L
a mia copia di Frammenti di un discorso amoroso, il saggio del 1977 che Roland Barthes scrisse per dimenticare e celebrare un amore non corrisposto, mi ha seguita da Firenze a Londra e porta ancora le sottolineature fatte con il 2B che usavo al liceo per disegnare; molti passaggi sono segnati da tre righe scure, in alcuni casi rafforzate da punti esclamativi cubitali. Alla fine degli anni Novanta, nella mia cameretta di adolescente, io da Roland Barthes mi sentivo capita e difesa.
Davanti a lui finalmente potevo confessare l’osceno patimento in cui mi gettava l’attesa di una telefonata. C’era il telefono fisso e ogni trillo poteva essere un segno che il tizio che avevo baciato alla festa del vino novello, nonostante le apparenze poco raccomandabili, in verità si fosse innamorato di me, folgorato dai miei occhi e la sottana, come Petrarca da Laura in chiesa, il giorno di pasqua. Stato d’animo che ero costretta a nascondere con amici e parenti: mi avrebbero subito rimproverata di farmi “troppi film”. Non è che mi faccio i film – avrei voluto gridargli. Barbari! Io genero immagini, enuncio, danzo. Guardate che bellezza questa temporalità che m’inchioda alla fatale mia identità d’innamorata!
Volevo tantissimo innamorarmi, e non di un amore qualsiasi: di un amore romantico, come quello di cui avevo letto nei libri e che avevo visto nei film. Al contempo seguivo il copione post-femminista di una sessualità scevra da moralismi e tuttavia ancora governata da assunti misogini e spesso ridotta a un bene di consumo. Facevo casino. Cercavo di realizzare l’improbabile crasi tra Carrie Bradshaw e Anna Karenina. Nelle performance sessuali si celava la speranza che la mia bocca o le mani potessero trasformare un tamarro senza nome in un contemporaneo Werther; all’indomani di amplessi etilici in parcheggi periferici invocavo sonetti petrarcheschi piangendo su un segnale che non sarebbe mai arrivato: ‘Ahi cameretta che già fosti un porto / alle gravi tempeste mie diurne / fonte se ‘or di lagrime notturne / che’l dì celate per vergogna porto’.
I ‘Frammenti’ non sono soltanto il ‘ritratto strutturale del soggetto romantico’, ma anche la grandiosa apologia della sua specifica ‘jouissance’, del modo in cui gode del dolore in quanto varco esistenziale.
Puntualmente mi ritrovavo sola con il dubbio di essere un’idiota. Vivevo come una colpa il non riuscire a soddisfare l’ingiunzione ossimorica di combinare condotta sessuale promiscua e incanto d’amore. Barthes mi assolveva e consolava. Perché i Frammenti non sono soltanto il ‘ritratto strutturale del soggetto romantico’, ma anche la grandiosa apologia della sua specifica jouissance, del modo in cui gode del dolore in quanto varco esistenziale per un di-più di verità.
L’amore così inteso ha la portata rivoluzionaria di un evento: un’esperienza che sovverte l’equilibrio dell’io, scompaginando le coordinate del mondo. L’espressione inglese to fall in love, cattura il potenziale rovinoso di questo legame. C’è una vitalità festosa, ma anche un rischio oscuro: l’amante si può perdere, può impazzire (l’amore romantico è amore folle), non solo il suo equilibrio ma la sua stessa esistenza è in pericolo. A seguito dell’incontro con l’amato, scrive Barthes, entriamo in un tunnel:
una lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli’ che ci porta ‘a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente l’altro, me stesso e l’incontro che ci ha scoperti l’uno all’altro’.
La festa d’amore si svolge sugli abissi dell’angoscia, nella consapevolezza ineliminabile della fine. Ad ogni momento ci si aspetta una catastrofe: una “crisi violenta”, la “totale distruzione”. Conscio dell’enormità del paragone, Barthes si prende il rischio di associare la condizione dell’innamorato in crisi a quella dei prigionieri di Dachau. Sono due piani di realtà e gravità del tutto diversi, ma la matrice del sentire è la medesima: il panico di chi non vede ritorno. In tali situazioni, l’unica via d’uscita è la morte. D’altronde il suicido è un pensiero quotidiano, quasi ordinario: ‘basta un niente per destarlo’. L’amore romantico, nel suo lato oscuro, è qualcosa a cui è impossibile sopravvivere: una parte di noi stessi si dissolve e migra nell’altro, esponendosi all’ignoto.
Sono cresciuta riconoscendo nella sofferenza un sintomo inequivocabile d’amore. Arriverei persino a dire che mi gettavo nei drammi iniqui di relazioni impossibili per potermi identificare nell’amore attraverso il tormento. Mi sentivo spesso attratta da uomini con situazioni difficili, geograficamente lontani, clinicamente depressi, (in)felicemente sposati, mentalmente instabili, emotivamente immaturi, oppure semplicemente stronzi. Sapevo che non erano all’altezza del sentimento amoroso, ma ciò non mi impediva di sovrascrivere una narrazione romantica alla banalità modaiola dello “scopare in giro”.
A ben vedere, la mia sofferenza non era tanto generata da un limite ontologico, o dal mio essere manchevole, piuttosto dalle contraddizioni insite nell’idea di amore cui ero esposta. In Why Love Hurts (2011), la sociologa Eva Illouz suggerisce che l’ideal-tipo di relazione cui la cultura dominante dagli anni Ottanta in poi ci ha portati ad aspirare è l’impossibile fusione tra passione travolgente e stabilità coabitativa. In una società capitalista in cui l’imperativo è quello di realizzare il potenziale del sé, e in cui ogni compromesso è visto come una rinuncia, anche l’amore e il sesso diventano parte del successo individuale. Dato lo sgretolarsi della morale religiosa a seguito della rivoluzione sessuale, ci troviamo liberi di amare chi, come e quando vogliamo, ma siamo anche privi di codici e norme sociali cui affidarci in quella che viene sbandierata come una scelta libera ma che resta governata da una logica di consumo. L’amore dunque non solo è libero, ma anche, per usare l’espressione di Zygmunt Bauman, liquido, ossia privo di qualsiasi etica oltre alla soddisfazione immediata dell’interesse individuale.
Questa logica così incentrata sull’agency del singolo inevitabilmente occlude lo spazio per una critica sistemica. In ultima analisi, come nota Angela McRobbie, una delle voci più prominenti dei cultural studies, ci spinge a trovare soluzioni biografiche per problemi strutturali, e se falliamo non possiamo che prendercela con noi stesse. La decostruzione di questo paradigma ne mostra il carattere ideologico, aprendo lo spazio per lo svelamento della matrice capitalista e patriarcale.
Guardare all’amore da un punto di vista socioculturale permette di coglierne il carattere situato, e in una certa misura arbitrario. Il modo in cui amiamo, in cui riconosciamo e costruiamo la fenomenologia dell’innamoramento, muta al mutare delle coordinate spazio temporali. Nei romanzi di Jane Austen ci si innamora in un modo che oggi verrebbe considerato assurdo. Elizabeth Bennett vede Mr Darcy giusto qualche volta, e mai da sola, prima di decidere di sposarlo. Se una nostra amica agisse in modo analogo, probabilmente organizzeremmo un intervento emergenziale, ci chiederemmo: “è impazzita?”. Insomma, la vita emozionale non si situa al di fuori della società e della cultura, non è una terra vergine per la coltivazione di sentimenti puri.
E quindi, dopo aver passato anni a cercare l’amore con l’anima e col corpo, ho deciso di trasformare la domanda in un tema di ricerca. Probabilmente è stato anche un modo per continuare a immergermi nella materia oltre allo spazio segnato dall’esperienza soggettiva, e tuttavia in stretto dialogo con essa. Dal 2016 ad oggi, ho studiato la cultura dell’amore e del sesso attraverso un lavoro etnografico e di analisi transmediale vòlto a individuare gli elementi costitutivi della struttura del sentire contemporaneo. Sono partita esplorando l’uso delle dating app per poi allargare il campo ad altre tecnologie e discorsi tra cui cinema, letteratura, arte, e social media.
Mi è saltato subito all’occhio che qualcosa sta cambiando: nelle molteplici conversazioni con Millennials e Gen Z, con studentesse, amici e amiche, nel corso di interviste e focus group, ma soprattutto di cene e drinks e flat white dai prezzi esorbitanti, ho riscontrato una sensibilità diversa da quella cui ero solita confrontarmi: un’attitudine disincantata, impaurita e blasé accompagnata da un’acuta coscienza morale. Tale modo del sentire designa quella che chiamo etica post-romantica, una disposizione che si origina a partire dal riconoscimento della crudeltà del sesso mercificato e del carattere utopico dell’amore romantico, e che produce l’utopia di un amore che non fa male, un amore “sano” ed efficiente.
In una società capitalista in cui l’imperativo è quello di realizzare il potenziale del sé, e in cui ogni compromesso è visto come una rinuncia, anche l’amore e il sesso diventano parte del successo individuale.
Stiamo assistendo a un cambiamento paradigmatico nella politica delle relazioni, una seconda rivoluzione sessuale, che prende le mosse dalla consapevolezza stanca e amareggiata dell’artificio su cui poggia la coreografia del sesso e dell’amore. Perché sottostare alla messinscena del primo appuntamento, l’ansia di capire se ci sarà un bacio o meno, se gli piacciamo o meno, se sia il caso di dargliela oppure meglio tirarsela, e poi spogliarsi e farsi vedere nudi, con le tette troppo grandi, il pene troppo piccolo, le gambe storte, le ginocchia sproporzionate, troppi peli, troppi pochi peli, e i fluidi imbarazzanti, le ascelle, l’eiaculazione precoce e il taxi di notte che costa troppo, per poi ritrovarsi il giorno dopo in camera ad aspettare un messaggio? Cosa c’è di più ingenuo e demodé che farsi abbindolare dalla tempesta endorfinica dell’innamoramento, che tanto si sa che ha i giorni contati (massimo tre anni, secondo la ricerca scientifica), e poi alzi la mano chi non ha i genitori separati, chi non ha tradito, chi non ha lasciato?
La mia amica Vittoria, una donna italiana della mia età che vive a Londra da tanti anni, vorrebbe una relazione ma ne ha terrore. Troppi traumi, sai quanti mi hanno trattata male? Sai cosa mi diceva il mio ex? Non sono mai stata abbastanza per gli uomini, mi sento sempre insufficiente, e poi se trovo uno che poco poco mi piace mi ci fisso e vado subito in paranoia, e chiaramente poi lui non mi chiama e io soffro come una cretina. Mi sono rotta di soffrire. Ogni tanto si mette sulle app, Hinge o Bumble, e fa quella che cerca un fidanzato, o uno con cui scopare. Quando le chiedono se abbia finalmente trovato qualcuno, può rispondere ‘ci sto provando’ senza mentire. Se davvero ha voglia di fare sesso va ai sex party. Ci sono persone carine, per bene, tutti ti trattano con rispetto, anche perché sennò ti buttano fuori, devi sempre chiedere il consenso, non si tollerano comportamenti discriminatori, ti fanno proprio firmare un foglio dove ti impegni a rispettare una serie di regole, i loro community values. E così almeno i termini sono chiari, non c’è ambiguità, non è che se il giorno dopo non mi contatta mi sento usata o rifiutata. Ah, e poi devono presentare tutti i risultati delle analisi. Capito? Funziona molto meglio!
Davanti a un bloody mary in un rooftop bar a Peckham, che in realtà è un parcheggio colorato di rosa, un amico di qualche anno più giovane mi ha confessato di usare le dating app per evitare di incontrare qualcuno. Setta la geolocalizzazione a miglia e miglia di distanza, a volte anche in un altro paese, così può assicurarsi di essere desiderabile senza rischiare di doversi rapportare a un umano nella sua versione incarnata. Accumula match, scrive messaggi, fantastica sull’ipotesi di un appuntamento, tutto senza dover avere a che fare con un altro da sé. Per i miei genitori il sesso era una roba trasgressiva, mi ha detto fumando un vape al melone, per me invece è un dovere, lo devo fare, ma non è chiaro come, e poi non so come approcciare le ragazze, da un lato mi si chiede di essere intraprendente però dall’altro se sono troppo intraprendente rischio di sembrare un molestatore. Sinceramente preferisco gli amici alle relazioni, le relazioni a un certo punto finiscono e ci rimani sempre male. Ma quindi, gli ho chiesto io rollandomi una sigaretta, tu non vorresti innamorarti? No, fa lui, l’amore è sopravvalutato, e anche il sesso, ci sono altre cose importanti: la carriera, le amicizie, il cambiamento climatico.
Guardare all’amore da un punto di vista socioculturale permette di coglierne il carattere situato, e in una certa misura arbitrario.
Asa Seresin, autore e ricercatore femminista, cattura questa forma di disincanto nel termine “eteropessimismo”, con il quale indica la disaffiliazione performativa con l’eterosessualità, espressa in forma di rimpianto, rimorso, e una generale mancanza di speranza. In questa attitudine si esprime l’imbarazzo associato ai regimi di ineguaglianza costitutivi dell’eteropatriarcato, e lo scetticismo verso una narrazione romantica ormai percepita come desueta se non smaccatamente ideologica. L’eteropessimismo, nota Seresin, è un sentimento anestetizzante, la cui funzione è desensibilizzare l’animo. Sono le donne ad esserne più interessate, poiché storicamente oppresse nelle relazioni con l’altro sesso, ma anche gli uomini più sensibili e progressisti sentono la necessità di prendere le distanze da una cultura “tossica”. L’eteropessimismo non è un dispositivo rivoluzionario, piuttosto una forma di difesa personale che in ultima analisi si traduce in disimpegno politico. Si accompagna a una posizione fatalista per cui non c’è niente da fare se non contemplare le macerie e proteggersi dalle scorie.
Nell’ultimo libro di Sally Rooney, Beautiful World Where Are You, la voce narrante della protagonista esprime questo senso di paralisi etica in una lettera indirizzata alla migliore amica:
I vecchi modi di stare insieme erano sbagliati – lo erano! – […] non volevamo ripetere gli stessi errori – non l’abbiamo fatto. Ma quando abbiamo demolito ciò che ci imprigionava, cos’avevamo in mente per sostituirlo? Non sto affatto difendendo la monogamia eterosessuale coatta, salvo che se non altro era un modo di fare le cose, un modo di reggere la vita. Adesso cos’abbiamo? In alternativa? Niente.
La stessa Rooney, attraverso il modo in cui racconta la sessualità, sembra proporre un nuovo ethos per navigare l’intimità di una relazione.
Alice, fece lui. Posso chiedere, ti piace prenderlo in bocca? Se non ti piace non c’è problema. Lei si tolse le sue dita di bocca e disse di sì. Possiamo farlo adesso, che ne dici? fece lui. Con la bocca aperta e l’aria distesa, Alice gli infilò una mano nei pantaloni della tuta. Lui si sdraiò sulla schiena con la testa sui cuscini e lei iniziò a succhiarglielo. […] Lei gli chiese se andava bene. Sì, perfetto, disse lui. […] Mi piaceva averti in bocca, disse. Aveva gli occhi chiusi, e lui la guardava da sotto. Sei carina a dirlo, disse. Cos’è che ti piaceva, esattamente? Lei adesso respirava forte. Avevo paura che saresti stato brusco, disse, ma sei stato molto delicato. Cioè, nemmeno brusco, avevo paura che me lo volessi far prendere in bocca più di quanto fossi in grado. Lui le aveva messo la mano sinistra sul fianco. Nel senso, come nei film porno. Lei disse di sì. Eh, ma mi sa che lì è gente specializzata, disse lui. Non mi aspetto che una persona normale sia in grado di farlo. Sempre con gli occhi chiusi, Alice disse che se voleva sarebbe stata felice di provarci. Sempre guardandola attentamente in faccia lui disse: Lascia stare. Come lo prendi in bocca tu va benissimo. Tra l’altro, ti va bene se dico cosí? O preferisci un altro modo di dirlo?
Rooney riesce a costruire una scena in cui la negoziazione del consenso disegna uno scambio sensuale. L’eros nasce esattamente da un processo in cui gesti, pratiche e linguaggi sono valutati in un dialogo aperto: domande dirette e risposte chiare. Prima di fare o dire qualcosa si domanda all’altro se va bene, curandoci di non urtare la sua sensibilità, di non metterlo a disagio. È un’etica che mira a salvaguardare il soggetto da esperienze disagevoli che ne possano minare l’equilibrio emotivo. Però, a differenza della logica eteropessimista, qui non ci si sottrae alla relazione, ma la si svolge nel perimetro segnato dall’assenza di affezioni negative.
Stiamo assistendo a una seconda rivoluzione sessuale che prende le mosse dalla consapevolezza stanca e amareggiata dell’artificio su cui poggia la coreografia del sesso e dell’amore.
Quando ho letto questo passaggio mi sono ricordata della prima volta che l’ho “preso in bocca”. Eravamo su una panchina di un giardino pubblico, il sole stava tramontando ma c’era ancora luce. Lui era la seconda volta che lo vedevo ma avevo già scritto un paio di poesie in suo onore. Mi ha spinto la testa senza lasciarmi respirare, mi si stringeva lo stomaco ma volevo dimostrarmi all’altezza. Ci misi qualche istante a capire cos’era quel sapore nella bocca. Ci salutammo poco dopo senza un bacio, immagino fosse disgustato dagli effetti della mia obbedienza. Raggiunsi una mia amica alla festa della birra al Teatro Tenda. Ero contenta perché mi sembrava di aver superato una prova. Non era una questione di godimento fisico, ma di conforto egoico.
Il godimento femminile non era proprio al centro del dibattito, allora. Quando avevo quattordici anni per capirci qualcosa leggevo l’inserto Top Secret di Cioè: elargiva rassicurazioni sul fatto che non si resta incinte con un bacio, provava con cautela a smontare il tabù della masturbazione femminile, e dispensava consigli su come fare una sega fatta bene. Era l’Italia del primo Berlusconismo, con le veline e il Bagaglino: le donne in televisione erano belle e mute – Flavia Vento rinchiusa in una scatola di plexiglass nel programma di Teo Mammucari. Io ne invidiavo il corpo perfetto, volevo essere guardata come gli uomini guardavano loro, volevo sentirmi riconosciuta dal desiderio di un altro, assumere la forma della sua fantasia.
Il tizio del parchetto non mi ha più richiamata. Io ho sofferto, ma così come il pompino anche la sofferenza era una performance. La performance dell’innamoramento e della passione. Con il lessico odierno potrei dire di essere stata “ghostata”, mentre credevo solo di non essergli piaciuta abbastanza. Potrei anche definire “love bombing” le dichiarazioni iperboliche che qualche attore o musicista mi faceva giusto un paio di giorni prima di mollarmi (e io ci credevo perché d’altronde l’amor che al cor gentil ratto s’apprende non lascia certo spazio al raziocinio di un tempo misurato). Come purtroppo (quasi) tutte posso dire #metoo, e non solo per quella fellatio forzata al parchetto.
Quando guardo la me stessa di allora provo un misto di compassione e rabbia. Perché non si è fatta valere? Perché non ha dato priorità al godimento del suo corpo, ai suoi desideri? Perché sapeva desiderare solo il desiderio dell’altro? Se avessi avuto a disposizione il vocabolario oggi in uso, forse sarei stata in grado di pensarmi diversamente. Il sempre più diffuso lessico terapeutico (relazione tossica, love bombing, gaslighting ecc.) mutuato dalla psicologia cognitivo comportamentale e dalle teorie sull’attaccamento, mi avrebbe offerto categorie interpretative per identificare i rapporti di potere tra i sessi. Eppure mi divertivo nella masquerade post femminista; aderivo a un sistema valoriale oggi scartato sulla base delle sue aberrazioni etiche.
Mi pare infatti che l’obiettivo di questa seconda rivoluzione sessuale sia appunto la rifondazione morale delle relazioni a partire dall’esegesi, per lo più accurata, delle loro patologie. Se per una sensibilità sessantottina l’amore e il sesso rappresentavano un modo della trasgressione, la rottura delle regole e la provocazione in chiave anarchica, la struttura del sentire contemporanea è intenta a regolamentare, a ricostruire un quadro normativo. A mutare sono il significato e la concezione del sesso e dell’amore, che si configurano come qualcosa da riparare per mezzo di un lavoro di diagnosi e prevenzione.
A questo proposito, pare si stia diffondendo la pratica di sottoporre potenziali partner a un questionario, una sorta di test per valutare se sia il caso di iniziare una frequentazione. Il proposito sarebbe quello di filtrare coloro i quali sarebbero solo una “perdita di tempo”, prevenendo la possibilità di incontrare qualcuno da cui potremmo sentirci offese o insultate, o semplicemente qualcuno non alla nostra altezza. Chessò un fascista, un maschilista, un guerrafondaio, un carnivoro, un negazionista, un ultras, un tabagista, un ingenuo. Tutti casi in cui, comprensibilmente, non ci vogliamo imbattere. Si tratta di una misura fondata sulla fiducia che i test possano produrre una conoscenza attendibile. Con pochi elementi si traccia un quadro di massima che consentirebbe di prevedere la riuscita di un incontro sulla base di una metodologia spannometrica. Ancora una volta si suppone che le persone siano capaci di formulare domande corrette e risposte veritiere, che sappiano quello che sono e che vogliono, e lo sappiano dire.
L’eteropessimismo non è un dispositivo rivoluzionario, piuttosto una forma di difesa personale che in ultima analisi si traduce in disimpegno politico.
L’ideale dell’amore post-romantico non è la perdizione trascendente – del cuore come del corpo –, non si cerca l’adrenalina di un rischio che ci metta di fronte alla finitezza delle cose, o un’emozione forte che ci faccia provare il capogiro della dissoluzione. Tutt’altro. L’ambizione è piuttosto quella di esperire un amore che non fa male, una relazione che non solo non destabilizzi l’io, ma che anzi lo rafforzi e confermi. Si cercano metodi efficienti per incontri sicuri, chiarezza di intenti e comunicazione trasparente. Il mistero, l’inciampo, il disequilibrio, non solo non interessano, ma fanno paura. Le emozioni perturbanti cerchiamo di eliminarle, gli amori tossici li diagnostichiamo con anticipo, non ci “buttiamo a capofitto”, piuttosto esaminiamo, verifichiamo, contrattiamo.
Nella sua genealogia, il postromantico rivela la coscienza dei limiti di ciò che lo ha preceduto. È evidente che il postfemminismo, o femminismo neoliberale, facendo del sesso un imperativo per la realizzazione de sé, abbia obliterato lo spazio per desiderio: come si fa a desiderare qualcosa che ci è imposto? E di certo la libertà guadagnata dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta ha assunto la forma spicciola della libertà di consumo. Inoltre, la sofferenza, specialmente quella femminile, è stata spesso usata come dispositivo di oppressione; e poi, per dirla in parole povere, il dualismo semplicistico della trama romantica – felicità eterna o morte – ha proprio scocciato.
Tuttavia non esiste la possibilità della non-alienazione. Ogni pensiero sviluppa giunture normative che inevitabilmente occludono alcuni spazi mentre ne rivelano altri. Nel tentativo di eliminare le storture sessiste dai codici dell’intimità, l’ethos postromantico produce l’utopia di un amore che rinuncia al rischio, rifugge la vertigine della “caduta”, rifiuta il confronto con la possibilità della “catastrofe”. Così facendo sottrae valore di verità al dolore e rischia di collassare la dimensione esistenziale su quella diagnostica. Si smarrisce dunque la distinzione, secondo Barthes sottile ma fondamentale, tra sentimento e trama amorosa, laddove il primo è moto dell’animo sovversivo e deviante rispetto a un qualsivoglia sistema sociale, mentre la seconda rappresenta il suo addomesticamento all’interno di un certo ordine ideologico.
Per meglio cogliere la tonalità emotiva di tale atteggiamento diagnostico occorre connettersi con il senso di apocalisse imminente che consuma il soggetto nell’antropocene. Sappiamo che la vita per come la viviamo è insostenibile, “tossica”: c’è del veleno in tutto quello che siamo e ci ucciderà. Ciononostante continuiamo a vivere esattamente come abbiamo sempre fatto, eccetto che per delle piccole azioni, della cui portata irrisoria siamo consapevoli, eppure ci servono per sfuggire al confronto col trauma di un’estinzione annunciata. Salviamo il mondo smistando l’umido. Arginiamo la responsabilità della fine attraverso la capacità di dichiararne l’eziologia, affidandoci a micro interventi di riparazione sbilenca. Ci proteggiamo, almeno temporaneamente, dall’incontro micidiale con quello che Lacan chiamava il reale – ossia ciò che non è simbolizzabile: la vita, la morte, e l’amore e il sesso che di vita e morte sono fatti.
Roland Barthes aveva previsto il deprezzamento dell’amore. L’amore come lo intendeva lui: l’intrattabile, il delizioso, l’irrecuperabile. Il sentimento che ci avvicina a una verità indicibile e per questo sconcertante. Forse abbiamo bisogno di sconcertarci ancora e immaginare un godimento nuovo, che non soltanto ripari gli strappi, ma ne faccia altri, strappi altri che generino varchi verso un’immaginazione oltre la fine.