N ell’arco della sua esistenza, vissuta a cavallo di tre secoli, Juan Filloy è stato davvero una rara avis. Come il filatelista con i francobolli ha collezionato e incastrato esperienze, parole, intere vite: poi le ha concentrate in una sola, imprevedibile parabola. È stato un lodevole e rispettato magistrato, un sopraffino e assai prolifico autore, ma anche eccelso nuotatore, giocatore di golf, co-fondatore del Club Tallares de Córdoba (uno dei più antichi club calcistici albiceleste), nonché arbitro di boxe: nel 1922 diresse il match tra Luis Ángel Firpo e Joe Boykin, a Río Cuarto. Se Córdoba gli ha dato i natali, è a Río Cuarto che vanno cercati i lasciti, le testimonianze, che va inseguito il fantasma di Filloy.
Nella cittadina giunse agli albori degli anni venti per “vedere com’è che si stava”. Nelle intenzioni vi si sarebbe stabilito per soli due mesi: finì per fermarsi sessantaquattro anni, sposarsi, mettere al mondo quattro figli. Esordì come autore negli anni Trenta, quando diede alle stampe Periplo, la sua opera prima, che meritò menzioni autorevoli anche sulle colonne de La Nación. Fecero seguito altri sei libri: poi, per trent’anni circa, Filloy non pubblicò più nessun volume. Impegnato, in quel frangente della sua vita, ad adempiere le funzioni di magistrato, si impose un silenzio forzoso, con il quale intendeva mettersi al riparo da ricatti, costrizioni e sanzioni che la lingua impudica regolarmente utilizzata nei suoi testi (unita a una spiccata vena polemica) avrebbe potuto causargli.
Magistrato, nuotatore, giocatore di golf, arbitro di boxe e autore prolifico: Juan Filloy ha collezionato esperienze e vite intere e poi le ha concentrate in una sola.
Questo non significa che abbandonò la scrittura. Il suo motto era nulla die sine linea. “Per me, scrivere è un vice impuni”, sosteneva. Conservava i manoscritti in una cassetta metallica, costringendoli ad aspettare per la pubblicazione. Manteneva un isolamento volontario, una riservatezza a tratti irritante. Diceva: “la vita letteraria è meglio prenderla come la prendo io, senza alcun proposito venale, riconoscendo alla volontà autoriale la precedenza su lettore, editore, critica. Io scrivo quello che ho voglia di scrivere”.
Per provocazione, o estrema accondiscendenza al suo spirito più profondo, dal 1973 in avanti rifiutò ogni proposta editoriale, avrebbe esclusivamente pubblicato edizioni private, d’autore. Si affidava a stamperie che producevano volumi molto eleganti, con tirature mai superiori alle cinquecento copie, che l’autore stesso inviava a lettori che soleva considerare “forti”: ne fece un tratto distintivo della sua produzione letteraria. “Credo che la mia scarsa risonanza tra le masse sia dovuta a questo: non ho mai fatto un ufficio stampa, e non so come sia fatta una redazione dei quotidiani di Buenos Aires”. Si definiva socialista, anche senza essere un militante. Scrisse uno dei primi romanzi anti-dittatoriali degli anni Settanta (Vil y vil), che venne censurato dalla giunta militare. Nel 1976, a più di 80 anni, lo interrogarono in una caserma di Río Cuarto: e lui, con la caratteristica impassibilità, finì per dare una lezione di letteratura ai colonnelli che l’avevano convocato.
Stravaganza
Juan Filloy era un lavoratore indefesso e sistematico: un cervello in ebollizione. Lavorava in pigiama, perché il pigiama, diceva, era la sua tuta da lavoro. Ma sotto quel tessuto a righe si celava un autore col sangue ch’era un vulcano, una vera enciclopedia vivente, e la sua opera era un compendio di saggezza, senso comune, anti-ipocrisia e irripetibile esercizio della libertà. Parodia, e burla, erano il suo stile, e la sua eleganza. Si era dato poche regole letterarie, Filloy: nella sua stravaganza assumevano i contorni di vezzo.
Il primo: avrebbe pubblicato libri il cui titolo sarebbe stato sempre di sette lettere. Il secondo, che era più che altro una sfida: pubblicare tanti libri quante sono le lettere dell’alfabeto (spagnolo), e dare a ognuno di loro un titolo che iniziasse per una lettera diversa. Si vantava d’aver scritto nella sua vita più sonetti di Petrarca, Quevedo e Gòngora. Era un grande appassionato di palindromia, arte nella quale eccelleva e di cui vantava essere recordman imbattuto e imbattibile.
Ricorda in un’intervista: “pochi sanno che sono il campione del mondo della palindromia. In nessuna lingua, in nessun posto qualcuno ha scritto tanti palindromi quanti ne ho scritti io”.
“Noialtri argentini siamo campioni nel calcio, vero, ma pochi sanno che io sono il campione del mondo della palindromia. In nessuna lingua, in nessun posto esiste qualcuno che abbia scritto tanti palindromi quanti ne ho scritti io (più di ottomila, sembrerebbe, NdA). Ho scritto un trattato, Karcino, unico al mondo. Perché quella spagnola è la lingua più palindromica del mondo”. Karcino, in greco, significa granchio: spiegava sempre Filloy di averlo intitolato così, il trattato, perché come il granchio cammina di lato, allo stesso modo si leggono i palindromi.
“Nel 1964 portai al segretario perpetuo dell’Academia Española, don Julio Casáres, il mio libro Estafen!, dove ci sono un centinaio di frasi palindromiche”, ricorda in un’intervista. “Il record, a quel tempo, era ancora di Leone VI, imperatore di Costantinopoli, che ne aveva pubblicate ventotto in uno stesso scritto. Casáres analizzò il volume, e Cazzo!, disse, non ne conosco nemmeno una! Siccome mi piacevano molto i giochi d’intelligenza, m’ero messo a studiare le parole. Bisogna conoscere molto bene la morfologia, per fare i palindromi. Sono un intrattenimento lessicografico che hanno praticato tutte le grandi figure della letteratura mondiale, a cominciare da Dante, passando per Shakespeare. Chiaro che mi rendo conto che al mondo non ci sia un altro fannullone come me che perda tempo con queste cose”.
L’eredità di Filloy
“Copiosa, nutriente, tutta l’opera di Filloy è di una precisione linguistica incomparabile”, ebbe a dire un tempo Mempo Giardinelli. “E il silenzio al quale è stata condannata rappresenta uno dei crimini più inspiegabili della letteratura argentina”. Eppure, nonostante la scarsa diffusione delle sue opere, l’influenza di Filloy sulla letteratura argentina è innegabile, a tratti più evidente che dichiarata. È stato ispiratore e precursore: in Yo, yo y yo, ad esempio, compare un saggio su Walt Disney che anticipa di anni quello di Ariel Dorfman. E se non si può dire che Op Oloop sia inconfutabilmente il padre de Il Banchetto di Severo Arcangelo di Leopoldo Marechal, ecco, ne è quantomeno uno zio vicinissimo.
Forse Julio Cortázar è stato uno dei pochi ad avere la delicatezza di ammettere l’influenza esercitata da Filloy. Gli ha riservato una menzione in Rayuela, in cui a Horacio Olivera fa dire “non ce l’hanno, loro, un Filloy che gli scriva Caterva. Che ne sarà di Filloy, amica mia?”. E la maniera in cui il passo continua finisce per stigmatizzare l’accoglienza che le lettere patrie stavano riservando a Filloy: “Naturalmente la Maga non poteva saperlo, tanto per cominciare perché ignorava la sua esistenza. Gli toccò spiegarle perché Filloy, perché Caterva”.
Iconoclasta, meno ancien régime di quanto fosse lecito aspettarsi, Filloy aveva le idee chiare sullo stato dell’arte della letteratura argentina di metà diciannovesimo secolo. Di Borges, in un’intervista, dichiarò: “è davvero molto caro nel ristampare alcuni dei suoi libri pubblicati venti anni fa; intercala poesie e racconti di altri volumi datati, e così continuano ad apparire libri nei quali solo una minima parte è davvero originale. […] C’è da capirlo, ha avuto un’educazione molto limitata, impartitagli da educande inglesi o francesi. La sua visione della vita nazionale è stata, come dire, molto rudimentale. Se solo avesse dedicato gli stessi sforzi professati nell’investigazione della letteratura inglese a quella nazionale…”.
Nonostante la scarsa diffusione delle sue opere, l’influenza di Filloy sulla letteratura argentina è innegabile, a tratti più evidente che dichiarata.
Una simpatia mai sbocciata, quella tra i due: “Moltissimi anni fa, quando eravamo giovani” racconta ancora Filloy “gli inviai una copia del mio libro Estafen!. Un’edizione d’autore, che gli dedicai come si faceva allora: Con affetto, Juan Filloy. Anni dopo mi trovai, nonostante il mio odio per i cittadini della capitale, e per la capitale stessa, a Buenos Aires per lavoro. Andavo spesso alle librerie Corrientes, dove si trovavano volumi che a Cordoba era difficilissimo reperire. Cercando tra i libri usati ne trovai uno mio. Era Estafen!.
Mi sembrò strano, perché io facevo solo edizioni private. Quando lo aprii, trovai con sorpresa la mia dedica: era il libro che avevo regalato a Borges. L’aveva venduto, ma non lo condanno per questo: magari aveva bisogno di soldi. Non glielo rimproverai mai, non sarebbe stato molto gentile. Feci qualcosa di peggiore. Comprai il libro, me ne tornai a casa e glielo inviai ancora una volta per regalo. Sotto la prima dedica aggiunsi: Con rinnovato affetto, Juan Filloy”.
Filloy è morto nel pomeriggio del 15 luglio 2000, pochi giorni prima che compisse centosei anni, durante la siesta pomeridiana. “Voglio essere l’unico scrittore al mondo a vivere in tre secoli contemporaneamente”, ripeteva sempre. Era la sua ossessione. Ci è riuscito. A chi gli chiedeva di rivelargli il segreto della longevità, sempre mostrava una foto di quand’era bambino, un dagherrotipo della sua classe nella scuola rurale General Belgrano. Era l’unico che rideva: tutti gli altri bambini sembravano spaventati. E poi mostrava l’ultima foto scattatagli in pubblico, durante la consegna di un riconoscimento, in compagnia di ottuagenari colleghi. E anche in quella: era l’unico sorridente. “Eccolo, il trucco, diceva: io sono quello che se la ride in mezzo a tanta solennità”.