Q uando aveva tredici anni, Jim O’Rourke suonava Piano Phase di Steve Reich assieme al suo compagno di classe del liceo cattolico, esclusivamente maschile, che frequentava. Un professore, una sorta di fratello gesuita, vedendolo interessato alla musica gli regalò una copia del fondamentale Musica sperimentale di Michael Nyman. Quel libro cambiò il suo modo di vedere le cose, la musica soprattutto: il modo di ascoltarla, ovviamente, e di suonarla. Iniziò a imitare le gesta raccontate nel libro, personaggi che erano riusciti a sfondare le rigide barricate della musica accademica, spesso proprio dall’interno di quel perimetro che reputavano troppo rigido e poco incline alle forme aperte e anarchiche delle loro intuizioni. Formò gruppi su gruppi che duravano il tempo di poche prove, ma sperimentò molto anche da solo. Rimase rapito dalla foto di Gavin Bryars che chiudeva il paragrafo del libro dal titolo “Sistemi non trasparenti o che ne cancellano altri” del capitolo “Sistemi elettronici”, in cui veniva raffigurato come un maniaco notturno, con un cappotto aperto che conteneva registratori e oggetti che riproducono suoni. Bryars stava lavorando con l’elettronica sull’effetto di trasmissione segreta nei confronti dell’uditore. O’Rourke si procurò subito un impermeabile della Salvation Army e ci cucì dentro dei registratori per poi andarsene in giro per negozi a emulare Bryars.
La musica sperimentale non era solo un modo per mettere in pratica la sua più grande passione, divenne un vero e proprio stile di vita. Nato nel 1969, O’Rourke non aveva avuto l’opportunità di viversi la parte finale del rumorosissimo movimento no wave newyorkese, come avevano fatto i suoi futuri colleghi Sonic Youth. La scena a lui coeva che in qualche modo riusciva e rievocare – e in alcuni casi a proseguire – parte dello spirito dei protagonisti di quel libro era il post-rock. Un genere con un pubblico eterogeneo che variava dal professore universitario di etnomusicologia all’hipster puro, ma nel mezzo vi era anche un folto gruppo di sostenitori che provenivano dall’indie. Era del tutto naturale dal momento che la musica cosiddetta d’avanguardia – a seconda dei casi, più o meno consapevolmente – aveva influito non poco nell’eclettismo di moltissimi gruppi, come ad esempio Mission Of Burma, Butthole Surfers e naturalmente Sonic Youth. Lee Ranaldo e Thurston Moore si conobbero proprio grazie a Glenn Branca, uno dei padri della no wave, ma quella no wave con un’ascendenza tutta direzionata verso l’avanguardia, e solo dopo decisero di formare i Sonic Youth.
O’Rourke ha contribuito in maniera determinante alla costituzione di un suono inedito e stravagante, servendosi dei linguaggi del jazz, del kraut e soprattutto dell’effettistica digitale.
Se c’è una persona che ha saputo mettere a frutto l’insegnamento della filosofia indie dagli anni Novanta a oggi è proprio Jim O’Rourke. Il musicista e produttore statunitense è stato tra gli alfieri del post-rock e ha collaborato con i pesi massimi della musica sperimentale. Ha suonato e prodotto dischi che hanno spesso sfociato nel pop; non solo, è stato anche autore di alcuni album pop perfetti. Insomma, O’Rourke è stato un personaggio fondamentale per un certo tipo di pop non convenzionale del nostro millennio.
La carriera di O’Rourke è inevitabilmente legata alla nebulosa galassia di “sperimentazione cronica” che era la Chicago dei primi anni Novanta. Ha contribuito in maniera determinante alla costituzione di quel suono che, proprio in continuità con il “chitarrismo indie” americano, provava a costruire forme sonore inedite e stravaganti servendosi dei linguaggi del jazz, del kraut e soprattutto dell’effettistica digitale. O’Rourke chitarrista (ma anche polistrumentista) militava infatti in alcuni dei principali gruppi di quella scena, vale a dire Brise-Glace e Gastr del Sol. Oltre a questo, e alla sua carriera da solista, si aggiungeva il suo lavoro di produttore. Nel giro di pochi anni il suo nome divenne un punto di riferimento per coloro che ricercavano quelle sonorità. Solo per citarne alcuni, si affidò alle sue mani gente come Stereolab, Superchunk, U.S. Maple, Flying Saucer Attack, poi arrivarono presto collaborazioni con leggende della musica off del calibro di Derek Bailey, i The Red Krayola, Mayo Thompson. In perfetta armonia con la sua attitudine, iniziò a suonare con i Sonic Youth fino a diventarne membro fisso, dal 2005 allo scioglimento del 2011.
I Sonic Youth di quell’ultima fase sembravano aver dato già dato il meglio di loro stessi, l’ultimo disco davvero importante era probabilmente A Thousand Leaves del 1998. Un gruppo che dalla fine degli anni Settanta fino ai Novanta pieni è stato capace di infastidire i padiglioni auricolari di milioni di giovani, oltre ad aver contribuito alla nascita di una certa fascinazione nei confronti di un immaginario rumoroso, sporco, a volte decadente, altre volte arty, sempre decisamente underground. I Sonic Youth sono stati un punto di smistamento cruciale per il movimento indie, hanno fatto suonare centinaia di gruppi a New York e hanno costruito un network importante in giro per il mondo fatto di contatti, accesso ai locali e distribuzione. Jim O’Rourke era almeno un decennio più giovane dei membri dei Sonic Youth, ma il suo spirito era decisamente affine al temperamento rumoroso e sinistro, ma al tempo stesso aggregativo, del gruppo americano. Inoltre, i Sonic Youth e O’Rourke avevano un’altra cosa in comune. I Sonic Youth avevano fatto il loro ingresso nei Novanta smarcandosi dalle asperità molto acute che avevano caratterizzato capolavori come Evol o Bad Moon Rising, per sperimentare con arrangiamenti più in linea con il pop. Infatti Goo e Dirty erano dischi prevalentemente pop.
La loro collaborazione inizia nel 1999. Ma in quell’anno arriva anche Eureka, disco ambizioso, non privo di momenti notevoli, che rappresentò una sorta di spartiacque nella sua carriera. Nulla a che vedere con i rumorismi che tanto piacevano al gruppo di New York: in Eureka si respira una calorosa pacatezza da salotto rustico e maglioncino di lana merino. Chitarra acustica e piano prevalgono su tutto, le influenze sono principalmente John Fahey, che aveva omaggiato più volte nel corso della sua carriera con i Gastr del Sol e con l’ottimo precedente album Bad Timing, e Burt Bacharach, che omaggerà invece qualche anno dopo con il disco di cover All Kinds of People: Love Burt Bacharach. Gli intarsi acustici non sono malignamente penetranti come nei capolavori dei Gastr del Sol, ma diventano fragorosi sostegni di melodie piene di crescendi caratterizzati da gioia agrodolce. Non mancano le atmosfere sognanti e cinematiche (l’iniziale “Prelude to 110 or 220/Women of the World” e l’omonima “Eureka”), così come si dà spazio a sofisticati momenti addirittura bossanova (“Ghost Ship in a Storm” e “Please Patronize Our Sponsor”).
Ma laddove questo album risultava a volte lezioso, Halfway to a Threeway, l’EP uscito pochi mesi dopo Eureka, appare molto più bilanciato e più centrato sull’intima essenza dei brani. Sono solo quattro brani divisi in poco più di venti minuti, ma restano tra le cose migliori scritte da Jim O’Rourke nell’ambito pop. Si sente molto di più il chitarrismo faheyano fatto di arpeggi malinconici che evocano inquietudini americane, ma senza quell’asprezza che sa di folklore, minimalismo e circoli avantgarde. C’è un’intimità che non sfocia mai nel solipsismo e che precede in qualche modo le prodezze autoriali di Kurt Vile, probabilmente il maggior cantautore degli anni Dieci. La peculiarità di O’Rourke sta forse proprio nel celare il suo pedigree di autore avant e di abbandonarsi alle rotondità del pop, con una sincerità ammirevole e inedita, se si considera il circuito da dove proviene.
Halfway to a Threeway è il crocevia perfetto tra il pop barocco di Eureka e il pop perfetto del successivo Insignificance. Questi sono gli anni cruciali in cui O’Rourke forgia il suo sound, un modello che ha influenzato molta della musica a venire, americana e non solo. Tra gli ultimi anni del vecchio millennio e i primi del nuovo produce anche i suoi lavori ambient più riusciti e sofisticati, I’m Happy, and I’m Singing and a 1, 2, 3, 4, il breve EP Despite the Water Supply e i primi due dischi con Christian Fennesz e Peter Rehberg a nome Fenn O’Berg (The Magic Sound of Fenn O’Berg e The Return of Fenn O’Berg).
I sette pezzi che compongono Insignificance sembrano un asciutto condensato del suono indie e della canzone d’autore americana – ovviamente quella canzone d’autore che deriva dal filone lo-fi indie privo di retoriche e compiacimenti. Ci sono tutti gli eventi sonori che compongono il mondo di O’Rourke. Il brano di apertura, “All Downhill from Here”, inizia tiratissimo per poi sciogliersi in un morbido piano. C’è la cornetta di Rob Mazurek, improvvisatore jazz della scena di Chicago, che ha collaborato più volte con O’Rourke. Come questo, Glenn Kotche e Jeff Tweedy dei Wilco, presenti in gran parte dell’album. E infatti la domanda sorge un po’ spontanea: saranno stati i Wilco a influenzare Jim O’Rourke, o viceversa? Probabilmente la risposta non è così importante. È utile però sapere che O’Rourke supervisionò e suonò in studio con i Wilco durante le session del loro album più celebre, Yankee Hotel Foxtrot, per poi produrre il successivo A Ghost is Born. I Wilco sono noti al pubblico per il loro alternative country, per questi e altri dischi tra cui Mermaid Avenue, un album in collaborazione con Billy Bragg in cui davano voce a dei testi inediti della leggenda country Woody Guthrie: una raccolta che ricevette numerosi consensi, ma che fu criticata da Bob Dylan nella sua biografia Chronicles – Volume 1, dal momento che lo stesso Guthrie aveva inizialmente destinato quei testi allo stesso Dylan.
Tutto questo solo per mostrare quanto fossero distillate le influenze di O’Rourke sulla canzone d’autore americana – e quanto del suo suono si ritrovi poi nei due sopracitati e pluripremiati dischi dei Wilco: quelli, per intenderci, che piacciono anche a chi non piacciono i Wilco.
Tornando all’album: “Insignificance” – l’omonimo brano – si apre con una chitarra e un piano romantici, degni delle colonne sonore di Morricone, per poi dare spazio a un altro omaggio a Burt Bacharach. “Therefore, I Am” sembra uscire dal glam di David Bowie, con una batteria meccanica e martellante che regola strofe che più indie non potevano essere: “Me, I’m getting better everyday/That’s what I said, don’t believe what you’ve heard”. Parole che sembrano descrivere il bellissimo artwork di Mimiyo Tomozawa, in continuità con quello di Eureka. Il ritornello di “Therefore, I Am” avrebbe potuto invadere le radio e le tv se solo il brano fosse stato scritto dai Blur. “Memory Lame” chiude la prima parte del disco in maniera acustica; “Good Times”, “Get a Room” e “Life Goes Off” proseguono su questa scia intimissima.
Siamo nel 2001, un periodo in cui impazzano le candide chitarrine del New Acoustic Movement, i banji e le armoniche dell’Americana più roots, e Insignificance si va a porre come una sorta di avamposto che aggiunge una buona dose di trasversalità all’austera rigorosità di certi generi. Sui ricercatissimi suoni di Insignificance ci si potrebbero scrivere saggi – si prestano moltissimo a giochi citazionistici: le chitarre non hanno mai suonato in maniera così perfetta, in bilico tra il rumore bianco degli Hüsker Dü e il vellutato ovattamento di certo psych-folk –, ma il tutto è messo lì in maniera per nulla autoreferenziale e compiaciuta. Il disco si chiama Insignificance, il vinile è custodito all’interno di una mutanda con raffigurato un polipo che sodomizza una specie di neonato calvo con i baffi e in più c’è un poster con un vecchio seduto su un albero che si tiene in mano il pene legato a due uccelli che svolazzano sopra di lui. Ma il prendersi poco sul serio, o quantomeno il farlo in un modo non fastidioso, non significa affatto lasciare le cose al caso o cercare di farle apparire in questo modo. Il titolo dell’album deriva infatti da un film di Nicolas Roeg, in Italia tradotto col titolo La signora in bianco; lo stesso era successo per Bad Timing, Eureka e The Visitor, tutti nomi tratti da film di Roeg.
Nel frattempo O’Rourke produce Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco e pochi mesi dopo, sempre nel 2002, sforna con quello che ormai è il suo gruppo, i Sonic Youth, uno dei dischi più belli della loro carriera: Murray Street. Non è il classico album dei Sonic Youth. La particolarità di Murray Street risiede infatti nell’essere la loro opera più unitaria. Si tratta di canzoni psichedeliche, piene di momenti pop, costruite su temi chitarristici che mantengono i classici tratti dissonanti del gruppo e che rievocano alcune sonorità dei The Byrds, loro influenza dichiarata.
Quattordici anni dopo l’uscita di Insignificance, O’Rourke solista ne materializza un’ideale seguito rimettendosi a scrivere canzoni indie, dando alle stampe Simple Songs. Anche questo, come tutti i suoi dischi dal taglio autoriale, fu stampato dalla storica etichetta americana Drag City. Le produzioni di O’Rourke si susseguono una dietro l’altra, tra roba che sfiora la cacofonia e cose che pur essendo attraversate da un accentuato livello di stravaganza restano tuttavia più canoniche. Tra questi spicca anche Comfort of Strangers, disco pop a tutti gli effetti dell’eterea voce inglese Beth Orton, che nei Novanta aveva esordito nella musica mettendosi al servizio di William Orbit, Chemical Brothers e altri.
Ma la vera chicca pop tra le produzioni di O’Rourke restano i due album di Joanna Newsom, Ys e il monumentale doppio Have One On Me. Joanna Newsom è una cantautrice americana che suona l’arpa. La sua musica sembra uscire dalle più illuminate sessioni psych del folk anni Settanta. Una roba che ha la capacità di avere la complicata articolazione tipica del Canterbury sound, ma che al tempo stesso riesce ad essere squisitamente pop. Non a caso per Ys, oltre a Jim O’Rourke che ha missato l’album, sono stati coinvolti Steve Albini per la registrazione e la divinità del pop barocco Van Dyke Parks.
La voce celestiale di Joanna Newsom si muove arzigogolata tra intrecci di arpa e chitarra, dando voce a testi super-raffinati. È più o meno la stessa formula di cui è composto il successivo Have One On Me del 2010. Due dischi centrali per la musica dei Duemila che hanno fatto di Joanna Newsom una diva del circuito out – non a caso resa poi celluloide da Paul Thomas Anderson nel lisergico Vizio di forma tratto da Thomas Pynchon – e di Jim O’Rourke l’ultimo baluardo della tradizione indie.
La peculiarità di O’Rourke sta forse proprio nel celare il suo pedigree di autore avant e di abbandonarsi alle rotondità del pop, con una sincerità ammirevole e inedita.
Attratto da sempre dagli stranianti immaginari nipponici, e forse anche stufo delle soluzioni estetiche continentali, Jim O’Rourke decide di trasferirsi in un altro centro pulsante metropolitano, ovvero in quella Tokyo iper-popolata e frenetica che scambia la notte con il giorno. Voci di corridoio lo descrivono oggi ben inserito nell’ambiente. La sua routine consisterebbe nel svegliarsi la mattina e produrre musica, proseguendo così per tutto il giorno, fino alla notte. La mole di dischi che rilascia compulsivamente ogni anno è significativa. Una devozione nei confronti del suono che viene interrotta solo da passeggiate notturne che rinfrancano la sua indole psichedelica con scie di neon colorati e odori di cibo che si fondono con lo smog. Probabilmente non è casuale, nel suo trasferimento, il fatto che l’industria discografica giapponese sia da sempre una delle più fornite e bizzarre. Lì è possibile trovare bootleg di gruppi impensabili ed edizioni fatte ad hoc per quel mercato, spesso deluxe e ricche di bonus. Un paradiso per lui, che approdò per la prima volta in Giappone a 24 anni per una tournée con le leggende noise Zeni Geva e Melt Banana.
In un’intervista fiume rilasciata su Tone Glow O’Rourke racconta il suo amore per la musica pop giapponese. Un video, di cui poi si pentirà, lo ritrae mentre si cimenta nell’esecuzione canora di una canzone enka giapponese in una trasmissione TV della mattina, facendo una quantità incalcolabile di inchini tra una pausa e l’altra. L’amore di O’Rourke per il pop è una cosa che lo accompagna da quasi tutta la vita, o quantomeno da quando aveva sette anni e iniziò ad innamorarsi delle melodie e dei testi dei Genesis. Al momento porta avanti il suo progetto avant insieme alla sua compagna, oltre a collaborare con chiunque stimi. Domani chissà cosa potrebbe fare uno come Jim O’Rourke. Potrebbe fare un altro disco pop, per esempio. Speriamo.