Q uello che vedrete in queste pagine è “il più importante stile architettonico in Italia dal secondo dopoguerra a oggi” proclamano Alterazioni e Fosbury Architecture nel manifesto che apre Incompiuto – La nascita di uno stile (Humboldt, 2018) il grande catalogo-monografia che racchiude un lungo lavoro di catalogazione, durato più di un decennio, di più di 600 opere pubbliche mai concluse, disseminate lungo l’Italia: per dimostrare “come l’Incompiuto non sia solo un’etichetta entro cui rinchiudere forzatamente un pacchetto eterogeneo di opere, quanto piuttosto un vero e proprio modello teorico”.
Nel volume si susseguono immagini di viadotti, palazzetti e piscine, tra auditorium che non hanno mai aperto e sono già stati rivendicati dalla natura, case popolari e complessi edilizi in rovina prima ancora di essere stati abitati: quella di Incompiuto è una ricognizione di promesse deluse, di ambizioni di miglioramento senza miglioramento. Lo sfogli e pensi: è l’Italia; è il cemento armato in mezzo a un campo qualunque che si aggrotta in malinconia e squallore, è la statale tappezzata dai cartelloni che indicano nuovi appartamenti che forse nessuno acquisterà mai, con i politici che promettono nuove strutture per turisti e visitatori che nessuno riuscirà mai ad attirare.
E infatti, sono tutte indistintamente vuote queste opere: Incompiuto è prima di tutto una raccolta di luoghi di riunione che non lo sono stati, di collettività che non si sono riunite. Aprendolo si ha l’impressione di un’Italia i cui abitanti sono stati rapiti all’improvviso, di una bomba atomica che ha vaporizzato gli esseri viventi lasciando disabitata la nazione, piena di strutture che si ergono isolate, sproporzionate rispetto alle geografie che le ospitano.
Immerse in quello che Gilles Clément chiama “il terzo paesaggio”, qui “la natura dialoga con le opere incompiute riappropriandosi dei luoghi” e le trasforma in “luoghi della contemplazione e del silenzio”: per capire cosa abbia mosso il progetto di Alterazioni Video basterebbe leggerne le dichiarazioni del manifesto programmatico, dove definiscono le incompiute “rovine contemporanee generate dall’entusiasmo creativo del neoliberismo”, con “un’etica e un’estetica proprie” che trova “nel cemento armato il proprio materiale costitutivo”. Il manifesto si conclude così: “Incompiuto è simbolo del potere politico e di una sensibilità artistica” e poco più sotto, in piccolo, “metafora di un organismo sociale complesso e articolato che trova la propria celebrazione nell’appalto”.
Riflessione sulle capacità immaginative di un popolo e su come il potere si converta in materia, in principio l’Incompiuto era solo siciliano: già nel 2008 Alterazioni Video produceva un Manifesto delle opere pubbliche incompiute dell’isola, “perché è proprio in Sicilia – Italia due volte – che lo stile raggiunge la sua massima espressione e diffusione”, ma, aggiungono, “risalendo la penisola, il fenomeno acquista carattere e rilevanza nazionale”.
E quanto nazionale sia si vede bene in questo nuovo volume, che contiene il lavoro di una decade, frutto proprio di quell’intuizione felice che dal 2006 ha portato Alterazioni Video a mappare le opere incompiute, trasformando quello che in apparenza era solo un fenomeno di abbandono e incuria in un vero stile architettonico, capace di raccontare qualcosa sul nostro presente.
Incompiuto – La nascita di uno stile, in collaborazione con Fosbury Architecture, esce a qualche mese dall’omonima mostra ospitata da Manifesta a Palermo al Centro Internazionale di Fotografia: il volume è arricchito da un ricco indice fotografico (più di 120 le incompiute da sfogliare), mappe della collocazione geografica (con la Sicilia in testa e la Sardegna che segue a qualche distanza e le tante presenze nel milanese e nel romano), e un divertente diario di bordo sulle ricognizioni degli ultimi anni. Sopra ogni cosa, però, Incompiuto – La nascita di uno stile contiene saggi di Marc Augé, Paul Virilio, Robert Storr, ma anche di Leoluca Orlando o dei Wu Ming: leggerli non serve tanto a dare un’ancora teorica al lavoro di Alterazioni e Fosbury, che si regge in piedi in piena autonomia, ma piuttosto rende evidente la “prospettiva attraverso cui è possibile cambiare da negativo a positivo la percezione delle opere pubbliche incompiute e il senso di sconfitta che le pervade”, come la chiamano Davide Giannella e Filippo Minelli (già Padania Classics) nell’introduzione, dal titolo Quello che resta.
Oggi questo progetto è diventato una delle fonti di ispirazione per la collezione di Off-White™ 2019 Menswear collection firmata da Virgil Abloh: Alterazioni ha curato la campagna fotografica e il set design per la sfilata dello scorso 16 gennaio nelle sale del Louvre (si può vedere qui). Oltre a questo, Incompiuto – La nascita di uno stile è stato anche oggetto di una mostra inedita presso la sede parigina della galleria Campoli Presti: anche in questo caso in collaborazione con Virgil Abloh, probabilmente l’art director e stilista più amato dell’anno. (Un cortocircuito interessante, a proposito di critica al neoliberismo, visto il ruolo simbolico occupato da Abloh nella cultura dello streetwear, una delle manifestazioni contemporanee più controverse del rapporto tra consumismo, spreco e status).
Il desiderio del collettivo di Alterazioni (che a dispetto del nome non si occupa solo di video, attivo dal 2004 e composto da Paololuca Barbieri Marchi, Alberto Caffarelli, Matteo Erenbourg, Andrea Masu e Giacomo Porfiri), è trasformare e, insieme, storicizzare un fenomeno, per guardare all’Incompiuto come si guarda alle rovine e ai monumenti, perché quello che non è finito, ma resta spezzato può, ancora, produrre senso nell’insieme. Del resto, questi sono frammenti di opere e, come scrive Sarah Manguso, “la parola frammento è spesso usata impropriamente per descrivere qualsiasi cosa sia più piccola di una cassetta per il pane, ma un libro di ottocento pagine non è più completo o incompiuto di una poesia di dieci versi. Questo è confondere la lunghezza con l’essere integro”; a volte sembra di leggere un testo pieno di strappi e cancellature che, però, se si ha la pazienza di leggerlo in fila, ci offre ancora un’idea generale della storia che vuole raccontarci.
Ed è una storia pazzesca forse, come pazzesca è l’immagine che apre il volume: un collage digitale di piante, sezioni e prospetti delle opere incompiute di Giarre, capitale delle opere incompiute in Italia e che nel 2010 ha istituito il Parco dell’Incompiuto (qui raccontato da un saggio fotografico di Gabriele Basilico), organizzandovi al suo interno il primo festival dedicato all’incompiutezza architettonica. La città del catanese ne conta ben otto esempi: due campi sportivi, una piscina, un parco, una residenza convenzionata, un teatro, un mercato e un centro polifunzionale.
Sembra una gigantesca navicella spaziale, la Millennium Falcon di Star Wars vista dall’alto, la sezione di un’enorme petroliera che galleggia nell’oceano o la pianta della zattera della Medusa al momento del naufragio, ma stavolta non ci sono battaglie da affrontare, né mari in tempesta: “siamo arrivati al toccare il fondo producendo le rovine […] senza combattere una guerra”, concludono Alterazioni Video.
Fa impressione, ad esempio, che l’immagine che apre la sezione fotografica sia quella del Viadotto Barche di Chieti: il ponte si interrompe a metà, per poi riprendere qualche decina di metri più avanti, fa impressione perché sembra di vedere il Ponte Morandi di Genova, salvo che qui non c’è catastrofe, non c’è tragedia – e, di conseguenza, forse, non c’è neanche speranza di rinascita.
Scrive Robert Storr, storico dell’arte, che “le rovine sono un invito a sognare. Altrimenti servono a poco”, che basta guardare al Settecento e all’Ottocento per capirlo, dove “il paesaggio è disseminato di antichi resti”, che quello è “l’inizio di una rêverie”. Storr, in un bel saggio contenuto nel volume, racconta la storia delle rovine postmoderne, di come la Land Art avesse per prima dato valore al deterioramento delle costruzioni contemporanee più banali. Così cita l’artista Tony Smith, che negli anni ‘50 aveva percorso di notte la statale New Jersey Turnpike, al tempo ancora incompleta. Era un posto comune, visto al buio dei lampioni e dei cantieri, ma in un’intervista per Artforum, aveva detto che: “quel tragitto è stata un’esperienza rivelatrice”, che avrebbe influenzato per sempre la sua produzione artistica:
Sia la strada che gran parte del paesaggio erano artificiali, eppure non potevano essere considerati opere d’arte. D’altra parte, questo evento aveva fatto qualcosa per me che l’arte non aveva mai fatto. All’inizio non sapevo cosa fosse, ma il suo effetto fu quello di liberarmi da molte delle opinioni che avevo avuto sull’arte. Sembrava che ci fosse una realtà che non aveva avuto ancora alcuna espressione artistica.
Storr fa anche il nome di Robert Smithson, per eccellenza l’artista della Land Art, che a fianco dei progetti come Spiral Jetty, nel 1967 aveva tentato di portare nei musei i siti industriali e i luoghi abbandonati del suo New Jersey (A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey è una raccolta di immagini di improbabili monumenti – strade, stadi in costruzione – dello stato) o dei motel decadenti del Messico (Hotel Palanque).
Questi artisti avevano lavorato per riabilitare le strutture moderne, l’architettura minore delle infrastrutture, ancora incapace, pare, di provocare lo stesso grado di meraviglia delle rovine antiche. Scrive Storr, che, al contrario, tutte queste opere sospese per mancanza di fondi o di guida “trovo che siano luoghi particolarmente adatti a sognare, perché non incarnano il sogno di perfezione mai esistita, qualcosa di totalmente inaccessibile”.
“Tutti questi luoghi ci trasmettono l’idea di imperfezione, più che di trionfo. Perché tutti i monumenti di questo tipo sono sproporzionati per gli esseri umani che li abitano, e tutti ci ridimesionano. È una funzione importante: trovare la propria dimensione in qualcosa di sproporzionato è uno dei vantaggi dell’esplorazione”: risponde così alla domanda su cosa ci facciamo con questa sfilata di ex Statali che non sono mai state aperte al traffico, di questi ospedali senza fantasmi a infestarli o queste piscine vuote.
Invitato a visitare il Parco dell’Incompiuto, Marc Augé scrive che “quanto allo stadio incompiuto di Giarre, colpiva innanzitutto l’apparente repentinità dell’arresto dei lavori. Anche se tale arresto, lungi dall’essere la conseguenza di qualche cataclisma naturale, era quello della sconsideratezza politica ed economica, conferita però una bellezza particolare a tutte le imprese fallite della capitale di questo apparente scandalo; la bellezza dei progetti di cui restavano portatrici, la bellezza di ciò che avrebbe potuto essere, la bellezza del momento in cui tutto era ancora possibile, la bellezza del gesto originale e dello slancio primario bruscamente interrotto”.
C’è un passaggio del “Diario di bordo” che vale la pena recuperare qui:
01.11.2017 – Tricase, Puglia. Troviamo i resti di quello che sarebbe dovuto essere un palasport. Saliamo una montagna di macerie ed entriamo in un grande spazio aperto con alte pareti interamente ricoperte di graffiti, ne riconosciamo alcuni. Sentiamo delle voci: una coppia che fuma cannette. Si sono fatti un tavolino e due sedie usando i mattoni del cantiere abbandonato. Parliamo di questo posto e di tutti gli altri come questo, in giro per l’Italia. Non gli sembra vero conoscere altre persone che amano questi luoghi. A loro questo spazio piace perché è enorme, ci sono bei disegni e si può fare quello che si vuole.
Incompiuto infatti non è né un’opera di denuncia (anche se, come scrivono i Wu Ming “il crimine oggi ha uno stile” e queste opere incarnano il sogno del liberismo contemporaneo), né il desiderio di guardare al brutto con ironica passione; non è il desiderio di affrancarsi dalla bellezza manifesta del Belpaese per guadagnarsi un pezzo di alienazione e trasformarlo in coolness. Gran parte dei progetti sarebbero set straordinari per video musicali, alieni, tristi e incomprensibili, ma non è questo il punto di questo lavoro: Incompiuto è un progetto guidato dal desiderio di mostrare il paesaggio italiano nella sua immanenza, nella sua realtà. In Calabria descrivono “case private, palazzine, capannoni, centri industriali, pale eoliche, spazi commerciali, aree di sosta. Una densità di costruito non-finito attraverso il quale il Belpaese si intravede appena nelle interruzioni tra un edificio e l’altro” e viene quasi da rispondere che anche quello è Belpaese adesso, che non fa meno parte del paesaggio dei belvedere.
Queste immagini ricordano quelle di Viaggio in Italia del 1984 di Luigi Ghirri e gli altri, dove si promuoveva “una foto liberata dalle vedute sensazionali, dagli effetti realistici, dal vizio del bottino estetico”: un’affermazione che vale ancora, anche quando la sensazionalità qui è quella del brutto che diventa stile. Ricordano le immagini di Cento case popolari di Fabio Mantovani, che felicemente si trattiene dal voler fare del folklore della vita delle persone per darne un’immagine più aderente e meno spettacolare, per parlare di edilizia popolare. Certi passaggi del diario ricordano poi le esplorazioni di Verso la foce di Celati, le Tangenziali di Gianni Biondillo e Michele Monina, i paesaggi di Giorgio Falco, le aree interiori di Franco Arminio. Proprio Arminio, una volta, in un suo libro, scriveva che “a me piace chi scrive facendo sentire quello che siamo tutti, in bilico sui cornicioni”:
2.10.2017 – Cosenza, Calabria. Da questo cavalcavia si vede tutta la Calabria. Non è stato facile arrivarci. Siamo sdraiati su un ponte che non congiunge nulla, appoggiato su pilastri conficcati fino in fondo alla valle che non sopportano altro peso che quello del cielo.
In Incompiuto, i cornicioni sono reali.
A Manifesta, quest’anno, insieme a Alterazioni e a tutte le altre installazioni, c’era anche, un poco più lontano dal centro, un progetto firmato dal gruppo belga Rotor. Si chiamava Da quassù è tutta un’altra cosa e si trovava su un promontorio di Pizzo Sella occupato da un abuso edilizio in stato di abbandono. Lo studio belga ha spesso analizzato i flussi materiali dell’industria e dell’edilizia, analizzando questioni legate alla sostenibilità nella progettazione architettonica e urbanistica. A fianco a questa attività si occupa anche di demolire il costruito: con Rotor Deconstruction smontano vecchie stazioni, uffici e ne catalogato i pezzi, che possono essere anche acquistati sul loro sito, in un’operazione di riutilizzo e di ripensamento delle architetture, che tornano così a una nuova, inaspettata vita.
A Palermo, Rotor ha provato a “trasformare Pizzo Sella in una gigantesca macchina per cambiare la prospettiva su Palermo. Vogliamo riportare le persone in contatto con il paesaggio della collina e offrire un nuovo punto di vista sulla città”. Questo spazio, messo in sicurezza e visitabile grazie a piccole operazioni infrastrutturali, diventa così un sito da visitare, un posto dove “connettere le persone con il paesaggio, un luogo dove ripararsi e sostare.”
“L’edificio su cui abbiamo lavorato”, dice Tristan Boniver di Rotor in un’intervista a Domus, “è parte del sistema e completamente connesso con il paesaggio, la topografia, il clima e la temporalità. Lo abbiamo analizzato attentamente e capito le sue debolezze, in corrispondenza delle parti più esposte alle intemperie. Quassù l’aria è molto umida e salata. […] Abbiamo anche lavorato sulla strada, per renderla accessibile alle auto e creato un belvedere: una lunga panchina da cui è possibile guardare il paesaggio. Consideriamo il belvedere il vero centro di gravità del nostro progetto. Da qui è possibile guardare il mare, Palermo e il paesaggio incompiuto di Pizzo Sella”.
Il progetto di Rotor è in sostanza un progetto educativo, ma anche di riconoscimento dell’esistenza stessa di uno spazio altrimenti rimosso, dominato da una costruzione abusiva: non dice – e in questo ricorda Incompiuto – che bisogna salire lassù per vedere le conseguenze di un uso scellerato delle risorse, non si tratta, insomma, di individuare un emblema di malcostume, dell’uso personalistico del potere, ma piuttosto, è la riappropriazione di un luogo da parte di una comunità, perché possa diventare un punto di osservazione, rivolto verso la città, verso il mare.
Cosa fare delle rovine, in conclusione? Cosa fare di questi progetti – a tratti orrendi, a tratti solo malinconici – che nella maggior parte dei casi non sono più utilizzabili? Né luoghi di pellegrinaggio, né simboli di una denuncia che abbiamo sentito ripetere troppe volte: per adesso Incompiuto le ha trasformate in luoghi, posti con una storia, potenzialità perdute, li ha resi una costellazione fatta di cemento armato e acciaio. Esiste una funzione legata alla catalogazione, che ha a che fare con la produzione di senso, col rintracciare le ricorrenze, come se queste opere rimassero tra di loro. A guardarle, una per una, queste incompiute si rivelano spazi di silenzio e di riflessione, luoghi per cui è possibile adesso provare un senso di affezione. Un punto di osservazione, da cui l’Italia è tutta un’altra cosa.