuale dall’icona del maschio napoletano — astuto, sicuro, sempre pronto a recitare una parte esagerata di fronte ad ogni situazione — nascevano anche delle dinamiche di coppia estremamente originali (a proposito delle quali non può non essere menzionato il ruolo di autrice di Anna Pavignano). La voglia di emanciparsi da vecchi schemi relazionali, dai ruoli e dalle loro funzioni, si scontravano con le aspettative individuali, col sentire e le vulnerabilità personali, realissime anche quando chiaramente mediate da durature strutture sociali. Non stupisce, quindi, come la relazione fra il suo personaggio Gaetano e la compagna Marta (Fiorenza Marchegiani) in Ricomincio da tre (1981) continui a esistere come un potente stimolo nel pensare e sentire nuovi modi dello stare assieme. Il loro rapporto, irrisolto e sospeso come i finali dei suoi film, notoriamente vedrà il protagonista accettare, con struggimento, conflitto e autoironia, “le corna” e una paternità non biologica, senza trasformare questa scelta in un’affermazione di superiorità etica, di progressismo intellettuale o di malposta benevolente carità nei confronti della compagna.
Uno degli aspetti più ironici della maschera comica di Troisi era un’afasia stracolma di suoni, in cui l’eccesso verbale, l’incompletezza delle frasi, e la rimarcata incertezza sembrano continuamente cercare una risposta altrove.
Autoironia e irrisolutezza, pertanto, esistono come altre caratteristiche ricorrenti della poetica malinconica di Troisi; per quanto riguarda la prima potremmo sbrigativamente spiegarla come sintomatica di una più “evoluta” idea di mascolinità. Invece di trovarci di fronte alla tipica figura romantica maschile attratta, a sua volta, da presuntamente prestabiliti personaggi femminili (in termini della storia del cinema, e non solo, io ho molte riserve rispetto a questo facile schematismo concettuale), Troisi ci offrirebbe la densità della nevrosi, del disagio che deriva dall’impossibilità di riconoscersi, e la consapevolezza delle propria vulnerabilità. Allo stesso tempo, come sottolineava David Foster Wallace, l’autoironia appare anche come una forma esausta dell’estetica e della narrazione postmoderne. Connessa all’idea di un intellettualismo smaliziato e cosciente (citazionista, in grado cogliere limiti e paradossi di scelte stilistiche e posizioni politiche), l’ironia autoreferenziale tradisce, in molti casi, secondo lo scrittore statunitense, anche una profonda inabilità nel prendere sul serio fenomeni artistici e sociali, e di compensare a tale mancanza attraverso un apparente distacco. Per lo stesso motivo l’ironia postmoderna si nutre anche di eccessi narcisistici, attraverso i quali il soggetto che ne fa uso decostruisce sé stesso, deformando la propria immagine per i più svariati scopi ed effetti (spesso riprendendo le dinamiche di compiacimento e denigrazione sopramenzionate).
L’autoironia di Troisi, al contrario, raramente serve un intento riflessivo ed egocentrico e sembra mossa, piuttosto, dal desiderio di evitare la concentrazione su sé stessi, anche allo scopo di esorcizzare la costante presenza della morte sul proprio vissuto. I suoi personaggi nutrono una comicità malinconica proprio perchè cercano continuamente di smontare la drammaticità e la centralità del proprio disagio; trasmettono una difficoltà nello gestire i propri sentimenti ed esprimerli, nel trarre un senso definitivo da situazioni e interazioni in cui si trovano coinvolti ma, per quanto concentrati su questa fragilità, evitano di farne un guscio. L’ironia, in questo caso, proietta verso l’esterno, diventa uno strumento per ricordare ai personaggi, e a noi, che il mondo è sempre più grande delle nostre piccole miserie personali e che, in un modo o nell’altro, siamo chiamatɜ a farne parte, che sono le relazioni, più che le immagini che nutriamo di noi stessi, a formarci. Per questo, anche dalle situazioni tragiche o luttuose (la storia d’amore al centro di Scusate il Ritardo comincia, con la sequenza d’apertura, durante un funerale) si può trarre qualcosa di teneramente divertente. La vita va avanti, in fin dei conti, e si può anche imparare a “soffrire bene” per le pene d’amore, come ci ricorda un famoso sketch di Pensavo fosse amore…invece era un calesse (1991).
Come si accennava precedentemente, l’irrisoluteza è da considerarsi un altro carattere essenziale del lavoro di Troisi. Questa si esprime stilisticamente attraverso famosi fermo-immagine e lunghe inquadrature fisse, in cui l’interazione dei personaggi, priva di esplicite finalità, prende il sopravvento oltre ogni bisogno di chiarezza. Allo stesso tempo, nel definire i rapporti, l’assenza di risoluzione permette anche di evitare facili consolazioni. La coppia visse per sempre felice e contenta? Forse, ma probabilmente poco importa saperlo e tale conferma non farebbe giustizia di ciò che conta veramente; ovvero che per quanto possiamo provvedere spiegazioni per i nostri sentimenti, elaborare nuovi modi per affrontare le relazioni, esprimere una saggia – e non richiesta – visione cosciente e d’insieme del loro strutturarsi, la vita sta nella spinta, nel desiderio di continuare a esistere intensamente senza fare e farci troppo del male, possibilmente. Per usare le sue parole: l’amore è difficile e difficile è parlarne o farci dei film “ma un se vott, dice, che me ne importa”.
L’ironia di Troisi proietta verso l’esterno, diventa uno strumento per ricordare ai personaggi, e a noi, che il mondo è sempre più grande delle nostre piccole miserie personali.
Fin qui ci può sembrare che l’appocundria legata all’opera di Troisi sia per una buona parte da attribuire alla ricerca di una moderna educazione sentimentale e a una sensibilità piccolo-borghese, avrebbero detto i critici cattivi di una volta. D’altronde, non posso negare come i suoi personaggi, il loro modo di esprimere le emozioni e le tensioni che li attraversano, sebbene lontani da me (parlare di identificazione, nel cinema e nelle arti, mi lascia un po’ insoddisfatto), continuino fin dall’adolescenza ad accompagnarmi con dolcezza per risonanze e richiami. Ciò detto Laggiù qualcuno mi ama è sempre teso a sottolineare come la vocazione intimista di Troisi non fosse mai scissa dalla riflessione politica e sociale, indipendentemente dalle vicende biografiche che lo hanno visto spesso relazionarsi polemicamente con il clima culturale a lui circostante. Ironia, incertezza e malinconia definiscono un rapporto con il mondo e investono, da un lato, la relazione conflittuale con Napoli e con la percezione della napoletanità.
La mai abbandonata parlata dialettale difficilmente indicherebbe un rifiuto delle cosiddette radici, ma come l’eros si esprime attraverso un continuo decentramento, Napoli non esiste come un’entità astorica. Va messa in questione, così come da guardare con sospetto sono i tentativi di restituirne un’immagine oleografica, funzionale più per la soddisfazione delle aspettative di chi la ammira esternamente, vedendo in essa specchiati i propri bisogni d’alterità. E allora appare quanto più significativo il discorso presentato da Martone, in cui Troisi si trova ad agire come punta di diamante di un’intera nuova generazione di musicistɜ, artistɜ, e attivistɜ che, probabilmente, non avevano e non hanno alcun problema a valorizzare la tradizione partenopea e la sua forza. Eppure, questɜ stessɜ ne hanno fatto un campo di battaglia, coscienti che queste forme vanno riprese, riconsiderate, sfidate (anche fallendo) in modo da permettere ad esse di continuare a esistere in relazione col mondo circostante (non è forse questa la porosità partenopea di cui parlavano Walter Benjamin e Asja Lācis?).
La politica non può che essere comune perché sono le relazioni a fare in modo che le nostre singolarità si esprimano e trovino, sempre andando a tentoni, il loro spazio nel mondo.
Politica e vita, inoltre, sono un unicum non tanto perché sia necessario interrogarsi ininterrottamente sugli aspetti etici e sociali di ogni piccola scelta e faccenda individuale. Il personale è politico in Troisi poiché pensare collettivamente e organizzarsi non significa concentrarsi esclusivamente sulla creazione di qualche nuova struttura e istituzione, forse più consona ad affrontare le sfide del presente. Politica è appunto l’arte della vita in sé stessa e occuparsene significa cercare di ripensarla, senza che, come in amore, assicurazioni di sorta ci vengano fornite precedentemente, nè soluzioni finali (espressione in sé funesta) siano le uniche a dover guidare il nostro agire collettivo. Da questo spirito di ricerca mai sopito viene anche un’incrollabile coscienza antiautoritaria. La politica non può che essere comune perché, ancora una volta, sono le relazioni a fare in modo che le nostre singolarità si esprimano e trovino, sempre andando a tentoni, il loro spazio nel mondo. Proprio per questo vediamo come il cinema, la poesia e la politica abbiano come forza condivisa anche quella di rispondere dell’afasia, di permettere alle persone di formare degli affetti comuni. Essere presi dall’appocundria per Troisi (epigono contemporaneo del Leopardi de Il Giovane Favoloso), quindi, è l’opposto di un sentirsi sconfitto e uno struggersi nelle proprie fragilità. Significa essere investitɜ da una profonda inquietudine, dal senso di anticipazione che accompagna la possibilità di affrontare un’esistenza degna senza riserve guidatɜ dall’aspirazione di essere all’altezza dei suoi mutamenti e maree. Forse non è un caso che Laggiù qualcuno mi ama si chiuda su Troisi che contempla la luna, punto di riferimento per tuttɜ lɜ malinconicɜ e lɜ romanticɜ. Ammirando la dolce compagna delle notti insonni, Troisi ama e ricorda che, nel cinema, come nella vita, non si è mai solɜ.