I n uno dei libri fondamentali di Algiridas Greimas, Del Senso (1970), l’elegante linguista e semiologo lituano scriveva: “L’uomo vive in un mondo significante. Per lui il problema del senso non si pone, il senso è posto, s’impone come un’evidenza, come una ‘sensazione di compresenza’ del tutto naturale.” Dunque è estremamente difficile parlare del senso e dire su di esso qualcosa di sensato, proprio perché ci siamo immersi fino al collo.
Il senso è dato, e in esso il discorso è sempre immerso, come un pesce inconsapevole che non sa cosa sia l’acqua, perché il discorso, qualsiasi tipo di discorso, non è altro che senso articolato. Ci succede con la luce, nell’universo: finché percepiamo la luce, e dunque finché esistiamo, non possiamo dirci, né darci, al di fuori del sistema che ci permette di pensare di poterne uscire. Se riuscissimo a uscirne, non saremmo di fatto usciti da nulla, semplicemente perché non saremmo.
La stessa cosa sembra succedere con la comicità. È molto complicato, per non dire inutile, provare a studiarla “da fuori”, da una situazione esistenziale non comica. Anche perché non c’è nulla di più comico della ridicola discrepanza tra la finitezza dell’uomo e l’ordine infinito dell’universo. Baudelaire scriveva addirittura:
Siccome il riso è essenzialmente umano, è per essenza contraddittorio, in altre parole è a un tempo segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita, miseria infinita in rapporto all’Essere assoluto di cui possiede il concetto, grandezza infinita in rapporto agli animali. Dal continuo scontro di questi due infiniti promana il riso.
Bisogna tuttavia spiegare che cosa si intende riguardo all’impossibilità di una situazione esistenziale non comica, e per farlo dobbiamo chiedere aiuto all’enfant terrible della psicoanalisi (come lui amava definirsi), il più brillante discepolo di Sigmund Freud: l’ungherese Sandor Ferenczi. Tra le tante cose buone che ha fatto, qui ne interessano soprattutto due: la prima è la sua convinzione che la società, i suoi valori e i suoi pregiudizi giochino un ruolo fondamentale nella psicopatologia, e che uno degli scopi della psicanalisi sia quello di liberare i pazienti dalle conseguenze nefaste di un’educazione repressiva. Su questo tema, e attorno ai ragionamenti sulla comicità, Ferenczi sosteneva che rimanere seri fosse una repressione riuscita. La seconda è la sua esplorazione dell’influenza inconscia tra esseri umani inquadrati in determinate relazioni, come per esempio nelle coppie sposate, nei rapporti madre-figlio, insegnante-studente, analista-paziente. Un breve esempio di questa idea messa in pratica: nel 1908 Ferenczi scrisse un paper dal titolo “L’effetto sulle donne dell’eiaculazione precoce negli uomini”, e fu il primo a concentrarsi non tanto sulle cause di tale défaillance, quanto sulle conseguenze che può avere sulle partner.
Non si può non avere senso dell’umorismo, ma è molto possibile che accadimenti che scandiscono la nostra crescita lo abbiano stemperato, scolorito, abolito o soppresso.
Iniziamo dalla prima cosa buona. Dire che essere seri è una repressione riuscita significa implicare in qualche modo che esiste uno stato di natura umoristico dell’uomo, il suo grado zero, una comicità “naturale” che, appunto, deve essere repressa per diventare seri. Possiamo ragionare per una vita intera sulle teorie del comico, sulle strutture ricorrenti, sulle implicazioni neurologiche della risata e tutto il resto, ma alla fine rimarrà sempre qualcosa che sfugge, che ci scappa dalle mani, proprio perché non possiamo valutarla da fuori: il comico si dà in quanto tale, in quanto qualcosa che risuona intimamente e naturalmente con la nostra umanità, con la nostra configurazione di esseri umani che nascono umoristici e che solo i valori e i pregiudizi della società possono affievolire, nei casi migliori, o distruggere, nei peggiori, tale indole. Meglio: tale programmazione. Pensiamoci: ciascuno di noi ha conosciuto un qualche tipo umano “serio”, quelli senza senso dell’umorismo. In realtà non si può non avere senso dell’umorismo, ma è molto possibile che la vita, gli insegnamenti e gli accadimenti che scandiscono la nostra crescita lo abbiano stemperato, scolorito, abolito o soppresso.
Allora, continuando il ragionamento e riportando Greimas nel discorso, se il senso è dato e noi ci siamo immersi, non ponendoci dunque nemmeno il problema della sua esistenza, se dunque le storie sono tutto ciò che abbiamo per poter analizzare il modo in cui raccontiamo storie e per poterci studiare in quanto esseri senzienti, un bravo comico non dovrebbe trasformare i normali accadimenti quotidiani in storie umoristiche ma, più naturalmente, riportare le storie alla loro comicità naturale, liberandoci, almeno per un attimo, delle repressioni che costellano gli snodi della nostra esistenza e facendoci ricordare come eravamo e come saremmo potuti essere, e come dovremmo continuare a essere. Il comico non trasforma ma svela, non inventa ma analizza.
Bene, Luca Ravenna fa esattamente questa cosa nei suoi spettacoli. In questo video di improv, Ravenna propone il gioco: dimmi che gelato mangi e ti dirò chi sei. Una ragazza dal pubblico propone lampone con cioccolato bianco e caramello salato, e già tutti in sala ridono per la stranezza di questo abbinamento. Quando la ragazza lo esorta a provare per credere, Ravenna risponde “col cazzo” e inizia a stilare un suo profilo, e così via con gli altri. Si capisce bene come gli strani gusti di gelato degli spettatori non siano invenzioni umoristiche ma vere perversioni, che vengono analizzate con ironia da Ravenna, bravo a mostrarci le implicazioni umoristiche delle nostre vite.
Ancora: qui Ravenna, da milanese convinto, spiega che quando gira per l’Italia e fa gli spettacoli parlando normalmente, quello che sentono le persone non di Milano è Myss Keta. “Noi ragazzi qua parliamo esattamente come Myss Keta”. Poi racconta brevemente alcune tipiche frasi e reazioni milanesi e si dilunga sulla sua esperienza da italiano nel fare open mic in giro per l’Europa, quando gli MC lo presentano ridendo e facendo il classico gesto tipico degli italiani che dicono: che vuoi?, con la mano a pigna e il polso che si muove. Personalmente ho assistito a quegli open mic in Olanda ed è andata esattamente così, la situazione era naturalmente comica e Ravenna non ha fatto altro che mostrarla, svelarne la natura intrinseca.
Infine: in questo breve video, Ravenna racconta di quando a sedici anni vai per la prima volta a casa della tua fidanzatina per fare l’amore e, essendo fondamentalmente un incapace, mentre cerchi di metterti il preservativo con grande fatica e alla fine quello parte a proiettile. Non ci sono “what if”, non ci sono situazioni assurde à la Lundini. Solo la sua vita, che è la nostra vita, e che fa ridere naturalmente perché noi siamo naturalmente attrezzati per intercettarla.
Non ci sono situazioni assurde. Solo la sua vita, che è la nostra vita, e che fa ridere naturalmente perché noi siamo naturalmente attrezzati per intercettarla.
Abbiamo visto come Luca Ravenna sia in grado di riportare le storie che racconta alla loro comicità primigenia, originale. Ma come lo fa? Secondo me operando per modulazione di narrazioni, intendendo la modulazione come una trasformazione locale e continua che non arriva mai al punto di frontiera, e cioè alla differenza di stato. È come uno spettro che si attraversa senza mai superarne il confine. Tutto si capisce meglio guardando una delle litografie più famose di Maurits Cornelis Escher che si chiama Day and Night, è del 1938 e mostra due campi coltivati e simmetrici, uno notturno e uno diurno, che si trasformano in uccelli bianchi e neri che li sorvolano in formazioni opposte; anche gli spazi tra le ali degli uccelli si trasformano in altri uccelli che volano in direzione contraria. Al centro dell’immagine ci sono strani ibridi in trasformazione progressiva che non sono mai completamente uccelli e non sono mai completamente appezzamenti di campi arati, non cambiano dunque di natura ma si modulano attraverso piccole trasformazioni locali e continue.
Il performer non deve trasformare le sue storie in materiale comico, di fatto cambiandone lo statuto di verità ma, piuttosto, modularne il materiale comico che costituisce, come dire, il tessuto della realtà, e portarlo alla luce. Ravenna stiracchia le storie che racconta, le “smaglia”, ne allunga le fibre per mostrarne l’intrinseca natura comica che risuona con la nostra naturale e intrinseca umanità, attraverso piccole trasformazioni locali e continue. Come quel pezzo che racconta di quando devi fare l’amore piano per non svegliare i genitori ma il letto cigola fortissimo. Nessun letto cigola davvero così, tuttavia cigola spesso, e basta molto meno rumore per allertare tutti. Oppure quando sostiene che gli animali nei documentari recitano, perché sono fatti troppo bene, c’è il ghepardo che guarda in camera e il regista che gli chiede di rifarla. Anche in questo caso, gli animali non recitano davvero ma si ha effettivamente sempre l’impressione che sia impossibile coglierli in quell’esatto momento in cui divorano una gazzella, o si posano delicatamente su un fiore o, appunto, guardano in camera.
E adesso è arrivato il momento di riprendere la seconda idea di Sandor Ferenczi di cui scrivevamo prima, e cioè l’esistenza di una reciproca influenza inconscia tra esseri umani che, inseriti in un sistema di ruoli socialmente o naturalmente determinati, dalla filiazione alla gerarchia, determinano la costruzione stessa dei rapporti interpersonali. Che è quello che fa Luca Ravenna nei suoi spettacoli, con il suo pubblico.
Ricordiamo qui, come inciso, che il rapporto tra un comico e i suoi spettatori si costituisce come un vero e proprio dialogo a due, che funziona in modo molto simile alle normali conversazioni quotidiane, negoziando in tempo reale le azioni, le reazioni e i turni di parola e, di fatto, influenzandosi reciprocamente. Se ci pensate, infatti, succede molto raramente che le risate del pubblico irrompano a metà di una battuta, così come è quasi impossibile che un comico blocchi le risate sul nascere perché ha troppa voglia di andare avanti con il repertorio. L’interazione durante uno spettacolo comico – meglio forse chiamarlo momento comico – tende verso una situazione pseudodiadica, mimando cioè la struttura di uno scambio uno a uno. Il pubblico, allora, risulta molto meno passivo di quanto si possa pensare e partecipa attivamente alla costruzione e alla buona riuscita dello show. Certamente, però, i ruoli, per quanto porosi, sono rigidamente definiti dalla configurazione della sala e dagli oggetti di scena (palco, microfono, sgabello, luce puntata) e dunque si instaura un rapporto codificato tra gli interlocutori, simile a quelli di cui parlava Ferenczi.
Ravenna riesce a mettere gli spettatori come simulacro nei suoi monologhi a partire dalla sua stessa figura di comico.
Il rapporto tra Ravenna e il suo pubblico è la chiave di tutto, perché riesce a mettere gli spettatori, per estensione “la ggente”, come simulacro all’interno dei suoi monologhi, e lo fa a partire dalla sua stessa figura di comico. Mi spiego: quando ascolto le canzoni di Frank Sinatra, ho sempre l’impressione che lui non cantasse davvero, ma che semplicemente parlasse in maniera molto intonata. Questo perché la sua voce, quando canta, non cambia rispetto a quando parla, non si imposta. Anche qui, come gli uccelli di Escher: piccole modulazioni locali e continue (essere intonato e andare a tempo) senza arrivare a un punto di frontiera, e cioè la voce che si imposta per cantare, che cambia grana. Anche lo standing di Ravenna sul palco è peculiare, perché sembra uno di noi, uno che poteva tranquillamente essere seduto dall’altra parte della barricata ma che, per qualche strano caso, si ritrova sul palco a fare se stesso. Questo si nota per esempio dai vestiti – maglietta fuori dai pantaloni che spunta da sotto il maglione, cintura che esce dai passanti, tic come l’aggiustarsi sempre la maglietta all’altezza delle spalle – e, in generale, dal fatto che non sia impostato. Che, anche lui, non cambi quando sale sul palco. Per Ravenna il palco non è un dispositivo di trasformazione, un luogo magico in cui si diventa ciò che non si è. Non è il Carnevale del ribaltamento, dove i poveri diventano ricchi e gli sfigati si trasformano in re ma, semplicemente, un piano rialzato con un microfono dove continuare a essere se stesso.
Ponendosi dunque per primo come uno di noi, tali diventano anche i personaggi delle sue storie, simulacri del pubblico che riesce a riconoscersi proprio perché non sta assistendo a uno spettacolo comico codificato, ma al vecchio Luca che dice due cazzate molto divertenti. O almeno, questo è quello che appare a un primo sguardo, ma andando un po’ più in profondità si scoprono altre cose. Secondo me Luca Ravenna imposta con i simulacri del proprio pubblico una specie di discorso indiretto libero che, facendo un breve ripassino, è come quando Verga in Mastro-don Gesualdo scrive:
Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba!
In questa frase, il punto di vista del personaggio sembra fondersi con quello del narratore, stante la mancanza di verbi introduttivi o congiunzioni subordinanti. È chiaro, infatti, che tutte le pietre portate sulle spalle e tutti i giorni senza pane sono inghippi capitati al personaggio, non a Verga, che tuttavia li inserisce nel suo discorso indiretto in terza persona. Un ibrido tra discorso diretto e indiretto, un po’ come gli strani essere mezzo uccello e mezzo campo arato di Escher.
Ritornando alle modulazioni escheriane, allora, possiamo intendere l’indiretto libero anche da questo punto di vista: un concatenamento enunciativo in cui un punto di vista (nel nostro caso quello del comico) ne modula un altro (quello del pubblico) attraverso i suoi simulacri, marcandone, spostandone o comunque gestendone le singolarità, pur essendogli insieme. E questo fa tornare in mente alcune delle caratteristiche che Pier Paolo Pasolini, in Empirismo Eretico, attribuiva proprio al discorso indiretto libero.
Il pubblico non sta assistendo a uno spettacolo comico codificato, ma al vecchio Luca che dice due cazzate molto divertenti.
Nel suo saggio, Pasolini individua tre concetti fondamentali che sembrano collimare con il nostro ragionamento. Anzitutto: “ogni volta che si ha il Libero Indiretto, questo implica una coscienza sociologica nell’autore. Che mi sembra, del Libero Indiretto, la caratteristica fondamentale e costante”. E, aggiungo io, mi sembra caratteristica fondamentale e costante anche del fare comicità in quanto tale: mostrare e disvelare ciò che si cela sotto il pelo dell’acqua della società in cui il comico vive e opera, con una particolare consapevolezza e manipolazione dei tropi di riferimento condivisi. Come in questo ragionamento distopico che mette in discussione la libertà del dire, o del pensare, quello che si vuole. Oppure la messa in ridicolo, portandola semplicemente alle sue naturali e comiche conseguenze, del vecchio adagio per il quale gli immigrati ci rubano il lavoro.
Poi Pasolini continua: “Un’altra delle condizioni stilistiche necessarie è l’ironia. Ma una speciale ironia […] ossia la misesis caricaturale che consiste nel rifare il verso al parlante”. Se intendiamo l’ironia come un’alterazione paradossale che vuole sottolineare la realtà di un accadimento mediante l’apparente dissimulazione della sua vera natura, Ravenna è un maestro nel “rifare il verso” ai simulacri dei parlanti che inserisce nei suoi monologhi. Come il padre che parla come Dario Fo nelle sue sparate tra ebraismo e cristianesimo, o la madre esageratamente no vax.
Ravenna usa la lingua (di fatto i pensieri e i valori) del proprio pubblico all’interno dei suoi pezzi, modulandola attraverso il suo punto di vista di autore.
E infine, Pasolini chiarisce che in un discorso indiretto libero la lingua usata dall’autore per mettere in pagina i pensieri dei suoi personaggi “non è più quella del personaggio, ma quella del destinatario”. Nel suo saggio, l’autore riesce a demolire il carattere unificante apparentemente sotteso al discorso libero indiretto, precisando che il personaggio non parla, o non dovrebbe parlare, per bocca dell’autore, ma avere il suo personale set di valori, esperienze e credenze, che non coincidono con quelle del suo inventore. Anche perché “la cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria, e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali a una sostanziale ideologia con la propria”.
Ravenna fa proprio questo: usa la lingua (di fatto i pensieri e i valori) del proprio pubblico all’interno dei suoi pezzi, modulandola attraverso il suo punto di vista di autore e creando un circolo virtuoso e costruttivo tra autore e pubblico. Stiamo parlando della famosa influenza reciproca di ferencziana memoria, l’idea apparentemente paradossale per la quale Ravenna dice al pubblico cosa sta pensando e il pubblico, in quanto personaggio dei suoi spettacoli, lo informa di quello che pensa e del modo in cui vede il mondo. Come in questo video, dove Ravenna costruisce un pezzo sui fuorisede insieme al pubblico, inserendo le parole degli spettatori nelle sue battute e nei suoi commenti. Oppure qui, una specie di seduta di terapia di gruppo sulla défaillance durante il sesso.
Possiamo allora definire Luca Ravenna come una specie di esploratore che, sorretto, accompagnato e informato dai suoi fan, smuove il fondale della realtà portando alla luce i suoi tesori più nascosti e preziosi, e cioè quella dorsale umoristica che forma e sorregge il nostro stare al mondo e ci permette, bontà sua, di non impazzire completamente.