S e ci si pensa bene, c’è qualcosa di insospettabilmente sentimentale nel concetto di “pornostar”. Qualcosa che contraddice il luogo comune secondo cui la pornografia, regno di corpi inquadrati nei loro dettagli osceni, implicherebbe l’intercambiabilità assoluta, il mercato della carne un tanto al chilo. E qualcosa che contraddice allo stesso tempo l’effetto potenzialmente “democratico” di quell’indifferenziazione, non solo nel senso secondo cui chiunque può diventare un performer se lo desidera, ma anche in quello secondo cui il piacere non avrebbe un oggetto preferito – il senso di un’utopia queer secondo cui non esistono generi, orientamenti sessuali, forse neanche individui come tali.
L’esistenza (e la persistenza) delle pornostar ci dice qualcosa di diverso, di anacronistico, di buffo e un po’ imbarazzante come sa essere solo il desiderio. Perché è indubbiamente comico che la rete straripi di video, amatoriali e non; di performer, professionisti o improvvisati; di performances à la carte – tutti fruibili gratuitamente, e che qualcuno si prenda la briga di iscriversi a un canale a pagamento. C’è chi lo fa per una questione di etica, ma si tratta di una sparuta minoranza. I più lo fanno perché vogliono vedere proprio quel(la) performer, proprio lei.
Altrettanto ridicolo è che il web pulluli di banner e “articoli” acchiappa click che strillano “Valentina Nappi a seno (quasi) nudo col fidanzato”, “Valentina Nappi: Video Hot su Instagram, nuda sotto il pigiama! (VIDEO)”, “Valentina Nappi: il selfie che svela le sue morbide curve”. Stiamo parlando di un’attrice porno, la cui nudità non ha niente di inedito. Anzi, stiamo parlando della più famosa e importante pornostar italiana contemporanea. La venticinquenne napoletana “scoperta” (o meglio, fattasi scoprire) da Rocco Siffredi che è riuscita in pochi anni a sfondare anche all’estero, e che in Italia è nota inoltre per le sue velleità di intellettuale impegnata contro razzismo e sessismo.
Questa compulsione, questo bisogno di vedere di più di lei, più che confermare i sospetti di scarsa fantasia e immaginazione del consumatore medio in Italia (come sembravano dimostrare le statistiche sulle query di PornHub rese pubbliche a novembre dello scorso anno), ci parlano di un’affezione, di un desiderio che, come tali, distinguono e selezionano. Non vale tutto, a chi appartengono quei seni, quella bocca, quei genitali non è indifferente. Si vogliono proprio i suoi – è questo il meccanismo che fa la fortuna dei sex toys che offrono il calco dei genitali di attori e attrici hard. È il surplus di individuazione necessario all’eros che, infatti, va oltre questo feticistico smembramento fisico, pur senza negarlo. Qualsiasi portale è pieno di video in cui in cui la videocamera si avvicina al suo corpo il più possibile, lo esplora senza limiti, quasi volesse farci vedere non solo il suo corpo ma anche cosa c’è dentro. Il “mistero” sembrerebbe decisamente svelato; eppure non basta, si vuole vedere ancora, si vuole vedere di più. E dunque, paradossalmente, di meno: una versione più castigata, ma domestica, intima, autentica. Ci si vuole avvicinare alla sua vita, più che semplicemente al suo corpo.
Apparentemente è proprio questo che sembra voler fare anche il film di Monica Stambrini ISVN – Io sono Valentina Nappi: “svelare” la donna dietro all’attrice. Presentato in festival dedicati all’eros come il Fish and Chips di Torino e l’Hacker Porn di Roma, il mediometraggio è una sorta di crossover tra documentario e porno. Stambrini intercetta quello che sembra essere un attimo di verità dell’attrice: una serata romana, in cui fa nella vita quello che la vediamo fare di solito sul set, cioè sesso, dopo un preambolo che contestualizza e mostra qualcosa a metà tra la backstory del personaggio (il pretesto narrativo che scatena l’azione, si potrebbe dire) e un making of, il backstage. Nappi arriva a Roma, in taxi parla con il fidanzato lontano (con il quale ha una relazione di coppia aperta), entra nello studio di un artista (Corrado Sassi) amico della regista, vi girovaga curiosando, si lava e si prepara per la soirée. Presto viene raggiunta da un vecchio amico, l’attore Lorenzo Branca, e ci fa sesso per due volte prima di addormentarsi. “Un film molto candido”, l’ha definito Stambrini. Sicuramente è un film molto semplice a livello di lavorazione (girato con una sola camera) e lineare a livello narrativo, come dimostra la trama qui sopra. Eppure è tutt’altro che ingenuo. La prima inquadratura è sul cellulare di Nappi, che monitora il successo della sua attività sui social. È questa la verità di Nappi, sembra suggerire Stambrini, il suo personaggio mediatico fa parte di lei, è indistinguibile dal suo quotidiano.
La pornografia tende a dilapidare con sconcertante ottusità la straordinaria risorsa di avere a disposizione dei corpi che in teoria non dovrebbero ‘recitare’, ma ‘essere’. Da un punto di vista formale il principale fallimento del porno consiste allora nella scelta di assegnare ai protagonisti dei fantasmi sessuali che non sono i loro, o che non sono i loro nel momento in cui devono recitarli.
Così Gianluigi Simonetti in una recensione di Il n’y a pas de rapport sexuel, film di Raphaël Siboni del 2012 che partiva da premesse opposte a quelle di Stambrini. Siboni si proponeva di mostrare l’artificio che sta dietro al porno gonzo, genere che si basa per antonomasia sulla presunta autenticità e amatorialità del prodotto. Il progetto orchestrato da Stambrini e Nappi, che non a caso è coproduttrice del film, è quello di dimostrare che la libertà sessuale che Nappi promuove con la sua attività pornografica e soprattutto con le sue esternazioni provocatorie (che l’hanno resa persona non grata tra le femministe) è reale. Che lei è proprio così anche nella vita privata.
E in effetti in questo senso la combinazione delle due parti del film centra il bersaglio. Nappi fuori dal letto viene ripresa in momenti banali: incapace di far funzionare un giradischi, leggermente schifiltosa nel rimettere gli stivali per non camminare sul pavimento sporco del bagno, quasi timida nell’annunciare al partner di una notte che le è venuto il ciclo. Una ragazza qualunque, il che testimonia della sua autenticità. A letto invece è proprio come la vediamo di solito sul set: volitiva, appassionata, quasi violenta, famelica come in Queen Kong, il precedente lavoro in cui attrice e regista hanno lavorato insieme – il corto più famoso uscito da Le ragazze del porno, esperimento italiano programmatico di cinema erotico al femminile. L’autenticità della sua performance sessuale, sia qui che sul set, è supportata dalla prima parte, che vuole garantirci che non stiamo assistendo a qualcosa di orchestrato, ma alla vita vera. Sembra un film propedeutico alla produzione hard dell’attrice.
Il rapporto tra finzione e realtà a cui assistiamo nel porno è sintomatico e rivelatore di quello che tutto il cinema intrattiene con il suo spettatore. Nel porno, il sesso in scena non può essere, per definizione, simulato. Allo stesso tempo, ciò che lo spettatore vi ricerca non è solo la prova che quel sesso stia effettivamente avvenendo, bensì la realtà del piacere di coloro che ne sono coinvolti. Spettatore incluso. Perché un filmato pornografico funzioni, deve assolvere allo scopo di far provare la medesima eccitazione a chi lo guarda, così come il cinema non si esaurisce nella registrazione di qualcosa, ma “funziona” nella misura in cui instaura un rapporto con lo spettatore, in cui suscita qualcosa, siano esse emozioni o riflessioni. E il film di Stambrini funziona proprio grazie al suo intervento attivo, prima a livello del montaggio, che compone le due parti in modo narrativamente convincente, e poi soprattutto a livello della fotografia e dell’uso della colonna sonora (composta complessivamente da Bello Figo, Luci della Centrale Elettrica, Heroin in Tahiti), che creano un’atmosfera fortemente erotica nella seconda parte.
Il personaggio incarnato da Nappi presenta una componente autenticamente queer, lo dimostra paradossalmente proprio l’ostracismo che incontra negli ambienti femministi, anche quelli definiti “sex positive”.
Come il film si compone di un elemento presunto spontaneo, documentario, stile cinéma verité, e di una parte mediata, (perché è attraverso la mediazione, fosse anche quella della finzione di realtà di cui ci parla Siboni, che la pornografia – cinematografia eteronoma, cioè soggetta a uno scopo preciso: l’eccitazione – può funzionare in questo senso), anche il personaggio di Nappi si compone di due parti, che non possono esistere una senza l’altra. Vale a dire, la sua attività di performer e quella di polemista “politica”, avvocato di una emancipazione della donna che passa attraverso l’uso manageriale e performativo del proprio corpo. Anche i due film girati con Stambrini, che si situano a metà tra questi due ruoli, fanno parte del suo stardom, che non si comprende davvero se pianificato a tavolino o meno. Se davvero, come dicevamo, a fare di una performer una pornostar è l’affezione, la predilezione dei suoi fan, è evidente che Nappi debba incarnare (non solo come strategia di marketing, quindi all’opposto di quello che succede nel porno tradizionale secondo Siboni) qualcosa che incontra il fantasma dei suoi spettatori. È insomma un personaggio privilegiato per comprendere quale sia la fantasia “più amata dagli italiani”.
Da un lato Nappi, irruenta sia nel sesso che nelle sue uscite pubbliche, è un tipico esempio di femme fatale. La femme fatale, “unapologetic about her diabolic and unfeminine desires” [spudorata nel suo desiderio poco femminile e diabolico] e “both risky and humiliating for the male subject” [sia rischiosa che umiliante per il soggetto maschile] secondo la definizione di Sheila L. Cavanagh, incarna un topos classico del desiderio maschile, che allo stesso tempo, grazie alla sua disponibilità e attraverso il rapporto sessuale, può sconfiggerne l’autorità restaurando la posizione dominante maschile. Tuttavia, se sempre secondo Cavanagh il soggetto femminile è compreso culturalmente nella misura in cui abdica alla posizione attiva rispetto al desiderio sessuale, la femme fatale è qualcosa che devia dalla donna “normale” nell’ordine simbolico, perché entra in quello che è inteso come dominio maschile, diventando una figura in un certo senso incomprensibile per il regime eteronormativo.
In questo senso, il personaggio incarnato da Nappi presenta una componente autenticamente queer. Lo dimostra paradossalmente proprio l’ostracismo che incontra negli ambienti femministi, anche quelli sex positive. Se Nappi è una figura fortemente sussumibile e sfruttabile dal mercato pornografico (e poco cambia se è lei stessa a commercializzarsi) perché incarna uno stereotipo della proiezione maschile, è però la difficoltà che pone a chi porta avanti il discorso dell’emancipazione di genere a renderla una figura di interesse politico, la riserva di negatività che un’idea di sessualità basata su consenso e “naturalità” del desiderio non riesce a far rientrare nel proprio schema.
“L’abietto non è ciò che è grottesco o sporco, bensì ciò che mette in questione i confini e minaccia l’identità”, sostiene ancora Cavanagh. L’abiezione in Nappi sta proprio nella sua posizione liminale tra soggetto autodeterminato, che pianifica e amministra l’uso del suo corpo come nelle sue dichiarazioni, e oggetto sessuale ma anche culturale, prodotto emblematico della società contemporanea. A fronte di un’utopia queer che sembra appiattire le differenze, cui si accennava in apertura, ma che così facendo in realtà riconferma l’idea che esista un soggetto “libero” e “indifferente”, la figura di Valentina Nappi eccede, confonde, fa problema. Ci fa chiedere cosa voglia, per sé e da noi, come nella tipica domanda freudiana sul desiderio femminile. Non è un caso allora se, in un “docuporno” come quello di Stambrini, in cui si vede tutto (il sesso e quello che ci sta dietro, la domesticità e la performance sessuale, l’intimità e i genitali), a restare invisibile, perché ripreso di spalle, sia proprio l’orgasmo di Valentina.