L’ archeologia delle più antiche forme di lingua inventata riconduce a Ildegarda di Bingen, monaca benedettina vissuta nel dodicesimo secolo in Germania. Mistica, compositrice, cosmologa, poetessa e scienziata, è considerata una pioniera per la quantità ingente di opere che, osservate ancora oggi, appaiono come visionarie e in anticipo di qualche secolo sul contesto socioculturale di origine. Nel corso della sua vita Ildegarda di Bingen ha concepito la Lingua Ignota, un codice linguistico artificiale composto da 23 ignotae litterae traslitterate principalmente dal latino e dalla fonologia dell’alto-tedesco medio. Dei suoi scritti in Lingua Ignota ci sono pervenuti solo dei frammenti, oltre due esemplari di glossario redatti dalla stessa Ildegarda di Bingen, che ne esplicitano la matrice mistica. La Lingua Ignota è una forma d’espressione dell’inesprimibile respiro divino che media l’interazione tra gli esseri umani e tutto ciò che è vivo ed esistente. Un linguaggio universale direttamente riconducibile ai brani liturgici che Ildegarda di Bingen ha composto, facendoci pervenire un corpus di opere musicali medievali dalla potenza spirituale ancora intatta.
Percorrendo i secoli successivi a Ildegarda di Bingen si contano innumerevoli esperimenti di lingua inventata, artificiale o pianificata.
Percorrendo i secoli successivi a Ildegarda di Bingen si contano innumerevoli esperimenti di lingua inventata, artificiale o pianificata che dir si voglia. Dall’Hardico del Ciclo di Earthsea di Ursula K. Le Guin, al Cityspeak di Blade Runner. Dalle lingue ausiliarie come il Communicationssprache al più celebre Esperanto. In musica abbiamo lessici sperimentali come il kobaiano, un linguaggio alieno creato nel 1970 dalla band progressive francese Magma, oppure il Vonlenska, inventato dai Sigur Rós a inizio millennio e usato in gran parte della loro discografia. Di recente, a questi e ai molti altri dischi in lingua inventata, si è aggiunto Spira di Daniela Pes, un disco d’esordio che ha ottenuto la Targa Tenco 2023 come miglior opera prima, oltre il riconoscimento unanime e trasversale della critica, arricchito da una serie di sold out durante il fitto tour di concerti nei club italiani.
“Non ho fatto nessun tipo di lavoro specifico sulla lingua. Le parole dei miei testi non hanno un significato che gli ho attribuito a priori. È stato tutto spontaneo e istintivo, non sapevo che sarebbe stato così accessibile e armonioso, l’ho scoperto insieme alla musica” mi ha raccontato in una chiacchierata nel backstage del suo concerto all’Angelo Mai, durante la preview del festival Manifesto, a Roma.
Le parole dei miei testi non hanno un significato che gli ho attribuito a priori.
Daniela Pes è nata nel 1992 in un piccolo paese della Gallura, in Sardegna. Spira è stato prodotto da Iosonouncane, il suo conterraneo più illustre e autorevole in materia, ed è uscito per Tanca Records, l’etichetta fondata nel 2022 dallo stesso Jacopo Incani come sub-label di Trovarobato. I testi delle canzoni di Daniela Pes provengono da una commistione di gallurese antico e lemmi del tutto inventati, i versi sono sporadicamente interrotti da frammenti di italiano che vengono captati come stralci di un codice imprevisto. Udiamo un “Fiˈɡuɾa ˈkolma ˈsia” o “Ke ˈneɾa se ne ˈva ˈdalle ˈoɾe sˈkuɾe” nel singolo Carme, e l’effetto è straniante. I versi vagamente comprensibili, più che momenti di razionalità, somigliano a dei bug in un discorso che si muove su binari diversi rispetto alla semiotica di un linguaggio noto e giocano con l’area di Wernicke della corteccia cerebrale, quella che recepisce il linguaggio, attivandola di colpo e mandandola in iperstimolazione.
Forse non è del tutto un caso che l’embrione di questo lessico provenga da testi religiosi e dalle sperimentazioni che Daniela Pes ha eseguito negli anni precedenti alla scrittura del disco.
Venivo da un periodo di studio e lavoro di musicalità sulle poesie di un sacerdote del Settecento del mio paese.
Stavo testando. La mia idea era di fare un disco di poesie musicate, perché sono una cantante e non ho mai avuto l’esigenza di esprimermi attraverso dei testi. C’era qualcosa nel gallurese antico che mi attirava molto. Ho iniziato a scremare alcuni aspetti della pronuncia che non mi convincevano e poi è nato qualcosa di mio, ho iniziato a metterci dei fonemi che non significano niente e che però io sentivo dentro di me. Mi sono chiesta tanto se fosse una scelta azzardata, ma per me era credibile e quindi voleva dire che era giusto correre quel rischio.
Nel saggio Lingua Ignota, pubblicato di recente da Timeo, vengono raccolte interpretazioni, analisi e proiezioni del pensiero di Ildegarda di Bingen da parte di Huw Lemmey, Bhanu Kapil e Alice Spawls. In queste pagine viene descritto con dovizia di particolari e licenze poetiche l’immaginario fatto di visioni e profezie che la badessa ha esperito sin da bambina e per tutto il corso della sua vita. In particolare nella “trilogia profetica” composta da Scivias, Liber vitae meritorum e Liber divinorum operum viene delineato un universo di visioni che parlano dell’umanità e della sua caduta, fino alla descrizione di un’Apocalisse che ha tutte le caratteristiche dell’antropocene odierno, fatta di cataclismi, devastazioni e incendi furiosi.
I testi delle canzoni di Daniela Pes provengono da una commistione di gallurese antico e lemmi del tutto inventati.
Ormai da qualche anno i concerti sono pieni di presagi di morte. Gli attentati, la pandemia, i reportage dai club sotterranei a Kiev, le immagini del rave nel deserto del Negev o i festival rimandati per nubifragi o per gli incendi durante l’estate, hanno compromesso irrimediabilmente il mio immaginario, al punto che assisto a qualunque concerto con l’idea che sia uno degli ultimi prima della fine del mondo. C’è una specie di ostinazione encomiabile e fuori luogo nel chiudersi in un posto ad ascoltare musica dal vivo, come un nucleo di resistenza mentre attorno si restringe un cerchio di oscurità. Se la musica di Daniela Pes è abitata da un’energia primordiale e atavica, le sue performance dal vivo assumono i connotati di una liturgia esiziale. Durante il soundcheck è meticolosa, sale e scende dal palco per verificare la qualità del suono, per pregustare l’impatto che di lì a poco si riverserà sulla fitta massa di persone di fronte a lei.
Da quando sono nata ho vissuto immersa nella musica. Ho sempre cantato e manifestato la voglia di comporre cose mie. Mi è sempre piaciuto inventare delle linee melodiche abbozzate. Però ho iniziato a farlo seriamente solo finito il triennio del conservatorio. La mia formazione è molto più da autodidatta che non accademica, perché tutto quello che ho vissuto in casa, in sala prove o ai concerti, è quello che mi ha formata. Il conservatorio mi ha offerto dei mezzi teorici che chiaramente servono, però credo anche che siano molto limitanti, l’ho vissuto sulla mia pelle.
Daniela Pes si è laureata in Canto Jazz al Conservatorio di Sassari e prima di dedicarsi interamente alla scrittura di Spira ha vinto premi e fatto una lunga gavetta per uscire con fatica e sofferenza da quella che considera una bolla satura di teorie e giganti inarrivabili della musica classica e contemporanea. Questo senso di rivalsa ed emancipazione arriva con l’intensità delle cose giuste quando Daniela Pes nella sua mise nera, gli occhi del colore di uno stagno e i capelli raccolti in una treccia, ripercorre, con un set ampliato, le otto tracce di Spira. Rimane ferma e integra nella sua postazione, una specie di altare dove controlla e manipola sintetizzatori, pad e le tracce che corrono su Ableton.
Le sue performance dal vivo assumono i connotati di una liturgia esiziale.
Nei versi più concitati, quando la sua voce si sgretola e trafigge come una pioggia di schegge acuminate gli astanti, dà delle frustate indietro con la nuca che sembrano riflessi inconsapevoli, una possessione. È qui che la sua lingua ignota acquisisce la potenza spirituale che ci permette di familiarizzare con un nuovo ordine di significati e illumina il buio incombente. Le sue parole sembrano avere a che fare con una serie di sensazioni incompiute, pressioni, hanno un che di tattile. Una ragazza davanti a me tira fuori il cellulare, faccio in tempo a leggere le parole che appunta su una nota: “sporcare pulire forse”. Poi lo ripone in tasca e torna a chiudere gli occhi.
Quando scrivo sono sempre da sola, ho bisogno di silenzio e pace. Avendo vissuto così tanti anni in Sardegna e avendo scritto la maggior parte del disco lì, ho vissuto grandissimi orizzonti e grandissimi silenzi, momenti di solitudine che mi hanno concesso di concentrarmi solo sulla mia idea e di portarla avanti fino in fondo. Ho smesso di contare il tempo e i giorni, avrei potuto continuare all’infinito, finché non fossi stata soddisfatta.
Spira è nato quando il mondo si è fermato per la pandemia da Covid-19, l’esperienza di pre-morte collettiva più significativa dei tempi recenti e ha richiesto tre anni di lavorazioni intensive.
Negli ultimi tre anni non ho pensato ad altro che alla musica. Prima, oltre ad esibirmi in giro, facevo il servizio civile. Lavoravo part-time all’istituto italiano dei ciechi a Sassari. Poi la Regione Sardegna ha dato un grande aiuto economico agli artisti durante il lockdown e in quel momento ho deciso di dedicarmi totalmente alla mia musica.
A questo punto il mio sguardo è del tutto corrotto dal parallelismo con Ildegarda di Bingen, ma di questo Daniela Pes è all’oscuro mentre parliamo. Oltre all’abnegazione monastica con cui ha scritto il disco, mi racconta del modo in cui le sue canzoni vengono concepite e la dinamica mi fa pensare a delle piccole visioni.
Non ho mai avuto la possibilità di organizzarmi con uno studio, quindi non faccio molte prove o sperimentazioni. Appunto tantissime linee melodiche che sono nella mia testa e parto da quelle. I brani che hanno avuto una riuscita più immediata sono stati quelli in cui la melodia e l’armonia sono nate insieme. La maggior parte della musica che è finita sul disco era già chiara nella mia mente.
C’è un aspetto un po’ magico e inquietante in tutta questa vicenda, al quale ho deciso di credere. Come accennato in precedenza, c’è un incontro che è stato fondamentale per l’ascesa di Daniela Pes ed è quello con Iosonouncane. Quando è uscito Spira, ho dato per scontato che la scelta di cantarlo in una lingua inventata fosse una specie di manifesto artistico. Si dà il caso infatti che anche IRA, il terzo disco di Iosonouncane uscito nel 2021, sia cantato con una lingua artificiale. Per l’esattezza si tratta di un lessico che raccorda francese, arabo, inglese, italiano, spagnolo, dialetti locali e chissà quali espressioni inventate, per cui la sua consistenza è eterea e disarmante, se si pensa soprattutto all’immanità dell’opera, che dura quasi due ore. Tutto farebbe pensare a Spira come un’emanazione, o una prosecuzione, di una cifra stilistica ben specifica e invece Daniela Pes – e lo stesso Jacopo Incani, interpellato in merito – racconta di come abbia scoperto della lingua inventata di IRA solo dopo aver iniziato il suo percorso. La simbiosi con Iosonouncane del resto è pressoché totale.
Lui era la figura più ambiziosa alla quale potessi rivolgermi in un periodo in cui ero confusa e dispersa, perché non riuscivo ad esprimermi artisticamente in una forma che potesse appagarmi. Mi ha fatto capire che aveva senso sentirmi così frustrata e non mi ha riempito di incoraggiamenti sterili. Mi ha dato la lucidità di concentrarmi sulla scrittura e di concedermi tempo. Quando sono tornata da lui con i primi pezzi mi sentivo pronta. Lavorare con lui è stato difficile e faticoso ma è stato un percorso di condivisione molto fluido che mi ha arricchita tantissimo. È stata davvero una fortuna esserci incontrati e esserci trovati in sintonia, chissà come sarebbero andate le cose altrimenti.
Sarebbe stato un peccato, visto il talento scalpitante di Daniela Pes. Ascoltando Spira notiamo il tocco di Incani nei sintetizzatori tribali, nelle compressioni, nelle code dei pezzi. “Tutte le mie pre-produzioni le abbiamo tradotte e fatte correre nel parco suoni di Jacopo”: ne parla come se fosse una trasfusione di sangue. Per il resto però questo piccolo capolavoro appartiene alla parabola di Daniela Pes.
La forza sinestetica del suo live mi è rimasta in circolo a lungo, solida come la certezza che presto sarà un’artista che travalicherà i confini stretti del nostro paese, per misurarsi con palcoscenici più grandi. Nel suo sguardo, quando ne parliamo, è palese questo desiderio tutt’altro che illegittimo e difficile da tenere a bada. I tamburi di A te sola, che si chiude con un lungo delirio, una litania o forse una maledizione, annunciano una facile profezia. Quel tempo verrà e Daniela Pes l’ha già visto accadere.