A l Salone di Torino appena passato ho presentato il libro di Riccardo Falcinelli. È un’opera interessante per due motivi. Il primo è che parla di qualcosa che abbiamo costantemente sotto gli occhi, negli occhi, e di cui sappiamo quasi tutti quasi niente. Il secondo è che invece di fare un’opera di cosiddetta divulgazione, Falcinelli è andato alle cose stesse raccogliendo una serie di testi scritti da grandi nomi del graphic design del Novecento. Non è dunque un compendio, e la voce di questi personaggi arriva diretta, non filtrata, in maniera spesso scioccante. Dunque c’è un pensiero che porta oltre la divulgazione, è come se Falcinelli riconoscesse il bisogno di ricominciare a parlare più crudamente delle cose, citando anzi rievocando le fonti, lasciandole esprimere in tutta la loro incoerenza.
Francesco Pacifico: Per arrivare in questa sala avete dovuto leggere una serie di scritte. Queste scritte sono comparse sul sito del Salone di Torino, magari avete anche letto le scritte della metropolitana, quelle della stazione, quelle dell’autostrada. In questi manifesti, avete imparato l’estetica e la filosofia sottostante il racconto del programma e del Salone e del Lingotto.
Molto spesso non ci rendiamo conto che viviamo in un sistema dove non andiamo a sbattere continuamente gli uni con gli altri perché esistono delle persone che ci sintetizzano il mondo, più che spiegarcelo, in modo da non dover continuamente guardarlo con occhi sperduti come se fosse una giungla. Riccardo Falcinelli ha scritto due libri importanti come Figure e Cromorama, che hanno raccontato vari aspetti della cultura visuale, presenta qui un libro apparentemente quasi postumo, pubblicato dalla PBE, collana Einaudi che ci ha portato fondamentali libri di teoria di ogni tipo. Il libro, composto da tanti testi scritti nel corso del Novecento, tratta di un argomento che potrebbe sembrare lontano, per soli addetti ai lavori, in realtà è un libro che parla di un’esperienza che facciamo continuamente.
Trovo che dovremmo tutti sapere di graphic design: sapere che cosa c’è dietro a questo lavoro, forse artistico forse industriale, cos’è che ci porta a non andare a sbattere tutto il tempo gli uni contro gli altri, che riesce a orientarci e a volte a farci uscire per comprare e consumare merci. È questo l’approccio che hai adottato per il libro?
Riccardo Falcinelli: Sicuramente. Il fatto che la grafica e la comunicazione sono qualcosa che abbiamo intorno in ogni momento, su cui però non riflettiamo all’interno di un discorso di cultura generale, o su cui riflettiamo molto poco, e solo tra addetti ai lavori, è una delle ragioni da cui nasce il libro. La riflessione di fondo è che, se vuoi immaginare come viveva un essere umano anche solo duecento anni fa, tutto quello che noi abbiamo intorno, qualcosa che è stato disegnato da qualcuno, prima non c’era. L’industrializzazione ci ha circondato di oggetti disegnati, di scritte, di testi, di grafica in senso lato, però questo sembra un paesaggio naturale. Poi è arrivato lo smartphone, e tutti fanno grafica oggi, tutti, basta fare un post, ritoccare una fotografia, fare una storia su Instagram; questo è a tutti gli effetti fare grafica. Però queste tecnologie vengono date come elettrodomestici, come oggetti di uso quotidiano. Eppure queste cose hanno un potere, hanno potere retorico, estetico, persuasivo, possono anche fare delle cose, nell’ambito in cui uno si trova. Il mio non è un saggio che vuole spiegare in senso stretto questi funzionamenti, ma vuole mettere sotto agli occhi il fatto che negli ultimi cento anni ci sono stati diversi grafici, art director e pubblicitari, persone che hanno dato forma al mondo in cui viviamo, che hanno riflettuto su queste cose. Forse andare a leggere le loro parole ci dà un punto di vista per capire com’è il mondo visivo che frequentiamo oggi. In altri termini, il discorso che si è sempre fatto sulla grafica è un discorso molto dall’esterno, fondamentalmente un discorso sulla società vista da lontano, come ad esempio la critica alla pubblicità che vuole indurci a comprare cose di cui non abbiamo bisogno. Sono sempre state affermazioni molto generaliste. Invece qui ci sono le voci di chi queste cose le ha fatte da dentro, ci sono quelle che, dal mio punto di vista, sono le quaranta voci più importanti in ambito informativo, pubblicitario e narrativo del XX secolo.
FP: Sei passato a raccontare di come è fatto il testo, ne approfitto per chiederti la cosa che più mi affascina di questo libro. Qui si racconta di come siamo arrivati a capire che un testo, una volta messo su un tavolo e quando cominciamo a ragionare sulle sue dimensioni o il colore che deve avere, acquista una dimensione che va oltre al suo contenuto, iniziando a parlare in un modo diverso rispetto a come parlano da sole le parole scritte. Inizi ad avere la copertina della rivista, inizi ad avere il manifesto artistico del Campari di Depero. Stiamo parlando di come un testo possa diventare qualcosa d’altro. Vorrei quindi partire proprio dalla forma del tuo libro: per come è fatto, questo libro è un esempio di design. Raccontare come è fatto questo libro può servire infatti per raccontare come ragiona un graphic designer o un art director. Tu prima hai fatto due libri di divulgazione con Einaudi Stile Libero: per come appaiono da dentro, entrambi i libri hanno un tema specifico, c’è la tua voce, ci sono le immagini, le didascalie, e tu che contieni l’argomento. Con questo nuovo libro invece fai una cosa che a me fa pensare al Centre Pompidou, che racconta l’interno di un grosso edificio mettendolo all’esterno. Tu fai questa stessa operazione a livello di grafica: prendi l’interno della tua conoscenza, la stessa che ti ha portato a fare libri di divulgazione, e la rivolti. Invece di scrivere un lungo tuo testo che dentro potesse contenere i vari pezzi, manifesti, saggi, riflessioni dei più grandi graphic designer, tu rivolti il processo: fai un’introduzione e poi lasci i testi che avresti citato (le tubature del Centre Pompidou) in bella vista, protagonisti del libro. E a quel punto, e qui sta il design, inizi a usare in una maniera quasi feticistica le possibilità che ti dà una collana iconica come PBE, la Piccola Biblioteca Einaudi. La cosa bella di questo libro è appunto l’introduzione, un’ottantina di pagine in numeri latini, come a sottolineare che tu non sei più il padrone del libro, ma ne scrivi un’introduzione. Non stai più facendo divulgazione. Non fai più una selezione di paragrafi importanti di cose dette dagli artisti, dai professionisti, magari mettendoci subito una bella foto a colori del loro lavoro, ma fai una cosa diversa, fai vedere l’interezza industriale del loro pensiero.
Questo libro è come entrare in un sito archeologico in cui è possibile perdersi, magari senza capire nell’immediato cosa stai vedendo, ma con la sensazione di essere veramente lì. La cosa più feticista e affascinante di tutte, secondo me, è il modo in cui usi l’impostazione della PBE, come ad esempio i numeri che rinviano alle varie illustrazioni degli autori dei pezzi messi di lato, un’operazione che ha un gusto artistico. Stai usando un’icona del pensiero italiano, che è questa collana Piccola Biblioteca Einaudi – mi ricordo la gioia con cui mesi fa mi hai detto che stavi preparando “un PBE” – come se stessi facendo un’opera vintage, con lo scopo di far vedere quanto è ancora attuale lo stile della collana. Una grafica molto importante per chiunque si è formato in Italia con la saggistica tu la usi in un modo artistico. E per questo mi sembra altrettanto importante la questione, molto trattata nel libro, se il grafico sia un artista o se sia è una persona al servizio di una macchina, questo perché il suo lavoro suscita una meraviglia anche di tipo artistico.
Qui si racconta di come siamo arrivati a capire che un testo, quando cominciamo a ragionare sulle sue dimensioni o il colore che deve avere, acquista una dimensione che va oltre al suo contenuto.
RF: L’ambizione di un libro come questo è di stare sia dentro sia fuori dalla scuola. Nel mondo attuale, quantomeno in Italia, noi siamo abituati a legare l’idea di antologia esclusivamente alla scuola. L’antologia è quella che, quando andiamo alle scuole superiori, ci viene data solitamente per imparare le poesie e i brani più importanti della letteratura italiana. Questa è la nostra principale esperienza con l’antologia. Invece, l’antologia è uno strumento fantastico anche fuori dalla scuola, perché, soprattutto quando una disciplina è giovane, come il design che non ha più di centocinquant’anni, fornisce un’idea delle parole di chi si è occupato di queste cose, è una voce diretta di queste persone. Secondo me è uno strumento fondamentale, ma è anche qualcosa che in parte stiamo perdendo. Si tratta di affrontare lo studio non attraverso compendi, ma attraverso le parole reali, appunto le antologie. Da questo punto di vista, la cosa per me più interessante soprattutto per chi non fa il grafico, per chi non è dentro una scuola, ma è una persona colta e curiosa di questi argomenti, è quella di poter sentire l’epoca attraverso la voce di tutti questi autori, di sentire un condensato generale di come si ragionava in un determinato momento storico, anche al di fuori del design, anche se nel libro vengono trattate questioni molto tecniche, di bruta professione, ad esempio se in un determinato testo ci debbano essere o meno le maiuscole, se sia preferibile lavorare liberamente o per un’agenzia pubblicitaria. Prendiamo ad esempio la serie Mad Men. Attraverso la fotografia, la moda, lo stile, la forma di una cravatta o di una scarpa, ha messo sotto gli occhi un’intera sensibilità, non solo umana, ma anche sociale, mondana e infine politica. Attraverso i discorsi che vengono fatti, le parole usate, che erano parole e discorsi tecnici, parlavano in continuazione di politica della pubblicità, cioè di come si organizza una campagna. Tutto questo è poi diventato una metafora dei rapporti nel mondo industrializzato, ed è questo che ha fatto appassionare le persone alla serie. Ci si accorge che quei discorsi su come vendere un rossetto riguardano una quantità sconfinata di trattative tra gli esseri umani anche nel 2020. Questo è il lato anche struggente della serie.
FP: Adesso lo facciamo tutti attraverso le storie di instagram.
RF: Esatto. I social creano uno stato di perenne promozione, di discorsi, di volti. Leggendo quindi quei testi secondo questo punto di vista, ci si rende conto che attraverso un discorso tecnico emerge la visione politica, di come mettere in scena la società in ogni momento storico. Quando il primo art director newyorchese, quello che inventa la pubblicità come la conosciamo oggi, dice che un giovane che all’epoca avesse voluto fare l’artista doveva lavorare in pubblicità, perché non c’era più nessun altro ambito, non esisteva più l’arte, non esistevano più i mecenati, quello era un mondo finito, c’era solo la pubblicità, ovviamente esprime una posizione estrema, radicale e non condivisibile fino in fondo, ma lo dice. E lo dice in un certo modo. Si percepisce come questo discorso di promozione continua del mondo ha delle basi che non sono state formulate dal presidente degli Stati Uniti, ma da tutt’altro tipo di persona, dall’intrattenimento, dall’involucro dei consumi. Un discorso forse anche più spiazzante.
FP: Paradossalmente, è un discorso più narrativo. Il punto che mi preme è proprio questo. Tuffarsi in saggi come questo, infatti, è più divulgativo che fare il libro divulgativo. Perché è come entrare in una macchina del tempo. C’è questo pezzo degli anni ‘30 di Alexey Brodovitch che sembra scritto da Don De Lillo negli anni ‘90.
RF: Allora diciamo due parole su Alexey Brodovitch, che è stato il più grande art director di riviste e di magazine del Novecento. Era l’art director di Harper’s Bazaar, per intenderci, quello che ha inventato le riviste come le si conoscono oggi. Qualunque rivista comprata oggi è stata inventata da lì, sia fisicamente sia come tipo di contenuti.
FP: Nel suo pezzo-manifesto si legge: “La vita oggi è industrializzazione, meccanizzazione e standardizzazione, quindi competizione e velocità, e questo esige intelligenza e capacità di pensiero.” Siamo vicini al Futurismo, ma siamo anche vicini a quegli anni ‘50-’60 di Mad Men.
RF: Attenzione, questa non è un’affermazione scontata. Nella retorica dell’epoca, uno non avrebbe detto: “Questa è un’epoca che esige intelligenza”.
FP: Dentro al tuo libro ci sono chiaramente delle intelligenze a volte quasi luciferine, di una profondità, di un’ampiezza, di una gamma di frequenze veramente sorprendente. Riprendendo da quella citazione, si gira pagina e si trova una lista per far capire come l’uomo moderno viene aumentato dalla tecnologia e anche dall’immaginario che sta creando.
La lente di una Kodak ci offre una nuova consapevolezza dello scorcio e della prospettiva, la cinepresa risolve il problema della plasticità, della dinamica, del ritmo e dell’estetica della deformazione degli oggetti in movimento.
Lo spettroscopio o il prisma demoliscono il significato esistente del colore e offrono una possibilità di spiegare la forma attraverso l’uso di esso. Il telescopio e il microscopio ci svelano la dimensione infinita delle cose più grandi e di quelle più piccole.
L’aereo ci costringe a cogliere la velocità cosmica e lo spazio. “L’apparecchio televisivo ti mostra alla velocità della luce una nuova e precisa idea di distanza.
Questa è un’intelligenza incredibile e che spesso si avvantaggia del fatto di poter muoversi per analogie, per salti logici. Il pubblicitario e il creativo cercano Freud, cercano l’inconscio, la memoria, eros e thanatos. Leggendo il libro ci si tuffa in zone che sono le parti più interessanti della civiltà occidentale e industriale: quel passaggio dalla Belle Époque, alle avanguardie, il periodo tra le due guerre e poi la rinascita nel secondo dopoguerra, appunto quello che era il mondo di Mad Men, fino ad arrivare al computer. Diventa paradossalmente più un grande romanzo come quelli di DeLillo sui temi del contemporaneo che una voce divulgatrice che per forza di cose invece resta sempre una voce contemporanea e per certi versi fin troppo rassicurante. Adoro, proprio come operazione di grafica filosoficamente parlando, il fatto che tu abbia deciso di fare un libro che va fino a toccare le cose stesse, che fa provare il brivido del viaggio nel tempo.
RF: Oltre a questo elenco di Brodovitch, c’è anche qualche pagina prima quello di Mehemed Fehmy Agha, un altro art director, che a un certo punto scrive: “Adesso vi dico quali sono le cose moderne”, e scrive una cosa che potrebbe passare inosservata, ma che invece secondo me è geniale: “Tra le cose moderne c’è il riflesso del fanalino di una macchina in una pozzanghera”, cito a memoria.
FP: Come le copertine di Fitzgerald…
RF: Esatto. Prima di allora, siamo nel 1930, nessuno avrebbe pensato che la modernità fosse il riflesso del fanalino. Avrebbero detto che era la macchina stessa. In altre parole, la mentalità ottocentesca, industrializzata e positivistica, avrebbe detto: “la modernità è l’automobile”. Lui invece punta l’attenzione sul riflesso. Ora, si provi a citare una serie tv vista nell’ultima settimana in cui non si vede il riflesso su una pozzanghera di una qualche insegna luminosa. E lui lo dice novant’anni fa. Questa è la cosa fantastica. Questi autori hanno delle parole che potevano passare inosservate, eppure nei novant’anni successivi non abbiamo fatto altro che lavorare su quel tema iconografico. Forse la motivazione didattica di un libro di questo tipo è che, come ho imparato insegnando da tanti anni argomenti di tipo visivo, e quindi insegnando storia dell’arte, storia del design, come si leggono le immagini e via dicendo, ho capito che nell’insegnamento permane sempre il fatto che dobbiamo partire da un consolidato modello storico, che è quello della storia dell’arte. Se io dico “iconografia”, partiamo dalla Madonna con il bambino in braccio. Ma quando parliamo del fanalino riflesso nella pozzanghera? Che poi è la vera iconografia. Se arrivasse un marziano e si chiedesse che cosa stanno guardando questi homo sapiens nel 2022, si accorgerebbe che noi guardiamo molti più fanalini riflessi nelle pozzanghere che Madonne.
Se arrivasse un marziano e si chiedesse che cosa stanno guardando questi homo sapiens nel 2022, si accorgerebbe che noi guardiamo molti più fanalini riflessi nelle pozzanghere che Madonne.
FP: Perché questa cosa probabilmente ancora ci dà quel languore fortissimo della modernità. Tuffarsi indietro in periodi cruciali della vita, come tu fai nel Novecento, è importante per capire come cose che all’epoca erano nuove siano ancora presenti adesso. Questo è quello che succede a leggere oggi queste pagine, in cui l’esempio perfetto del fanalino ci permette di capire quanto queste cose siano ancora vive. Ed è proprio questo il senso di imparare la storia. Per una sorta di frustrazione che provo per il processo di qualunquizzazione della divulgazione, come certi video su YouTube in cui la storia viene raccontata in modo piatto, dall’altro lato mi piace qui nel tuo libro vedere quanto sia necessaria la tessitura della storia e lo shock che ci dà di somiglianza e insieme di differenza. Un uomo che negli anni ‘30 scrive di fanalini è la versione pazza e cocainica di una persona che noi frequentiamo, o che siamo, e sembra quasi più nel futuro di noi, perché sente forte il senso di cose che sono ancora importanti per noi. Questo è l’effetto che mi ha fatto leggere molti dei brani del tuo libro. Proviamo quindi a dare una cronologia di questi testi, da dove sei partito e dove sei arrivato.
RF: Sono partito da William Morris, quindi ci poniamo negli ultimi mesi della fine del XIX secolo, sta per iniziare il 1900. Morris è una figura molto divertente. Era famoso per le sue carte da parati e le tappezzerie, ma era contrario, com’è noto, all’industrializzazione, voleva un ritorno all’artigianato di qualità, di tipo medievaleggiante. Invece, è diventato nel mondo attuale il capostipite dell’interior design. L’arredamento di massa e industrializzato parte da lì. L’antologia si apre con questa figura assolutamente contraddittoria, che scriveva testi militanti per andare in una direzione, testi che però sono diventati la poetica di qualcosa che l’autore non condivideva.
FP: È il senso dell’epoca vittoriana. La conservazione che crea invece una modernità inaudita.
RF: Sì. L’epoca vittoriana è esattamente questo. L’antologia parte da qui, dal ‘900 di Morris, e finisce nel 2000, con l’arrivo non tanto del computer, ma quello di internet, un arco di cento anni. Gli ultimi testi parlano di come il digitale stia cambiando non solo il modo di progettare, ma proprio di ragionare. Quello che sta facendo il computer è infatti cambiare i processi cognitivi e creativi delle persone, inizieremo da qui a fare cose in maniera diversa. Secondo me, proprio come con il fanalino, leggendo gli ultimi testi degli anni ‘80 si possono trovare elementi che letti oggi hanno un ché di ingenuo, poetico e struggente: come quel testo di fine anni ‘80 che sottolinea l’importanza del copia-incolla. Per noi oggi è come parlare di quanto è importante il laccio delle scarpe o il bottone, però lì rappresenta una cosa che era appena comparsa. L’aspetto affascinante di tutti questi brani è che io ho scelto sempre testi in cui per la prima volta compare qualche cosa, che poi è diventata banale, ovvia, il panorama che conosciamo. Secondo me, questo è un modo molto proficuo per ragionare su quello che poi sappiamo veramente, su che cosa sono le cose che diamo per scontate tutti i giorni. Se tu hai sempre disegnato con una matita su un foglio di carta, il fatto che compaia questo ctrl+z che ti permette di tornare indietro, e non di cancellare come con una gomma, è qualcosa che mette per la prima volta il tuo disegnare all’interno di un processo temporale. Il ctrl+z mette per la prima volta quel processo di creare un volto, o nella scrittura una riga di testo, all’interno di un tempo dato come se fosse il tempo di un film, un tempo in cui poter andare avanti e indietro. Ovvio che questo cambia il modo in cui si guardano le cose. Come ad esempio il videoregistratore ha cambiato la nostra idea di film, una scena è noiosa, salto e vado avanti.
FP: E ha creato Tarantino.
RF: Certo. Ha creato anche lo zapping continuo, e il miscuglio. Io penso che tornare alla prima volta in cui qualcuno ha detto che per la prima volta sta accadendo una cosa inattesa è fondamentale. Quando facevo l’università ho fatto un sogno, che secondo me hanno fatto tante persone che si occupano di grafica, in cui mi dicevo di dover fare ctrl+z per poter tornare indietro alla precedente azione onirica, ho in sostanza inglobato il modo di concepire il tempo, il mondo. Tornando al libro, questa è la cornice dell’antologia, da William Morris all’avvento del computer, comprendendo tutte le riflessioni su quello che i computer avrebbero portato, sempre attraverso voci straordinarie e profetiche. Muriel Cooper, ad esempio, grandissima art director del MIT, negli anni ‘80 dice che quello che porterà con sé il computer non è la velocizzazione, ma è il telelavoro. Lo diceva trent’anni fa. Prendendo un qualunque quotidiano americano o italiano degli anni ‘80 o ‘90, quando si parla del computer si parla di tutt’altro, non ci sono articoli che parlano di smart working. Lei è stata la prima a nominare l’idea di smart working in un discorso sui computer. Una designer che era l’art director del MIT. Aveva delle antenne incredibili.
FP: Questo accade perché voi lavorate di sintesi, dovete vedere le cose quasi creandone i contenitori. Prima citavi di come certi argomenti siano stati affrontati prima da chi si occupa di comunicazione che dai politici. Anche in Mad Men si parla molto di campagne politiche, con un cinismo e una tecnica molto interessanti.
Ho scelto sempre testi in cui per la prima volta compare qualche cosa, che poi è diventata banale, ovvia, il panorama che conosciamo.
RF: Molti di questi testi, infatti, non sono edificanti. Non è un’antologia con i dieci migliori brani che vi renderanno persone migliori, le poesie che vi innalzeranno l’animo e le virtù. Qui ci sono delle persone a tratti proprio brutte.
FP: Non è una raccolta di fiori.
RF: No, non è etimologicamente una raccolta di fiori. È una raccolta anche di spine.
FP: È quella visione americana per cui devi leggerti Ayn Rand, scrittrice darwiniana e quasi nietzschiana, che viene citata in Mad Men perché racconta il trionfo del singolo che si afferma in società. È il contrario di quella narrazione dei buoni che alla fine è solo un elenco di santi. Un po’ come gli antieroi alla Don Draper, figure che piacciono molto, anche nella tua antologia c’è una serie di personaggi talvolta luciferini, in cui però sei costretto a riconoscere che dietro c’è un genio, chiamato cinico o chiamato diabolico a secondo di come vi piace, ma che è necessario conoscere. Sono persone colpevoli di avere capito in anticipo cosa fosse la comunicazione e cosa fossero le merci.
RF: Un altro elemento fondamentale in questo libro è l’arte, il grande convitato di pietra di tutto questo discorso. Ci chiediamo: queste attività sono un tipo di arte? Si tratta di una domanda molto presente nel dibattito contemporaneo e affrontata anche da tutti gli studenti che oggi si interessano di questo tipo di cose. Quello che noi facciamo in vari ambiti della vita ha un aspetto espressivo, è qualcosa che ci rappresenta, che tira fuori la nostra identità, il nostro modo di sentire la vita, e questo vale dal selfie al dipinto, è un tratto centrale della modernità. Noi pensiamo sempre all’arte come a qualche cosa che è sempre esistita, perché alla fine questa è l’idea che ci dà il manuale di storia dell’arte. L’arte è stata fino a due secoli fa meramente una professione, come fare il muratore: non era un hobby. Fino a fine ‘700, a parte qualche aristocratico che lo faceva per gioco e per divertimento, la pittura era una professione svolta da precise figure, gli artisti, i pittori. L’industrializzazione porta anche al fatto che nel tempo libero l’arte può diventare non solo un’attività ricreativa, ma anche espressiva, dove chiunque, anche se non fa quello di professione, ovvero l’essere pagati per fare quello e camparci, può decidere di dipingere. Insieme ai grandi magazzini, alle automobili, alle attività di intrattenimento come il teatro e poi il cinema, la grande novità della città industrializzata, quella che meno viene raccontata, sono i negozi di belle arti. Nella Firenze del ‘400 non esistevano i negozi di belle arti. Il negozio di belle arti nasce per le persone comuni, non per gli artisti, non per i professionisti. La domanda costante che c’è in quasi tutti i testi, e cioè se quello che stiamo facendo è un’attività artistica, è una delle domande più spirituali del momento storico che viviamo oggi, che però è iniziato un secolo e mezzo fa. Nel nostro tempo libero, attraverso una serie di attività di vario tipo, forse noi stiamo compiendo il nostro vero senso della vita nel mondo. È qualcosa che iniziamo a fare già con i bambini piccoli, così come indica la Montessori quando ci invita a farli disegnare, perché è proprio lì che viene fuori quello che abbiamo dentro.
FP: Dal mio punto di vista di romanziere, la cosa che mette in crisi leggendo le riflessioni di questi personaggi oscuri e diabolici è farci ricordare che l’arte è anche legata a una capacità di choc che per assurdo viene attutita in un contesto che è già dichiaratamente arte. Il tipico esempio è quello dell’arte contemporanea, che viene sempre presa in giro, perché è un’accozzaglia di cose scioccanti messe o su un cubo bianco o in improbabili posti strani, installazioni site-specific. È come se l’aspettarsi lo shock ridicolizzasse lo shock. Quindi anche opere di arte contemporanea, bellissime, sulle quali ti soffermi, solo per il fatto che te lo aspetti risultano meno scioccanti. Invece il pubblicitario, che ti sembra la persona peggiore, la più prezzolata e corrotta, è capace di darti degli choc inaspettati. E allora cos’è arte? La cosa più bella che si può dire del demone dell’arte è che può far sentire inadeguato sia chi lo fa in un modo sia chi lo fa nell’altro, così da far rimanere entrambi una figura demonica che ci guida chissà dove invece di farci rimanere fermi e darci delle sicurezze, come quella di dirci “ora sto consumando arte, ora pubblicità”.
RF: È il contesto istituzionale che hai intorno che stabilisce se stai da una parte o dall’altra. Ci sono pubblicità che non sono meno spiazzanti di certa arte.
FP: Esattamente. Ad esempio, la pubblicità di Paul Rand della IBM mi sembra iconica da questo punto di vista. La I che viene rappresentata da un occhio (eye), la B da un’ape (bee), e la M da una grafica computerizzata come se fosse vista su uno schermo. La guardi e ti interroghi sul perché questa cosa ti piace, al di là di ogni intuizione che l’occhio e l’ape possono portare, la vista e l’operosità, ma anche dallo sfondo nero, da queste grafiche così perfette e fatte di poche cose, ti chiedi se tutto questo possa essere arte, e questo interrogativo ti lascia in una zona spaesante. Da qui la mia domanda: la grafica aiuta a tracciare un sentiero da seguire oppure serve solo per vendere? In America già verso la fine dell’’800 si capisce che avere un’industria non è più sufficiente, la fabbrica che produce cose ha bisogno che queste cose vengano comprate sempre. Così si inizia a scandire l’anno punteggiandolo di appuntamenti e feste che sono gli antesignani del black friday, si inventano ad esempio la festa della mamma, quella di San Valentino, trasformando anche tradizioni che vengono dall’Europa. Ciò perché fermare una fabbrica ha un costo elevatissimo. In questo senso anche studiare la grafica comunista permette di scoprire quali sono i modi per condurre e unire le masse. La grafica quindi è più dare istruzioni ed unire o è più vendere? Che rapporto c’è tra queste due cose? Come dici tu nel testo: la grafica è il male perché ci aiuta a vendere o la grafica è l’unico modo moderno per stare tutti insieme?
La grafica è la forma della maggior parte delle cose – di tutte le cose – con cui noi abbiamo a che fare, quindi non è una cosa in sé. È il tono di voce delle cose.
RF: Questo è il nodo e il malinteso di tutta la faccenda. La grafica è la forma della maggior parte delle cose – di tutte le cose – con cui noi abbiamo a che fare, quindi non è una cosa in sé. È il tono di voce delle cose. Può essere la voce di una persona buona che ti insegna. Può essere la voce di una persona cattiva che ti vuole raggirare. Può essere la segnaletica stradale, può essere l’impaginato di un libro, può essere il bollettino del tuo conto corrente. Semplicemente è la forma di tutto. Non è una disciplina, perché è tutto.
FP: Prima che arrivasse l’industria, quali erano gli universali che abbiamo dentro e che poi hanno creato il graphic design?
RF: Prima della società di massa, la grafica non esisteva come la conosciamo oggi. Senza industrializzazione e senza società di massa, le persone vivevano in contesti molto più piccoli in cui della grafica non c’era bisogno. L’unico esempio un po’ simile a quello che avviene oggi è la Roma imperiale.
FP: E la Chiesa?
RF: È tutt’altra cosa. Perché la Chiesa ha usato la comunicazione visiva con un’unica finalità, quella catechistica.
FP: De propaganda fide.
RF: È un po’ diverso. Metterli insieme può essere fuorviante. La pubblicità è qualcosa strettamente legato alle merci e allo scambio di tipo economico, la Chiesa ha avuto delle cose in passato che le assomigliavo, ma quel dipingere ovunque e all’infinito sempre quegli stessi temi, la crocifissione e la Madonna con il bambino, era ribadire che il mondo era fatto in un certo modo.
FP: Il punto quindi è la massa?
RF: Ed anche la tecnologia. In una battuta: la grafica è qualsiasi forma visiva fatta in più copie. Nel momento in cui hai bisogno di più copie, lì inizia la grafica. Per questo convenzionalmente si dice che inizia da Gutenberg, dal momento in cui non hai più il libro manoscritto, ma per la prima volta hai un oggetto fatto in serie. Gutenberg inventa il processo per cui noi oggi compriamo le scarpe da ginnastica fatte in serie e la massa crea una società che è disposta a comprarsele. La riproduzione in serie e la massa sono interconnesse.
FP: Gutenberg ha quindi inventato una cosa che è servita quasi cinquecento anni dopo. Si tratta di una di quelle cose che ti emozionano quando viaggi con la mente. Ci aspettava tutto un modo di vivere che sembrava fosse già lì ad aspettarci da sempre come il monolito di Kubrick, ma che si è attivato quando abbiamo superato la soglia del diventare società di massa. Siamo diventati un’altra cosa diventando massa.
RF: Volendo fare fantastoria, l’unica cosa che mi ha sempre affascinato è il fatto che questa cosa non sia accaduta durante l’Impero romano, anche se indagando bene la storia, studiando, una spiegazione la si trova. Lì, quella che noi chiamiamo un’immagine coordinata già c’era. In una qualunque città dell’Impero romano, le scritte erano fatte tutte con lo stesso carattere, con le stesse proporzioni, c’erano linee guida generali secondo le quali si doveva comunicare.
FP: Quello non era massa, ma era già qualcosa che ti avrebbe potuto far pensare che poi ci sarebbe potuta essere la M di McDonald’s che ti accoglie come un’oasi nel deserto, sapendo che quei paesi in cui c’è non si sarebbero mai fatti la guerra. Una regola della storia che è appena stata infranta. Tornando al XXI secolo, tu hai sottolineato l’importanza di una cosa detta per la prima volta, il copia-incolla, cosa che ormai si è evoluta fino alla nostra abitudine di fare screenshot con il telefono per ricordarci qualcosa. Quella è l’ultima cosa che è stata detta per la prima volta nel graphic design oppure hai lasciato fuori altre cose che stanno già succedendo e che sono state dette per la prima volta, oppure non si può ancora sapere se ci sono cose fondamentali che sono già state dette?
RF: Secondo me, delle cose le possiamo cominciare ad intuire. Però, come al solito, bisogna andare a cercare nei posti giusti. Il futuro di ciò di cui stiamo parlando lo dobbiamo andare a cercare altrove. Abbiamo i social sotto al naso mille volte al giorno, ma non è lì che accadranno le nuove cose. Secondo me, le nuove cose accadranno nella realtà virtuale. Dato che la grafica è una metarappresentazione, un simulacro, noi lì useremo uno spazio che sarà ulteriormente mediato e dove ci saranno delle M di McDonald’s che esisteranno solo in un contesto virtuale. Così si rimetterà in circolo l’aspetto di metarappresentazione della grafica. In altre parole, io mi immagino un bambino che tra quarant’anni si interroga se Nike sia una marca del mondo reale o del mondo virtuale. Questo è il futuro della grafica, il poter esistere su due piani che si muovono in parallelo. Mio figlio, ad esempio, che ancora non ha chiara la differenza tra cartone animato e film, ogni volta mi chiede se quello che vede è reale o è disegnato. È un interrogativo che ti può dare l’intuizione di quello che potrà essere il mondo tra una cinquantina d’anni, o forse molto prima.