H o sempre pensato che il fumetto sia ancora un’arte sottosfruttata: il fatto di costare poco gli permette di fare qualunque cosa, e di fronte a un dato così incontrovertibile è evidente che sono poche le cose che gli sono state fatte fare finora; in particolare – per quanto negli ultimi anni tra Fort Thunder e i nostri Superamici/Fratelli del cielo ci si sia tolta qualche soddisfazione – mi pare sottosfruttato il suo potenziale visionario. Nell’origine stessa del medium, del resto, c’è il seme della visione: accettando come buona per la nascita del fumetto la data convenzionale del 1896 di Yellow Kid (volendo essere pedanti andrebbero tirati fuori i “racconti per immagini” 1827 dello svizzero Rodolphe Töppfer), è solo nove anni più tardi che col Little Nemo di Winsor McCay il medium offre uno dei suoi picchi visionari (oltre che picchi tout court), e sebbene la parola giusta per il decisivo Krazy Kat di George Herriman sia “metafisico” (nel senso dechirichiano del termine), anche visionario gli si confà. E tuttavia, salvo in presenza di ondate visionarie che hanno abbracciato la cultura in generale, come la rivoluzione psichedelica che alimentò i Crumb e i Moebius (o i suoi cascami settantasettini che portarono il nostro Pazienza a Penthotal), il fumetto pare quasi mostrare pudore rispetto alle proprie stesse possibilità nel campo della visionarietà, che pure tanto ha alimentato e alimenta le altre arti. Anche dal Giappone, che ai salti di immaginario ci ha abituati da sempre, non sono arrivati troppi lavori in questa direzione: vengono in mente Ultra Heaven di Keiichi Koike e il lavoro di Shintaro Kago, ma non molto più – forse giusto il Miura più ispirato, quello dei capitoli dell’eclisse in Berserk, che comunque deve quasi tutto a Bosch, Bruegel e Doré.
È stato forse per questa ragione – e non per altre, credo, dato che il volume era in posizione defilata, ce n’era una sola copia e l’autore era sconosciuto tanto a me quanto al ragazzo che stava al banco – che un paio di anni fa, sul banco Coconino Press di Lucca Comics mi cadde l’occhio su un libro rosso, dalla copertina inequivocabilmente triptaminica: c’era un ibrido uomo-maiale che si spaventava per il sorgere dal suolo di una enorme e perturbante gemmazione biologico-psichedelica. Il tutto, però, realizzato in un bianco e nero estremamente fine e dettagliato, simile a un’incisione. Di più: a un’incisione di Dürer. Era Weathercraft di Jim Woodring, che Coconino aveva portato in Italia, e che in Italia era rimasto sostanzialmente inosservato, tant’è che il libro, che nel frattempo avevo comprato, era né più né meno una resa, essendo datato 2010 (ancora peggio era andato un altro tentativo di portare in Italia un’opera, pur capitale, di Woodring: Frank uscì per l’oggi defunta Free Books nel 2006 e fece così tante rese che ancora oggi lo si può trovare in giro per librerie dell’usato, a metà prezzo – io stesso l’ho recuperato così).
Nel frattempo però Jim Woodring, che aveva cominciato autoproducendosi con storie sì bizzarre ma ancora lontanissime dalla sua cifra matura (arrivata in età essa pure matura, dato che all’uscita di Weathercraft l’autore andava per i sessanta), aveva poi abbandonato il fumetto per fare lo spazzino, aveva ripreso a disegnare, aveva nuovamente abbandonato il fumetto per dedicarsi alla sola illustrazione, e poi aveva ripreso nuovamente il pennino nel 2010 proprio con Weathercraft, aveva cominciato ad accumulare premi su premi, alimentando prima il più classico dei “piccoli culti” e poi esplodere, fino a venir considerato, questa è la situazione oggi, come uno dei migliori fumettisti americani in assoluto, al pari e in alcuni casi più dei vari Burns, Tomine e Ware nei gusti del pubblico colto, restando però capace di farsi amare dall’underground e di ottenere elogi fuori dal campo fumettistico – non ultimo quello di Terry Gilliam.
Oggi Coconino rilancia Jim Woodring in Italia e lo fa col libro che, assieme al “gemello” Frank, pure in via di pubblicazione, è forse l’opera più significativa di Woodring oggi, Il congresso degli animali. Per capire però la rilevanza estrema di Woodring, e di questo libro, è necessario fare di nuovo un passo indietro fino all’origine stessa del medium. Il fumetto è infatti, prima ancora che combinazione testo-immagine (in tal caso lo stesso Woodring vi sarebbe compreso solo raramente, dato che i suoi lavori sono sostanzialmente privi di testo, se non le rare volte in cui compare un cartello), arte sequenziale. Ne consegue che il suo campo di esplorazione naturale, oltre che la parola e l’immagine, sono i rapporti causa-effetto. Sorprenderà allora vedere quanto rari siano i fumettisti che hanno provato a usare il fumetto per forzare questi rapporti, e tentare di creare relazioni nuove tra immagini, azione reale o presunta, e significato. Fino a qualche tempo fa mi sarebbe venuto in mente giusto il Powr Mastrs del “fortthunderiano” Christopher Forgues e l’A.L.I.E.E.N. di Lewis Trondheim, altro fumettista che meriterebbe più notorietà (e una pubblicazione più organica) in Italia. Lì Trondheim, immaginando un buffo mondo alieno, esplorava relazioni causa-effetto esse pure “aliene”. Ma quello che fa Woodring va molto oltre.
In ogni libro di Woodring, siamo di fronte a un viaggio iniziatico, ma fatto in piena consapevolezza, laddove “consapevolezza”, in un fumetto, è anzitutto il dominio del linguaggio
Nel mondo dell’Unifactor, che l’autore americano aveva cominciato a delineare nelle storie di Frank – le quali però avevano un carattere brevissimo, quasi da striscia, e tendevano così a farsi scambiare per nonsense à la Krazy Kat – tutto avviene per un motivo preciso, cagiona effetti imprevedibili ma chiari, che paiono seguire rapidissime linee karmiche, eppure niente avviene come nel nostro mondo. È facile sottovalutare la coerenza di questi processi – ogni libro di Woodring richiede necessariamente più letture – ed etichettare l’autore, come spesso è avvenuto, con termini quali “onirico” o “surrealista”, ma siamo lontani dalle modalità operative dei sogni o dalla visionarietà giocata sugli accostamenti propria del surrealismo: le visioni di cui stiamo parlando, quelle del cespite mistico e psichedelico, si generano in flusso, secondo grammatiche di consequenzialità differenti da quelle dell’attività onirica – in questo senso un omologo letterario di Jim Woodring potrebbe essere il rumeno Mircea Cărtărescu – e una storia di Woodring, la cui maturità artistica peraltro si articola oggi in tre soli volumi, questo Congresso degli animali, l’imminente Fran e il precedente Weathercraft, è più simile a una sessione di ayahuasca che a un sogno o a un gioco intellettuale.
Nonostante il protagonista sia una sorta di gatto-castoro umanoide in guanti bianchi da cartone animato, si percepisce sottotraccia qualcosa di molto serio in quello che leggiamo nei suoi libri. In effetti, dell’“ambito visionario”, Woodring riesce a trasmettere anche una delle caratteristiche più inafferrabili: l’idea di aver esperito qualcosa di “più vero del vero” e dotato di una sua logica stringente, ancorché ineffabile, il che va oltre la sola vicenda raccontata, e le sole immagini viste, senza però farsi allegoria. Così si può, se lo si vuole, riferire che Il congresso degli animali racconta la storia di un ingenuo animale antropomorfo di nome Frank dal momento in cui gli crolla la casa in una voragine a quello in cui trova l’amore, ma avrebbe poco senso; forse ne avrebbe un po’ di più dire che, come ogni libro di Woodring, siamo di fronte a un viaggio iniziatico, ma fatto in piena consapevolezza, laddove “consapevolezza”, in un fumetto, è anzitutto il dominio del linguaggio.
Di quello consequenziale, e di quello grafico: è lì che Woodring offre il suo definitivo sfoggio di maestria: se ancora ai tempi del primo Frank si era di fronte a una semplice manipolazione dei codici d’origine del filone dei “funny animals” – su tutti Ub Iwerks, con Flip the Frog, Oswald the Lucky Rabbit e ovviamente il primo Topolino – e delle successive operazioni di sovversione e risemantizzazione, come lo Squeak the Mouse di Massimo Mattioli (Frank, essendo, nelle stesse dichiarazioni dell’autore, fuori da qualunque attribuzione di specie, è di fatto il “funny animal” definitivo), oggi, mentre la qualità delle tavole si affina – nel Congresso degli animali non se ne trova una che non abbia un proprio valore artistico e una propria compiutezza anche presa da sola – il campo d’azione grafico di Woodring si spinge in varie direzioni, e vi si ritrovano così a un tempo i mondi immaginari dei libri illustrati di Claude Ponti assieme a quelli del Moonin di Tove Jansson, le incisioni di Doré e del succitato Dürher, la lezione del conterraneo Burns e le visioni di un Dalì che ha abbandonato sogni e mescalina in favore di cartoni animati e DMT; volendo, vi si possono cercare (e trovare) tracce di H.R. Giger come di Jack Kirby, nonché, per tornare ancora una volta alle origini del medium, dello stesso McCay, del Bibì e Bibò di Rudolph Dirks (o, trascendendo il fumetto, dei loro ispiratori Max e Moritz di Wilhelm Busch), ma farlo rischia di essere un esercizio sterile, perché la sintesi di Woodring è di quelle che, pur venendo dalla piena consapevolezza delle fonti più che dal singolo strappo, spalancano per sempre un nuovo immaginario.