D efinire Jandek un mistero è un cliché per eccellenza: ovunque si sia parlato del musicista texano, infatti, il punto di partenza è sempre stato il mistero che lo circonda. Parleremo quindi di fatti e certezze: uscite discografiche, dichiarazioni, concerti. Questo articolo sarebbe molto diverso se fosse stato scritto prima del 2014 e ancor di più se fosse stato scritto prima del 2004. Queste sono le date cruciali dello svelamento del mito, dopo una carriera cominciata nel 1978 e caratterizzata da una prolificità mostruosa (55 album in studio, 49 live).
Ma andiamo con ordine.
Fino al 2004, tutto quello che abbiamo di Jandek sono i dischi, un’etichetta e una casella postale. Il copione è sempre lo stesso: i dischi vengono pubblicati dalla fantomatica Corwood Industries, che fa riferimento a una casella postale – la 15375 – di Houston, Texas; escono tutti a nome Jandek, qualche volta c’è anche qualcun altro a suonare o cantare con lui. La casella postale serve come riferimento per l’acquisto degli album (a prezzi piuttosto popolari) o per farsi mandare un catalogo delle uscite battuto a macchina.
Jandek non ha un nome, non ha un volto, non rilascia interviste, non fa concerti. Fa uscire però una quarantina di album in poco più di vent’anni, sempre seguendo queste regole. Del migliaio di copie stampate, l’esordio ne vende due (due!) in due anni. Poi arriva la prima recensione e Jandek comincia a passare su qualche radio indipendente. Per molti anni però il suo pubblico resta pressoché inesistente. Lui ci crede moltissimo, non smette, ma un po’ la sua stessa ritrosia alla pubblicità, un po’ l’oggettiva sgradevolezza (almeno in termini canonici) della proposta, fanno sì che il suo lavoro sia il classico albero che cade nella foresta mentre nessuno ascolta.
Il mito è alimentato anche dalle bellissime copertine degli album, che sembrano fotografie di Instagram prima dell’avvento dei cellulari. Per decenni sono uno dei rari indizi sulla sua identità: mostrano spesso un ragazzo bianco, con i capelli chiari. Il sospetto che sia lui l’autore è forte, ma il silenzio totale non conferma né smentisce. A ben guardare, in una recensione del primo disco appare il nome Sterling Smith; e il nome ricorre seguendo il percorso degli assegni della Corwood, oltre che la registrazione dei pezzi per i diritti d’autore. Ma, fino allo svelamento vero e proprio, nessuna comunicazione ufficiale mette mai in correlazione le due entità.
A lungo Jandek non ha un nome, non ha un volto, non rilascia interviste, non fa concerti. Fa uscire però una quarantina di album in poco più di vent’anni, seguendo sempre le stesse regole.
Anzi, Corwood ha sempre parlato di Jandek come di “un rappresentante della Corwood Industries”, quasi a volerci dire che la sua opera andava letta piuttosto come il lavoro di un collettivo. Nel corso degli anni Ottanta l’attenzione verso questa strana figura cresce. Vengono pubblicate un paio di interviste telefoniche non autorizzate: la più importante esce su Spin ed è la prima grossa attenzione mediatica ricevuta da Jandek a livello nazionale, da parte di una rivista che arriverà a inserirlo qualche anno dopo tra gli artisti più importanti del decennio in chiusura. È da questa intervista che scopriamo che il suo nom de plume sarebbe venuto fuori “mentre ero al telefono con qualcuno di nome Decker nel mese di gennaio (January)”.
Le altre “uscite pubbliche” sono un profilo di Irwin Chusid sul famoso Songs in the Key of Z: The Curious World of Outsider Music e un’intervista con il Texas Monthly, anche queste in forma più o meno anonima e non autorizzata.
Ovviamente è Internet ad amplificare la leggenda. Negli anni i suoi dischi vengono scoperti, scambiati, discussi da appassionati in tutto il mondo; nascono siti e mailing list, dove i fan analizzano i testi in cerca di indizi per risolvere il mistero, scoprire qualcosa di più. Le voci sono tante: che si tratti di una persona ricoverata in qualche ospedale psichiatrico, o dei dischi di un figlio disturbato pubblicati dal padre; o che la musica sia un percorso di recupero da qualche dipendenza, forse registrata anni prima da qualcuno ormai morto da tempo.
Nel 2004 esce il documentario Jandek on Corwood. Ovviamente il musicista non compare, ma “Corwood” suggerisce varie persone da intervistare, soprattutto giornalisti. Nessuno sospetta che è solo l’antipasto: nell’ottobre di quell’anno arriva, a sorpresa, il primo concerto. L’evento, né annunciato prima né ufficializzato o confermato dopo (almeno fino all’uscita del live) avviene in un festival a Glasgow: ad accompagnare il signor Smith ci sono nientemeno che Richard Youngs – altro superprolifico ma meno misterioso mito della scena avant-impro – al basso, e il suo socio Alex Neilson alla batteria. Altri concerti seguiranno, da una parte e dall’altra dell’oceano, sempre documentati da Corwood Industries in cd e spesso anche in dvd. Jandek sarà accompagnato da nomi quali Thurston Moore, Mike Watt, Loren Connors, Alan Licht, Aaron Dilloway, John McEntire.
Nel 2014 c’è invece la grande intervista a David Keenan per The Wire. Spalmata su due numeri, qui Jandek finalmente si confessa. In realtà, se di mistero vogliamo parlare, qui più che diradarsi si infittisce; più che rivelare, confonde le acque – sembra un uomo confuso: racconta di cani che si leccano i genitali, di Bob Dylan e di Fonzie, del suo istinto mutuato dalle arti marziali e di Kierkegaard; salta di palo in frasca, non segue un filo logico, forse ne segue uno tutto suo.
Qualche dettaglio utile però emerge: “Mi piace pensare che qualcuno, in qualche scaffale polveroso di qualche libreria, possa scegliere qualcosa di mio e trovarci qualcosa. Ero grato quando al college trovavo certi libri sull’esistenzialismo, quindi se posso dare al mondo qualcosa nel mio campo, che è la musica, e qualcuno ne può ricavare qualcosa che aiuti la sua vita, allora c’è un valore in quello che faccio”.
Ma di cosa è fatta questa musica particolarissima? Cosa c’è in questa assurda discografia?
L’esordio è con Ready For The House nel 1978. Già un disco importante, in cui Jandek prepara la scena per quello che verrà. Esce a nome The Units, anche se si tratta chiaramente dell’opera di un solista. Esiste però un gruppo con lo stesso nome, e bisogna quindi cambiare intestazione: entra in gioco Jandek, il nome a cui verranno attribuite tutte le ristampe dell’album e tutte le decine di album successivi. Chitarra scordata che sembra suonata da uno che la impugna per prima volta, registrazione casalinga, voce strascicata, testi assurdi, solitudine e disperazione: nove canzoni tutte uguali, una sottile vena di perversione che affascina. Pura emozione, a volte respingente.
Non è la prima volta che Jandek impugna una chitarra, ma poco ci manca. Nell’intervista a Keenan racconta: “quando ho comprato la mia prima chitarra l’ho suonata per 24 ore di fila, mi interessava farmi incantare dai suoni, come fosse uno strumento preistorico fatto di corde con cui fare ding ding ding e poi doh doh doh; e se quel suono mi piaceva, andavo avanti. Da un po’ scrivevo poesie e allora ho cominciato a cantare sopra a quei suoni, e così è nato il primo disco: un registratore, un microfono sulla mia voce e uno sulla chitarra”.
Negli anni i suoi dischi vengono scoperti, scambiati, discussi da appassionati in tutto il mondo; nascono siti e mailing list, dove i fan analizzano i testi in cerca di indizi per risolvere il mistero.
Siamo dalle parti di un blues primordiale, indubbiamente genuino, per quanto a volte imbarazzante e insostenibile. “European Jewel” è l’unica canzone che prova degli accordi e un arrangiamento diversi (la chitarra elettrica), è pure incompleta. Il disco si chiude così, all’improvviso, e ha il sapore di una dichiarazione d’intenti.
Il successivo Six And Six arriva ben tre anni dopo, nel 1981, e si muove sempre negli stessi paraggi. Ma i pezzi sono forse migliori – contiene “I knew you would leave”, che Smith considera il proprio capolavoro – e un po’ più rifiniti, per quanto ridicolo possa risultare questo aggettivo applicato al materiale in questione. La discesa negli abissi della mente prosegue, il tutto è se possibile ancora più monocorde e definitivo: è il primo Jandek distillato, tra i suoi lavori più toccanti e personali in assoluto. L’anno dopo arriva Chair Beside A Window. (Pensate di sapere cosa c’è in copertina? Sbagliato, c’è un giovane Jandek. La sedia accanto alla finestra stava sulla copertina di Ready For The House…).
È il quarto album e uno dei suoi più importanti, fosse anche solo per la presenza di “Nancy Sings”, cantata per l’appunto dalla misteriosa Nancy – lo so, si era detto di evitare questo tipo di aggettivi, ma come altro definire questa donna che dal nulla prende il microfono, è accreditata solo dal titolo e così com’è venuta sparisce, salvo poi rifarsi viva in dischi e pezzi ancora più bizzarri?Nancy non è il solo motivo d’interesse: ci sono anche arrangiamenti diversi, batterie (“European Jewel”, ripresa dal primo, qui è praticamente punk), un’armonica, canzoni più degne di questo nome, la sporcizia rumorosa di “No Break”, cantata a sua volta da una voce femminile. Disco vario, riuscitissimo, uno dei suoi capolavori.
Interstellar Discussion (1984) è il nono capitolo e ha in copertina una batteria, che Jandek non si trattiene dall’usare. La prima parte del disco è una delle mie preferite: contiene chitarre taglienti, grida, una batteria pestata con una furia tribale che ricorda certe accelerazioni dei Can, mentre la seconda parte torna un po’ ai toni degli esordi. Da questa uscita in poi Jandek è probabilmente una band, almeno per un po’. Anche su questo aspetto l’intervista a The Wire non aiuta: “io avevo la chitarra, qualcun altro arrivava e suonava il basso, qualcuno la batteria. Qualcun altro cantava, non sempre io. Qualche altra volta qualcun altro faceva qualcosa […] È andata così.”
Telegraph Melts del 1986 è un’altra prova (la dodicesima) degna di menzione: blues elettrico registrato peggio del solito, voci raddoppiate e altre femminili, urla. Uno dei suoi dischi più matti e liberi. Blue Corpse (1987), numero quindici, è uno dei più noti e “canonici”, l’ascolto è relativamente facile per chi non fosse pronto a follie come quelle di Telegraph Melts. È folk-blues appena dissonante, anche la qualità di registrazione si difende bene secondo i suoi standard. C’è ovviamente qualche bizzarria ma si avvicina alla forma canzone normalmente commestibile, e non a caso è tra quelli che contengono alcune delle sue canzoni più belle (tra cui un’interpretazione di “House of the rising sun”). Tre brani sono cantati da un’altra voce maschile, alla quale a un certo punto Jandek si rivolge con il nome Eddy. Eviteremo di parlare ancora di mistero, però insomma, ci siamo capiti. La chitarra è suonata in modo diverso dal solito. Forse Eddy suona anche quella.
Il seguente You Walk Alone (1988) è un disco da vera e propria blues rock band, probabilmente anche in questo caso con lo zampino di altri musicisti. L’album meno jandekiano, ma la personalità resta forte ed è tra i suoi più apprezzabili. Forte vena psichedelica, molte reinterpretazioni di brani già editi; volendo applicarsi all’ingrato compito di trovare paragoni, c’è chi ha citato i Velvet Underground.
Lost Cause del 1992 è il ventunesimo episodio e chiude la lunga seconda fase, quella elettrica. Porta al tavolo un po’ tutti gli stili che lo hanno caratterizzato finora, e se la prima parte del disco contiene i suoi pezzi che potremmo definire più pop, la chiusura è affidata a 19 minuti (“The electric end”) tra i più estremi, una sorta di free jazz suonato con strumenti rock, ovviamente tra i pezzi preferiti dai veri malati di Jandek.
E tra stridori si chiude la fase della sua carriera che potremmo chiamare classica, comunque la più storicizzata. Ma non si ferma. Altro disco che si impone nel discorso è il ventottesimo The Beginning (1999), epilogo della seconda fase acustica: la musica ricorda quella degli inizi ma c’è tutta la maturità degli anni passati, un disco dai toni quasi pacificati, che si chiude però con 15 minuti di solo pianoforte che non sapremmo come definire se non… singolari? Ricordano la freschezza degli esordi: se là sembrava impugnare per la prima volta una chitarra, qui sembra trovarsi per la prima volta al piano, suonato quindi con la libertà di un bambino, badando soltanto all’esplorazione e al divertimento puro.
Il seguente Put My Dreams On This Planet (2000) è invece il primo di una serie di dischi per sola voce. Intimo, non-musicale. Non consigliato ai neofiti, ecco. Si regge su una specie di cantato-parlato disturbante, registrato in maniera altrettanto disturbante, con una specie di riduzione del rumore tra una frase e l’altra che dà l’effetto di una voce trasportata dalle onde. Alcuni considerano questa trilogia (composta anche da This Narrow Road e Worthless Recluse) come il suo punto più alto, il più puro, il più estremo: spogliato di tutto e lasciato solo con i propri demoni. The Gone Wait del 2003, trentacinquesimo, è invece il primo dei cosiddetti bass album. Jandek usa solo il basso ad accompagnare la voce. L’effetto è meno respingente del previsto.
Seguiranno i dischi che un amico definisce del periodo logorroico, tra piano e spoken word. Ma credo che gli elementi di interesse maggiore, da qui in poi, siano soprattutto i live. Ne sono usciti decine, documentando praticamente ogni uscita pubblica. Glasgow Sunday è il suo primo concerto ed è semplicemente un grande disco rock and roll, se con rock and roll intendiamo una cosa zozza e scura e animalesca e tribale e catartica. In Newcastle Sunday c’è la stessa formazione (la già citata trimurti Smith-Young-Neilson), anche se la chitarra è più effettata e voce e chitarra sono più alte nel mix. È il primo doppio cd per le Corwood Industries. Anche in Glasgow Monday il trio è lo stesso, ma in questo caso Jandek suona il piano: è un live calmo, più da musicista. In Manhattan Tuesday le cose tornano a farsi strane: Jandek suona dei sintetizzatori Korg (che ricordano degli organi) ed è accompagnato da Matt Heyner della No Neck Blues Band al basso e da due pezzi da novanta come Loren Connors alla chitarra e Chris Corsano alla batteria. L’album non finisce mai ed è pervaso da una sorta di calma pastorale, che si scontra con una voce sempre inquieta.
Glasgow Sunday 2005 è uno dei migliori, diviso in due parti, la prima con Loren Connors alla chitarra e Jandek voce e armonica, la seconda con il Nostro alla batteria, Alan Licht e Heather Leigh alle chitarre. In Portland Thursday c’è Liz Harris (la grandissima Grouper) alla voce in un paio di pezzi. Ci sono stati anche concerti con sconosciuti, progetti sempre estemporanei e di breve durata, di un artista che arriva, colpisce e se ne va, verso una nuova formazione, un nuovo progetto per ogni singolo concerto. Un artista che si sta stufando anche del mondo dell’avanguardia, che pure lo ha accolto come un padre nobile: “Comincio a pensare che tutta la cultura underground faccia schifo: è una cricca, le stesse persone che suonano tra loro, per sempre. Non ne posso più. Ho suonato con Thurston Moore, che è bravissimo, anche se non ho mai ascoltato i Sonic Youth. Due chitarre. E mentre suonavamo mi chiedevo: perché? Non credo sia paragonabile a quello che faccio da solo. Era solo una gara di chitarre”.
Abbiamo provato a tracciare un percorso non tracciabile, a disegnare la mappa di un mondo troppo esteso e inesplorabile (Jandek ama particolarmente il nonuplo album per solo piano The song of Morgan). È un tentativo inevitabilmente parziale, ma lascia un’idea di fondo.
Non è tanto di mistero che si deve parlare: se c’è un filo conduttore, un tema ricorrente, un’unità sottostante e sotterranea è sicuramente la libertà. Una libertà totale, noncurante di tutto, completamente incosciente e primordiale. È avanguardia che non si confronta con l’avanguardia, ma musica che vede solo sé stessa, vive in sé stessa, non ha termini di paragone e non ha compagni di strada.
Libertà e un senso di comunione: chi ama Jandek di solito lo ama molto. E ascoltando uno dei suoi tanti dischi non si sa mai cosa potrà uscirne, se sarà inascoltabile o meraviglioso. Non è poco.
Questo articolo è stato pubblicato originalmente sul sito Pixarthinking; l’autore desidera ringraziarne l’editor Mattia Coletti.