I l rapporto tra letteratura e teatro è ricco di frutti meravigliosi e di inciampi. L’anno scorso, quando il premio Nobel è stato assegnato a uno scrittore noto soprattutto per i suoi testi teatrali come Jon Fosse, qualcuno ha storto il naso su entrambi i fronti. Da un lato la diffidenza per una scrittura “monca”, che trova il suo vero completamento in scena, come quella teatrale. Dall’altro il sospetto, per i teatranti, di una riduzione del teatro al testo, della drammaturgia a una branca della letteratura (o della poesia), come fu in epoche passate. Eppure, proprio perché mondi diversi accomunati dalla parola e dalla visione, pur evocate in modi differenti, teatro e letteratura sono stati vicendevoli campi di ispirazione l’una per l’altra. E infatti molti spettacoli che hanno fatto la storia del nostro teatro di regia, ma anche di quello di ricerca, sono nati da opere letterarie, non tanto con l’obiettivo di ridurre scenicamente una storia raccontata sulla pagina, quanto con l’aspirazione di creare “mondi teatrali” a partire da “mondi letterari”.
È quanto avvenuto con due dei lavori più interessanti di questa stagione: la Trilogia della città di K. firmata da Fanny&Alexander e Federica Fracassi; e La ferocia messo in scena da Vico Quarto Mazzini. Entrambi spettacoli di grande impatto, ma diversissimi per estetica e concezione del teatro, accomunati però da un’idea “sorgiva” del testo letterario per la scena – secondo quella lezione che fu soprattutto di Ronconi, senza per questo “pagare pegno” a un maestro del teatro così connotato come lui – che sono riusciti nell’intento non semplice di creare una sintesi di intreccio e di visione in grado di evocare mondi profondamente “autonomi” sulla scena, senza proporre cioè opere derivative, che vivono solo dell’eco dei romanzi che portano a teatro.
Federica Fracassi incarna sulla scena la scrittrice ungherese grazie a un mimetismo fuori dai canoni naturalistici.
Partiamo dai Fanny&Alexander, che non sono nuovi alla dimensione letteraria, avendo lavorato su testi di Nabokov, Ferrante, Baum, per altro spesso – come anche qui – interrogando l’infanzia e la giovinezza (suggestione che già emerge nella scelta bergmaniana del nome della compagnia). Con questo nuovo lavoro arrivano al classico di Agota Kristof grazie alla collaborazione con Federica Fracassi – ideatrice dello spettacolo assieme alla compagnia ravennate – che incarna sulla scena la scrittrice ungherese grazie a una grande intensità recitativa giocata sul mimetismo sì, ma fuori dai canoni naturalistici, che include un accento straniero dell’est volto a ricordarci la condizione di “esule della lingua” di Kristof, che usò il francese come idioma letterario – un idioma in cui si considerava una “analfabeta” – e rigettò quella del mondo da cui fuggiva.
La scenografia che accompagna lo spettacolo è di quelle che sorprendono e che sono destinate a restare nel tempo, all’interno del deposito dell’immaginario teatrale condiviso. Una “selva” di schermi che cala nel suggestivo spazio del teatro studio “Melato” del Piccolo di Milano, riempiendolo con frammenti allo stesso tempo disordinati (nel contenuto) e geometrici (nella disposizione nello spazio). Elementi che rimandano alla storia dei gemelli Klaus e Lucas, affidati a causa della guerra ad una nonna arcigna, sradicati dal materno e dal paterno, che decidono di importi una disciplina ferrea di fortificazione, brutale e senza fronzoli come la lingua in cui viene raccontata, risposta uguale e contraria alla barbarie in cui è immersa la loro infanzia.
La trilogia della città di K. è un libro centrale della letteratura di fine secolo scorso e ha una lingua così compatta (forse la “risposta” più dolorosa al sentirsi esule della sua autrice) che è difficile immaginare una riduzione teatrale. Ma il progetto di Federica Fracassi e Fanny&Alexander riesce a centrare l’obiettivo insistendo su due punti nodali del libro che sono anche, allo stesso tempo, interrogativi fortissimi per chi frequenta la scena e le sue dinamiche: il linguaggio come strumento di falsificazione, in prima battuta; il tema del doppio, che non è solo reminiscenza artaudiana (per altro quanto mai azzeccata nella temperie di questa storia) ma, più precisamente, esigenza dello sguardo altrui per poter definire sé stessi, per statuire la propria esistenza.
L’esule ha due scelte davanti a sé: perdersi dentro un contesto altro o ricercare il confronto con un’identità frantumata, distante.
L’esule, sottraendosi alla propria lingua e al discorso sul mondo che fa la propria cultura, ha due scelte davanti a sé: aderire a un contesto altro, fino a perdervisi dentro; o ricercare il confronto con un’identità frantumata, distante, uno specchio non più in grado di rifletterci. Lo spettacolo mette in scena esattamente questa frammentazione, riuscendo nel compito non semplice ti evocare in scena la lingua affilata del romanzo di Kristof, che di per sé è il motore della tensione che serpeggia per i tre libri, sempre sul punto di deflagrare senza farlo mai, come se la pagina stessa non fosse altro che un fascio di nervi in tensione. Questa evocazione avviene grazie all’adattamento, ovviamente, ma a ben guardare è soprattutto incarnata nei corpi di attori altrettanto affilati nella recitazione come Federica Francassi e Alessandro Berti – interpreti dei ruoli centrali – e Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Lorenzo Glejesis. È grazie a loro che il mondo livido di Kristof prende forma in scena, attraversando una foresta di immagini e voci, impreziosita dalle tante partecipazioni (come quella di Chandra Livia Candiani, Renato Sarti, Renzo Martinelli e tanti altri ancora).
Anche La Ferocia di Vico Quarto Mazzini è operazione che cerca di far cortocircuitare le immagini della letteratura con quelle della scena, attorno al dramma familiare e sociale raccontato da Nicola Lagioia nel suo romanzo premio Strega. Operazione non semplice, perché nel romanzo di Lagioia le descrizioni, anche ambientali, costituiscono uno snodo importante nell’edificazione di un immaginario scuro, dove consumo del territorio e “ferocia” delle relazioni si annodano nel cercare di raccontare una storia del sud, è vero, ma così profondamente italiana da poter essere letta come una sorta di biografia della nazione, tra familismo amorale, illegalità, bellezza e marcescenza della terra, disintegrazione dei legami umani. Ma è proprio su questo punto che la riduzione teatrale di Linda Dalisi e la regia di Michele Altamura e Gabriele Paolocà insiste, andando a colmare il vuoto delle descrizioni con il pieno dei corpi. Tutto passa attraverso una casa (la scenografia modulare che la rappresenta) che è quasi uno spazio metafisico, dove si snodano le vicende della famiglia Salvemini, con a capo il padre (e patriarca) Vittorio – interpretato da uno straordinario Leonardo Capuano, uno dei migliori attori della sua generazione.
In scena è evocata la lingua affilata del romanzo di Kristof, che di per sé è il motore della tensione che serpeggia per i tre libri, sempre sul punto di deflagrare senza farlo mai.
E se le relazioni sono il centro di questo dramma, o meglio, il loro deteriorarsi, non c’è epicentro migliore per una simile ragnatela di legami che il vuoto: l’assenza di Clara, figlia di Vittorio, trovata morta sul ciglio della statale. Un personaggio fuori scena, un vuoto che diventa – un po’ come nel film Il grande freddo – fulcro delle relazioni di chi resta. Bellissima e irrequieta, Clara contesta con la sua condotta l’apparente normalità della famiglia Salvemini, calandosi pian piano in un vortice autodistruttivo, fatto di droghe e incontri con uomini che proseguono anche dopo il suo matrimonio. Vittorio, importante costruttore dedito ad affari illeciti, anche di fronte alla tragica fine di sua figlia farà prevalere l’interesse – perseguito con ferocia, per l’appunto, ma sempre giustificando le proprie azioni compiute “per la famiglia”, “per i figli”. Sarà lui a far manipolare il referto della morte di Clara, facendolo passare per un suicidio, per coprire la rete di relazioni in cui la figlia si era ritrovata coinvolta e per non disturbare i propri affari. A indagare su questa verità torbida sarà Michele (interpretato da Gabriele Paolocà), il fratello con cui Clara da bambina ha stabilito un profondo legame d’affetto.
Michele è il frutto di una relazione adulterina di Vittorio, ma poiché la madre è morta di parto, è stato cresciuto assieme agli altri figli, vittima tuttavia di un trattamento impari volto a rimarcare, costantemente, la sua condizione illegittima. Se questa pressione “feroce” produce in lui un disagio psichico, che lo porterà prima a dare fuoco alla proprietà di famiglia, poi ad esiliarsi lontano, a Roma, sarà forse proprio quello il motore che riaccende in Michele il desiderio di sapere, di trovare una verità autentica, sotto tanta menzogna, sul destino della sorella morta.
Basata tutta sui dialoghi – ma sostenuta dalla bella e visionaria scenografia firmata sa Daniele Spanò – la versione teatrale de La ferocia punta non solo sulle parole, ma sui non detti.
Basata tutta sui dialoghi – ma sostenuta dalla bella e visionaria scenografia firmata sa Daniele Spanò – la versione teatrale de La ferocia punta non solo sulle parole, ma sui non detti, per evocare una realtà marcescente e indicibile che intreccia affari e privato, politica e decadenza dei legami umani, in una ideale ritratto dell’Italia odierna. Elabora quindi una sua lingua, fatta di corpi e sudore, diversa dal racconto letterario ma altrettanto livida. Una lingua sostenuta soprattutto dagli attori e dalle attrici in scena (Roberto Alinghieri, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Andrea Volpetti, oltre ai già citati).
La ferocia, dopo aver debuttato a Romaeuropa Festival a settembre, tocca tra gennaio e marzo, tra le altre tappe, Bari, Lugano, Genova e Milano. La trilogia della città di K. è stato in scena un mese al Piccolo Teatro di Milano, ma non sappiamo se avrà modo di girare altrove. Questo è uno dei limiti del sistema teatrale odierno, che non sempre riesce a garantire una vita adeguata agli spettacoli che impiegano un discreto numero di attori e hanno a disposizione scene elaborate. D’altronde sono proprio queste, il più delle volte, le precondizioni per operazioni artistiche di largo respiro come queste, in grado di convocare in scena mondi teatrali autonomi che sono specchio dei libri da cui partono, ma sono a loro modo anche qualcosa di ulteriore.