D a tre decenni abbondanti gigantesco affare mercantile ed esperanto giovanile, la scorsa estate è assurto infine al rango di istituzione: il Senato statunitense ha approvato all’unanimità un disegno di legge per fare di novembre l’Hip Hop History Month e dell’11 agosto l’Hip Hop Celebration Day. Ma il riconosciuto antesignano del fenomeno ne ha tratto scarso beneficio economico.
Clive Campbell, in arte Kool Herc, il Dj originario, nacque a Kingston, in Giamaica, il 16 aprile 1955 e crebbe nel quartiere di Trenchtown, in seguito roccaforte dei rude boys e culla del reggae. Primogenito di sei figli, nell’autunno del 1967 emigrò con la famiglia a New York, dove già la madre si era trasferita da un paio d’anni. Portava con sé un bagaglio mentale d’influenze dichiarate nel 2004 al Jamaica Observer: “Prince Buster, Don Drummond, Skatalites, Big Youth, U-Roy e Clement ‘Coxsone’ Dodd”, ossia gli artisti che guidarono la transizione dallo ska al rocksteady, aprendo la strada al reggae di Bob Marley. “Sir Coxsone era amico di mio padre. Guardavo i preparativi delle feste dancehall: ricordo ancora l’odore della capra al curry…”, ha raccontato poi al magazine web Rock The Bells.
All’inizio del decennio seguente i Campbell s’insediarono nel Bronx, dov’era in atto un processo di profondi mutamenti sociali che stavano cambiando l’aspetto di quella che era stata un’area residenziale della media borghesia bianca. La costruzione della superstrada Cross Bronx Expressway, segmento della pianificazione urbana architettata da Robert Moses, ultimato nel 1972 dopo 24 anni di lavori, coincise con la cosiddetta “fuga bianca”, cui corrispose un flusso in entrata di neri e ispanici, mentre il valore degli immobili crollava, tanto che alcuni proprietari arrivarono a incendiare i fabbricati nel tentativo di riscuotere le polizze assicurative, degradando ulteriormente l’habitat. Da fine anni Sessanta il tasso di violenza crebbe a dismisura e il controllo del territorio passò nelle mani delle gang: se ne contavano un centinaio (Black Spades, Savage Skulls e Ghetto Brothers le più consistenti): “Gli edifici bruciavano, i veterani del Vietnam tornavano a casa frastornati e c’erano le gang: sembrava di stare dentro I guerrieri della notte”, nell’icastica ricostruzione di Coke La Rock, che si fregia del titolo di “primo rapper dell’hip hop”.
“A quei tempi essere giamaicano non era di moda, come sarebbe stato dopo il successo di Bob Marley, e non c’era verso che la gente ascoltasse la nostra musica”, ha confessato Campbell a Jeff Chang, autore del volume Can’t Stop Won’t Stop – A History of the Hip Hop Generation, cosicché nell’adolescenza cambiò modo di camminare e corresse l’accento per dissimulare l’origine antillana. Ispirato al cartoon The Mighty Hercules, il soprannome – guadagnato quando frequentava la Alfred E. Smith Career and Technical Education High School – dipendeva dalla sua stazza e dalle prestazioni sportive sulla pista d’atletica, nel campetto da basket e in palestra, sollevando pesi. Divenne però Clyde As Kool aggregandosi al clan di graffitisti Ex-Vandals, filiale nel Bronx della crew di Brooklyn creata da Phase 2: premessa alla metamorfosi definitiva in Kool Herc. A stuzzicarne l’inclinazione musicale era stato il padre, meccanico di professione e impresario per hobby, che in occasione del sedicesimo compleanno gli regalò una copia del singolo di James Brown Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine: punto di partenza per una collezione arricchita man mano con i dischi acquistati da Downstairs Records e Sound and Things, che cominciò a mixare in cameretta coltivando l’ambizione di fare il Dj alle feste degli amici. Il suo primo impianto consisteva di due giradischi e un amplificatore per chitarra, mentre i pezzi forti erano It’s Just Begun di Jimmy Castor Bunch, la versione dal vivo di Give It Up or Turnit a Loose di James Brown, Rock Steady di Aretha Franklin e Melting Pot di Booker T & the MG’s. Animando i party con saluti e incitamenti rivolti ai presenti alla maniera dei toasters osservati nell’infanzia a Trenchtown dal buco della serratura, Kool Herc esportò istintivamente a New York la formula giamaicana del sound system da dancehall cambiando ingredienti: il funk al posto del reggae, mantenendo tuttavia l’enfasi sulle basse frequenze e l’uso dell’eco, oltre all’accorgimento di cancellare le etichette dai vinili per non farsi copiare dai rivali. Ricordava Afrika Bambaataa, altro pioniere dell’hip hop: “Sapeva che a molti neri il reggae non interessava, così prese quello che facevano in Giamaica, il toasting, e lo applicò ai dischi americani, latini o altri che avessero ritmo (…) Catturava delle frasi, ad esempio ciò che capitava in strada, usando gli ultimi modi di dire che circolavano a scuola – tipo: Rock on my mellow, To the beat y’all, You don’t stop – e ci lavorava sopra”.
L’evento primigenio accadde sabato 11 agosto 1973 nel cuore di South Bronx, al 1520 di Sedgwick Avenue, organizzato dalla sorella Cindy – graffitista con lo pseudonimo PEP 1 – allo scopo di finanziare il proprio guardaroba autunnale.
L’evento primigenio accadde sabato 11 agosto 1973 nel cuore di South Bronx, al 1520 di Sedgwick Avenue, organizzato dalla sorella Cindy – graffitista con lo pseudonimo PEP 1 – allo scopo di finanziare il proprio guardaroba autunnale. Sede di “Back to School Jam” fu la sala ricreazione al primo piano dei 18 in cui si sviluppava il palazzo da un centinaio di appartamenti appena costruito nel quadro del programma di edilizia popolare Mitchell-Lama, conosciuto familiarmente come Sedgwick Towers, dove la famiglia Campbell si era stabilita nel 1970. Affittato lo spazio in cambio di 25 dollari, Cindy stabilì i prezzi d’ingresso: 25 centesimi per le ragazze e 50 per i ragazzi. “Avevo scritto io gli inviti su cartoncino, Herc non doveva fare altro che presentarsi all’appuntamento. La festa durò dalle nove di sera alle quattro del mattino: mamma servì degli spuntini e papà comprò bibite e birre da un grossista”, rievocava Cindy. Complessivamente arrivarono circa 300 persone, alle quali il Dj somministrò – attraverso un impianto dotato di una coppia di giradischi Technics 1100A, potenti casse Shure e finale McIntosh presi in prestito dal padre – una dieta di funk percussivo, sostenuto da Coke La Rock, improvvisato maestro di cerimonia: “I nostri amici Pretty Tony, Easy Al e Nookie Nook erano tutti alla festa. All’inizio mi limitavo a chiamarli per nome, poi ho fatto finta che i ragazzi avessero parcheggiato in doppia fila: tutto per impressionare le ragazze. In realtà, non ero lì per fare rap, stavo solo giocando”. L’esperimento funzionò e venne replicato alcune volte nel medesimo luogo fino all’estate successiva, divenendo ritrovo abituale per i giovani del quartiere, fra cui Joseph Saddler, Lance Taylor, Lawrence Kris Parker e Frederick Crute, destinati ad affermarsi da protagonisti con i rispettivi nomi di battaglia: Grandmaster Flash, Afrika Bambaataa, KRS One e Red Alert. Tra loro ci sarebbe stata competitività, ma in senso positivo: un’alternativa alla violenza della vita da gang.
La cerchia di persone coinvolte cresceva a vista d’occhio e quindi servivano spazi più ampi: ad esempio Cedar Park, al capo opposto di Sedgwick Avenue, dove dal maggio 1974 i Campbell cominciarono a programmare block parties potenziando l’impianto – con amplificazione Shure Vocal Master e due colonne di speaker – e ribattezzandolo Herculoids, come l’omonimo cartone animato di Hanna-Barbera. L’eminente critico e saggista Nelson George ne descrive l’effetto in Hip Hop Years di Alex Ogg:
Il sole non era ancora tramontato e i ragazzi gironzolavano, aspettando che succedesse qualcosa. Si ferma un furgone, da cui escono alcuni tipi con un tavolo e scatole di dischi: svitano la base di un palo della luce e collegano le loro apparecchiature rubando l’elettricità. Bum! E così ecco, proprio qui nel cortile della scuola, uno show di questo tizio: Kool Herc. È in piedi davanti ai giradischi: i ragazzi osservano le sue mani. C’è gente che balla, ma ce n’è altrettanta che scruta cosa fa”.
Con l’autunno vennero poi i primi appuntamenti indoor al P.A.L. di Webster Avenue e, dal 1975, al Twilight Zone e all’Hevalo, notoriamente rivali: l’ascesa di Herc sembrava inarrestabile e ciò dipendeva da una combinazione efficacissima di potenza sonora, qualità della selezione musicale e modo di proporla. Quest’ultimo fattore era essenziale, come conferma il racconto di Afrika Bambaataa riportato da David Toop in Rap Attack: “Prendeva Fencewalk dei Mandrill o certi brani di disco music con stacchi di percussioni funky, tipo Apache dell’Incredibile Bongo Band, utilizzando solo quel frammento. Doveva essere la parte del disco che tutti aspettavano per lasciarsi andare e scatenarsi”. Ha sintetizzato David Byrne – a quei tempi esordiente con i Talking Heads nella scena punk del CBGB – in Come funziona la musica:
I giamaicani erano stati i primi a sfruttare quelle possibilità. Quando la tecnologia si trasferì a Manhattan e nel Bronx e fu integrata da alcuni breakdancers e un MC, nacque l’hip hop. Arrivando a New York i ritmi cambiarono, ma il principio rimase identico: riadattare un mezzo creato originariamente per ascoltare musica, o essere suonato dai Dj nei club, e usarlo per fare nuova musica.
“Mentre fumavo, nell’attesa che i pezzi finissero, avevo notato che la gente aspettava certe parti del disco”, ha confidato a Chang l’interessato, spiegando la natura dell’intuizione. In sostanza applicava il metodo taglia-e-cuci ai vinili, introducendo cioè nella sfera musicale una pratica analoga al collage nell’arte figurativa o al cut-up in letteratura, talvolta alternando copie del medesimo disco e creando così un loop da lui denominato “merry-go-round” (carosello, o giostra). L’unità elementare, definita “il Dna della musica hip hop” da Peter Shapiro nella Rough Guide dedicata al genere, era il break, di lì in avanti parola magica nel mondo di Kool Herc, che nominò chi danzava – emulando tanto le piroette di James Brown quanto le mosse cinematografiche di Bruce Lee – break-boys e break-girls (espressioni contratte successivamente in B-Boys e B-Girls), da cui la locuzione break-dance. A capo di una crew di rappers, breakers e Dj chiamata a quel punto Herculords, Clive Campbell aveva reso egemone il proprio stile – ostentato anche nell’abbigliamento: sneakers ai piedi, pantaloni aderenti, giacche in pelle, cappotti in pelliccia, acconciature afro, cappello da cowboy, vistosi occhiali da sole – e si era tramutato in una sorta di supereroe. Nel 1976 ambientò i party in posti quali T-Connection, Sparkle, Monterey Center, Godfather’s Club e Galaxy 2000, affollandoli di centinaia di persone e rendendo Apache l’“inno nazionale del Bronx” (nella definizione coniata nel settembre 1982 da Steve Hager per un servizio retrospettivo sul “Village Voice”). Lo avvantaggiava il simultaneo slittamento dei club verso la disco music, che si rivolgeva a un pubblico più adulto e bianco, mentre lui soddisfaceva il bisogno di funk autentico da Black Power dei giovani afroamericani, muovendosi in una zona ai margini del mainstream.
A capo di una crew di rappers, breakers e Dj chiamata a quel punto Herculords, Clive Campbell aveva reso egemone il proprio stile e si era tramutato in una sorta di supereroe.
“Tutti volevano il funky di Kool Herc. Io collezionavo dischi da sempre e quando ho sentito quel Dj ho pensato: ‘Accidenti, ho anch’io dischi del genere!’”, diceva Afrika Bambaataa – già appartenente alla gang Black Spades e in seguito promotore della Zulu Nation, network ramificato su scala planetaria – per chiarire i moventi che lo spinsero a emulare Herc, come fece l’altro “bronxiano” Grandmaster Flash, il quale osò addirittura mettersi in competizione con lui, uscendone inizialmente sconfitto ma a lungo andare vincitore per l’abilità dimostrata nel perfezionare la tecnica di (mal)trattamento del vinile mediante lo scratching e il backspinning, tanto che nel settembre 1976 diventò il primo esponente della scena a esibirsi – saturandone la capienza di tremila spettatori – all’Audubon Ballroom, luogo simbolico della storia afroamericana, siccome là era stato assassinato nel 1965 Malcolm X. Lo stesso Flash afferma in Rap Attack:
Herc commise un grave errore: si ritrovava con un impianto mostruoso ma non era granché bravo a mixare, passava piccoli breaks che però suonavano sciatti. Avevo notato che utilizzava un mixer GLI 3800, che all’epoca era molto popolare e adesso invece fa ridere, anche se rimane uno dei migliori di quella marca. Allora Herc non usava il preascolto: il mixer aveva l’ingresso per le cuffie, eppure ricordo che non se ne serviva mai. Poi un giorno, all’improvviso, lo vidi con le cuffie in testa, ma immagino fosse talmente abituato a mixare a occhio che farlo a orecchio gli risultava difficile.
A interromperne la carriera nel 1977 fu una rissa all’esterno dello Sparkle, nella quale s’intromise per difendere un amico e venne colpito da tre coltellate, due al fianco e una alla mano: ferite tali da obbligarlo a trascorrere quattro settimane in ospedale, mentre il locale fu distrutto da un incendio doloso. Era la vigilia del famigerato blackout del 13 luglio, che Grandmaster Caz – altro epigono di Kool Herc, a quei tempi nei Mighty Force e quindi nei Coldcrush Brothers – rievocava così nel libro polifonico Yes Yes Y’All: “Durante i saccheggi, tutti hanno rubato giradischi e cose simili. Ogni negozio di elettronica è stato svuotato. Ogni negozio di dischi. E questo ha fatto nascere una nuova leva di Dj”. Il fenomeno dilagava a macchia d’olio, benché non avesse ancora nome: la dicitura “hip hop” cominciò a circolare nel 1978, c’è chi sostiene per bocca di Keith “Cowboy” Wiggins, uno dei Furious Five schierati al fianco di Grandmaster Flash, e chi viceversa ne attribuisce la paternità a Lovebug Starski, che l’avrebbe inventata parodiando il cantilenare da sergente istruttore per cadenzare la marcia (il nostro “un-duè”). Certo è invece che a decretarne la visibilità mediatica fu il singolo della Sugarhill Gang Rapper’s Delight, uscito nell’autunno del 1979: presagio dell’incipiente spostamento d’attenzione dai Dj ai rapper, certificato nell’estate del 1980 dal successo di Kurtis Blow con The Breaks, primo disco d’oro dell’hip hop, a quel punto avviato a divenire la sottocultura più influente del tardo Novecento.
Clive Campbell ne ha ricavato poco, dicevamo, non avendo scritto mai canzoni né pubblicato dischi: testimonianze audio della sua avventura rimangono alcuni mixtape (Old School Mixes, su cassetta datata 1981, e un paio rintracciabile su YouTube). “Per un pioniere come Herc l’hip hop non era qualcosa che si poteva trasferire su disco, perché significava una festa al parco, un evento sociale, una pratica anziché un prodotto”, commenta Wayne Marshall in Icons of Hip Hop. Con l’arrivo del nuovo decennio scelse di lavorare da commesso in un negozio di dischi e si defilò dalla ribalta, fatta eccezione per un cammeo nel film Beat Street del 1984, anno in cui fu protagonista di un ultimo party allo Stardust Ballroom, appena prima di finire ostaggio del crack, imboccando un tunnel che lo condusse all’arresto per spaccio nel 1987: “Era morto mio padre, la mia musica declinava e le cose stavano cambiando. Non riuscivo a farcela, così ho iniziato a narcotizzarmi. Pensavo di poterlo gestire, ma era più grande di me”.
Una volta disintossicato, negli anni Novanta riprese con moderazione l’attività, partecipando a conferenze e concedendo interviste (spesso a pagamento), forte dello status di precursore riconosciutogli universalmente, oltre ad apparire in dischi altrui, tra i quali Super Bad di Terminator X, il Dj dei Public Enemy, e Dig Your Own Hole dei Chemical Brothers, rispettivamente nel 1994 e nel 1997. Dopo di che, nell’aprile 2003, il New Yorker l’ha inserito nella lista delle “cento persone che hanno cambiato New York”, mentre nel 2007 è stata lanciata la campagna per preservare l’identità dell’edificio di Sedgwick Avenue contrastandone la possibile acquisizione da parte di una società immobiliare al culmine del processo di gentrificazione del quartiere: al raduno convocato per avviarla, Kool Herc lo definì “la Betlemme dell’hip hop”, anticipandone la nomina ufficiale a “luogo di nascita dell’hip hop” sancita il 5 luglio 2007 dal New York State Office of Parks, Recreation and Historic Preservation, che lo giudicò eleggibile al National Register of Historic Places, dove a oggi per altro ancora non è stato ammesso. Interpellato nel 2014 dalla BBC, Jeff Chang ha dichiarato:
Ogni cultura necessita di un mito fondativo: sono le storie che ci parlano del tipo di valori che vogliamo trasmettere. Penso che quella della festa di Herc e Cindy, in modi di cui non abbiamo piena consapevolezza, parli del bisogno di gioia in mezzo al trambusto, del potere della creatività contro la distruzione, dell’etica del ‘partire dal basso’ attraverso la quale i giovani troveranno sempre una maniera per esprimersi.
Ciò nonostante il palazzo è stato venduto nel 2008 al prezzo di sette milioni di dollari, per quanto la destinazione d’uso sia vincolata a scopi di edilizia popolare e la concomitante crisi dei mutui subprime ne abbia bloccata la ristrutturazione, finché l’asta organizzata nel novembre 2011 per cederne la proprietà è andata deserta. Frattanto la vita aveva presentato il conto a Clive Campbell: a causa di seri problemi di salute si era trovato nella condizione di dover ricorrere a una raccolta fondi per sostenere i costi delle cure. L’eco delle sue imprese ha continuato comunque a riverberarsi: il tratto di Sedgwick Avenue in cui è situato il numero civico 1520 è stato ribattezzato Hip Hop Boulevard nel 2016, quando su Netflix esordiva la serie tv di Baz Luhrmann – supervisionata da Nelson George – The Get Down, ricostruzione romanzata dell’epopea che quattro decenni prima lo aveva visto protagonista nelle strade del Bronx.