È innegabile che negli ultimi anni ci sia stata una forte crisi nell’underground. A un certo punto, quello che si era costruito nei Novanta e che aveva portato ai bordi del mainstream determinate band e progetti dalla sostanza ostica o sperimentale riuscendo ad essere comunque una valida alternativa a livello di numeri e di idee, ecco che superati gli anni duemiladieci incomincia a sgretolarsi sotto il peso di nuove tendenze che sono direttamente correlate ai social, alle visualizzazioni, a un discorso virtuale che aggira tutta una serie di pratiche reali precedenti. Il successo della trap o dell’hyperpop, pur regalandoci eccellenze che fanno tesoro di linguaggi incompromissori, spesso e volentieri rappresentano fenomeni seriali, in contesti pop in cui il rock si ritrova fanalino di coda o quantomeno ripulito delle sue asperità. La confusione sopra e sotto il cielo porta uno dei generi più confrontational di sempre, cioè il noise, a una forte crisi di identità probabilmente scaturita dall’era Harsh Noise Wall, la cui tendenza dronica e nichilista, fatta di muri di rumore all’apparenza statico ma in realtà densa di dettagli che sfiorano il minimalismo storico, in un certo senso rappresenta un punto di non ritorno assoluto dopo il quale dire qualcosa d’altro in materia sembrerebbe non avere più senso.
Come di riflesso al mondo mainstream incastrato negli hype precotti, anche in questo territorio si è incominciato a ripetere delle formule, fino a un timido recupero a fine 2017 quando il rumore dall’analogico torna ai laptop, al digitale, trovando nuova linfa nei software riveduti e aggiornati e nella commistione con l’elettroacustica: ma ancora la ricerca in questo senso è lunga, tanto che molti si erano già arresi molto prima (pensiamo a Carlos Giffoni, che si butta sulla moda dei modulari in tempi non sospetti). Nel noise rock il crollo è piuttosto verticale, con i gruppi storici o sciolti, o riformati con altre ragioni sociali meno vendibili, o semplicemente a corto di idee e schiacciati dall’era TikTok. Tra questi, i Sonic Youth che smettono la loro attività proprio a causa di una chat sul cellulare, un Thurston Moore scoperto dalla moglie Kim Gordon a trescare con l’editrice Eva Prinz, con la quale il fedigrafo marito-collega portava avanti la sezione editoriale della sua etichetta Ecstatic Peace. Il disfarsi del gruppo simbolo del genere fu come un segnale dal cielo: non c’è più speranza per chi crede ancora nel noise come la musica popolare del futuro. E invece oggi siamo pronti ad affermare il contrario, grazie proprio all’uscita del disco nuovo di chi – appunto – ha giocoforza accelerato quel processo di cambiamento a tutto tondo: Kim Gordon.
Il nuovo album di Kim Gordon si chiama The Collective e arriva nelle orecchie come una ventata che spazza via la sabbia che nasconde enormi lastre di amianto. Riesce nell’intento quasi miracoloso di svecchiare tanto i luoghi comuni del noise rock, dell’industrial, dell’harsh o quel che si voglia quanto quelli della trap, oramai anche lei stradigerita e quasi prevedibile con le sue drum machine 808 arrotolate. La formula in effetti è così semplice che non si capisce come mai non sia venuta in mente prima ad altri: chiariamoci, a molti noiser, una volta che la trap ha preso piede, è salita la bizza di contaminare (ricordiamo anche i nostri OvO), ma di solito la bilancia pendeva più dalla parte della trap che non dal noise: in questo caso invece c’è l’idea che tutti questi generi siano implosi e ci rimangono solo le macerie: un caleidoscopio folle di frammenti di feedback, schitarrate, bassi rullo compressore e vocalità analgesiche che si rifanno alla Gordon dei più classici recitar cantando dei Sonic Youth così come all’avanguardia orale newyorkese dei sessanta, ma infilati in autotune e montati come un Soundcloud Rap che è stato dato alle fiamme, un furgone rubato che puzza di plastica bruciata e pneumatici squagliati. Si rimane spiazzati per il lavoro certosino di sovrapposizioni vocali, dei riverberi, di quegli spazi sonori che creano una psichedelia il più delle volte incoerente, completamente destrutturata, sempre sull’orlo del fallimento: e invece tutto regge alla perfezione, come quando un fachiro mangia i vetri senza tagliarsi neanche un centimetro di lingua.
Il nuovo disco di Kim Gordon è una colonna sonora che – più che denunciare – descrive la gaia idiozia contemporanea.
Questa a grandi linee la descrizione di un’opera che potremmo definire lo stato dell’arte della “trap noise”, e se c’è qualcuno che può inaugurare la risposta alla “trap psichedelica” degli ultimo periodo storico, questa è proprio Kim, dall’ alto dei suoi settant’anni. Chiaro, il test iniziale è stato proprio il primo disco solista, No Home Record del 2019: in un airbnb Gordon incontra Justin Raisen, uno dei più talentuosi produttori della sua generazione, lui le chiede una collaborazione che sfocerà poi in un intero album a sé stante. Sebbene molto bello, No Home Record non era ancora a questi livelli di perfezione formale e sostanziale: The Collective è invece esattamente la descrizione di questi tempi, di quello che le nostre anime triturate dalla società dell’apparenza e dall’insensibilità indotta dagli apparecchi elettronici sputano una volta spenti. Un drone di sottofondo che è di malessere, inquietudine, malattia mentale, competizione rancorosa pronta ad esplodere sottotraccia anche semplicemente respirando: si è catapultati in una collettività apparente e fallace che è solo quella del consumo. Anche gli stream of consciousness sembrano un lontano ricordo, oramai deformati, mutanti, immersi nella crisi di non trovare una coscienza di appoggio manco a pagarla. E The Collective parte infatti proprio da una tela di Kim esposta l’anno scorso a New York, nella quale 27 piccoli fori della grandezza di una lente di iPhone fuoriescono ed evocano i nostri neuroni bruciati dalla dipendenza da black mirror.
È quindi un disco in cui Gordon ci mette di fronte a parecchi dubbi esistenziali, atti a “destabilizzare”, come dice lei stessa: soprattutto determinati automatismi psicologici. In questo senso, è un disco politico, decisamente anarchico, che in qualche modo è una colonna sonora che – più che denunciare – descrive la gaia idiozia contemporanea, tanto che con ripetuti ascolti diventa tutto quasi pop, ascoltabile (insomma ci si abitua a tutto): salta la patina del rumore e della frammentazione da mattatoio musicale e ci ritroviamo probabilmente dietro i Beatles, quelli dei dischi che non stancano mai e che ogni volta che li metti sul piatto fai caso a un particolare sonoro che ti era sfuggito. Nonostante sia chiaro che la nostra eroina si sia portata nelle terre dove i giovincelli non osano poiché, come spesso accade a chi ha una certa, lei oramai non ha nulla da perdere ma loro sì, sono piovute delle critiche in un certo senso prevedibili dall’intellighenzia musicale dura e pura.
Ma come, è “anziana” e si mette a flirtare con suoni “giovani” e con un produttore come Raisen che è stato la causa del successo di Lil Yachty, Drake e Yves Tumor? E come osa fare canzoni così “brutte”? Chi si crede di essere, la Yoko Ono dei Sonic Youth? Beh, analisi del genere sono piuttosto naif: parliamo di una che in pieno trip punk/diy/no wave di fine settanta si è inventata uno stile. Nei Sonic le sue canzoni erano francamente tra quelle meno “furbe”, anzi probabilmente le più ostiche per testi e per il modo di cantare particolarmente inusuale paragonabile a una rosa con grosse spine; come bassista è sempre stata una specie di carrarmato, colonna portante a reggere le dissonanze del resto della band e a sua volta mitra capace di roboanti proiettili terra aria. Il suo socio in questa avventura (appunto, Raisen), non è un improvvisato ma anzi, oltre ad avere un retroterra emopunk è forse uno dei pochi a tracciare un filo conduttore tra roba come John Cale, Ariel Pink e Kid Cudi non rimanendo schiavo dell’attualità. Per il resto, l’innata capacità di Kim Gordon di pensare all’arte come qualcosa a 360 gradi (ricordiamo che è laureata in belle arti) di cui la musica è uno dei vari tasselli, ha permesso ai Sonic Youth di avere delle fondamenta visual/estetico/programmatiche di assoluta coerenza e inventiva, con una poetica “militant/surrealista” imbattibile.
Si rimane spiazzati per il lavoro certosino sugli spazi sonori che creano una psichedelia il più delle volte incoerente, sempre sull’orlo del fallimento: e invece tutto regge alla perfezione.
Solo per questo, dovremmo appunto pensare a The Collective come un’appendice della tela sopracitata: pensato come collage più che opera di pennello, nasce proprio da uno scambio di file serrato tra Risen e Gordon, appunto una sovrapposizione di pezzi di carta musicali in una lotta che si conclude quando uno dei due si arrende stremato fino ad ottenere la giusta deturpazione del pezzo, o se vogliamo la cancellazione del concetto stesso di brano (il favoleggiamento sulla tecnica di composizione del disco che gira in rete è accessorio: si tratta in fondo di un assecondare il caso dandogli dei minimi binari), tanto che echeggia l’esperienza di Kim con le Harry Crews di Lydia Lunch. Stessa cosa i testi: per l’appunto affidati a flussi “di incoscienza”, a quello che Raisen chiama “abstract poetry shit” inducendo Gordon a produrne.
La nostra Kim passa di palo in frasca sondando quelli che sono i rifiuti della nostra psiche bombardata: che si tratti di una lista della spesa, di sesso o di mondanità effimera, di pensieri random sull’arredamento della casa che vengono disturbati da una vocina interiore che dice “ciuccialo, e vaffanculo”, oppure di una descrizione della Los Angeles arty e hipster nella quale vengono elencate una serie di droghe ben precise, tanto appetitose quanto inutili – ancora una volta – orpelli del consumismo (LSD, MDMA, magic mushrooms), c’è sempre un sentore quasi minaccioso e inquieto di un tempo che non si riesce ad afferrare. L’apoteosi è “I’m a man”, nella quale Kim torna ai fasti di “Kool thing” contenuta in Goo dei Sonic Youth, riflettendo ancora una volta sulle contraddizioni del carattere maschile e femminile, stavolta analizzando il maschio come una figura senza più direzione, persa nel nulla,un personaggio schiacciato da se stesso: “Non sono l’ideale / Sono una persona / Ho vinto la guerra ma ho perso la strada / Ma posso comprare / Tanto quanto chiunque altro / Vorrei radermi la barba, proprio così / Mi faccio la manicure alle unghie / Indosso una gonna / Ma alla fine della giornata / mi sono perso”.
Confusion is Sex, per usare una autocitazione: ma sarebbe troppo facile questo rimando. L’ispirazione primaria del disco viene infatti da un discorso distopico calcolato al millimetro, dove la confusione non ha in realtà posto ma è stata superata da un nuovo dis/ordine mondiale: tutto è contenuto nel brano “The Candy House”, che è il titolo di un romanzo del 2022 della scrittrice Jennifer Egan. Nella storia c’è uno strano, nuovo dispositivo noto come “Coscienza collettiva”: puoi caricare i tuoi ricordi lì e ti è permesso accedere ai pensieri e ai ricordi di tutti coloro nel mondo che hanno fatto lo stesso, senza sapere chi sia chi. Il disco di Kim Gordon è esattamente questo: ci troviamo proiettati nella mente del mondo, nella sua fragilità, come guardando in innumerevoli buchi della serratura psichici. Siamo in fondo degli inarrestabili proiettili di gomma sparati contro a un muro che non vediamo all’orizzonte ma sappiamo attenderci al varco. Parafrasando il testo di “The Candy House”, ascoltando l’album “raccolgo il vomito dal pavimento / Una merda di cui avevo bisogno”.