C ome campa un autore di fumetti mentre scrive i suoi romanzi? Manuele Fior, uno dei più bravi autori italiani, si presta da anni al mondo dell’illustrazione. Tra i primi titoli di Oblomov, la nuova casa editrice di Igort dopo l’addio a Coconino, esce L’ora dei miraggi, la raccolta dei lavori di Fior su commissione, scanditi da ispirate pagine scritte che raccontano tecniche e circostanze, committenti ed esperimenti: “questo librone raccoglie alcune delle apparizioni più convincenti che mi è capitato di incrociare nei recenti lavori di illustratore. Certo, alcune di esse sono più ‘comandate’ di altre, essendo l’illustrazione più soggetta alle commesse e alle richieste editoriali. In ogni caso, anche il lavoro più alimentare non è affrontabile senza la spinta di una visione indefinita e lontana, alla quale si cerca di avvicinarsi per scorgerne i dettagli e bloccarla nella propria memoria e in quella del lettore”.
Non so quanto ci sia di me in tutte queste altre attività, ma hanno sicuramente infranto le barriere del disegno che pensavo andasse bene per il fumetto. Nel senso che – e lo dico in maniera positiva – è come se lo scrittore, prendiamo il tuo caso, il romanziere, si sbracasse, prendesse con sé tanti altri tipi di scrittura che non sono quelli del romanzo, della fiction, occupandosi insomma anche di tutti questi altri tipi di scrittura che vanno a formare una Scrittura più personale.
D’altra parte il romanzo, in realtà, è saper giocare con più generi e registri, non ha una lingua sua…
Assolutamente. Tu considera che in Class io ho messo dei pezzi di interviste che avevo fatto per Rolling Stone come interviste fatte dal mio personaggio.
È stata una deflagrazione. E forse è anche per questo che ci sono tanti fumettisti illustratori, questa categoria abbastanza famigerata che però fa di una necessità virtù. Del fatto che vivere di propri fumetti sia difficile e che con l’illustrazione si può portare avanti una certa ginnastica mentale e anche della mano, che poi nel mio caso è stata fondamentale. Tante tecniche insomma, poi magari una ti viene, una meno. Nel fumetto devi mantenere con costanza lo stesso stile per una centinaia di pagine, per cui devi avere le spalle abbastanza larghe per non arenarti in questa impresa.
“
Del militare ho una predisposizione naturale alla disciplina. Disegno tutto il giorno, tutti i giorni, fuorché in genere il sabato e la domenica. Quando non disegno, penso al mio fumetto, o immagino nuovi modi di disegnare. Penso a quest’arte come a un’attività introversa, primitiva e mistica, i cui frutti maturano nell’esercizio continuo, come le dita di Glenn Gould al pianoforte. Nella pratica ossessiva di questo mestiere, le immagini compaiono sull’orizzonte del foglio. In pieno giorno, sotto la luce della lampada da disegno”.
In realtà in questo modo il lavoro per le riviste diventa un puro esercizio, come fare le scale con la chitarra. Tu sai che lo devi fare di corsa, sai che non hai necessariamente grandi problemi di espressività, impari a fare le cose più istintivamente.
È chiaro. Se uno ha il passo del libro dentro di sé, gli interessa appunto la sequenza.
Vorrei tornare indietro, a quando ti è nato il desiderio di fare libri a fumetti e quando hai iniziato a fare i lavori invece un po’ più prosaici. E poi il passo successivo è stato quello di cercare già durante il liceo di pubblicare qualcosa. A quell’epoca l’editore Star Comics aveva ricominciato a pubblicare i fumetti dei supereroi americani e avevano anche un rapporto coi lettori abbastanza vivo. C’era l’angolo della posta in questi fumetti, si discuteva di molte cose. Per cui andai per la prima volta a Lucca a sedici anni mostrando tutte le mie cose, cercando di mandarle in America, cercando di avviare un percorso professionale.
Siamo proprio all’inizio degli anni Novanta.
E quand’è che hai smesso di fare queste cose?
Dici almeno quello è un mestiere dove ti pagano per disegnare…
Io ho iniziato a scrivere a sedici anni, ho studiato Scienze Politiche, e non me ne fregava niente di nessun aspetto della vita che non fosse scrivere, e allora mi ero detto “Devo pubblicare un romanzo prima della fine dell’università così almeno poi posso farlo come lavoro”. E poi praticamente, siccome non arrivava questa cosa, poi in realtà è arrivata pochi mesi dopo la mia laurea, perché appena mi sono laureato a venticinque anni mi sono messo a scrivere il mio primo romanzo, io dicevo “Devo smettere, devo smettere di scrivere, adesso faccio questo e poi smetto”, perché mi sentivo come te, mi vergognavo tantissimo…
Ci hai pensato quando puoi hai fatto copertine per Linus?
A me pare che… come dire, sicuramente non siamo gli unici ad avere storie così: il periodo tra i 15 e i 25 anni, le frustrazioni di quel periodo mi camminano a fianco tutto il giorno, tutti i giorni… Ogni singola cosa che mi capita, parla subito con le frustrazioni di quell’epoca. Non c’è nessuna frustrazione che io non mi ricordi di quel periodo. Molte volte arriva quella gioia disperata, quando ti senti quasi un disgraziato che gioisce per un risultato che è arrivato oggi rispetto a un dolore che avevi a vent’anni…
Ma sei riuscito a lavorare come architetto?
Quindi tu a Berlino ti ritrovi con la crisi dell’architettura e il fumetto che si rianima. E hai smesso a quel punto di parlare coi tuoi genitori o ci parli ancora?
Hai detto “Adesso siamo tutti contenti”…
Ma quali lontane, si sente tutta la disperazione… si sente ancora.
Essendo un libro grosso, con tante pagine, faccio anche tanti lavori vicino perché non potrei vivere solo di quello. Anche perché lo sto facendo senza editori, non ho voluto contattare editori perché non voglio che sostanzialmente interferiscano col mio lavoro. Non me lo sto pagando, ecco. Scelta mia, professionale. Avrei potuto prendere un editore grosso francese qui, farmi pagare 20.000 euro e però consegnarlo entro… e tutte queste cose qui. Invece adesso, per esempio, mi ritrovo a rifare 15 pagine nelle 150 che ho fatto, e quelle 15 pagine si rifanno, punto. Non stai a dire “Ma c’è il festival, devi uscire”, non me ne frega niente… Poi è vero anche che magari certe idee, soprattutto su questo libro, che è un libro molto d’azione, un libro dove si pensa di meno e succedono molte più cose, le idee hanno bisogno di un certo tempo per maturare, per diventare aerodinamiche. Per cui questi anni che sono passati facendo libri tipo Le variazioni d’Orsay, che è diciamo secondario rispetto al mio percorso, o questo qui, L’ora dei miraggi, che è un libro completamente diverso, una raccolta di illustrazioni che avevamo pensato con Igort per diverso tempo, sono tutti lavori che sottendono al lavoro principale che è sempre il nuovo libro a fumetti.H
o riso quando ho visto che usciva il tuo nuovo libro. Ho riso pensando: prima hai fatto il libro sul Museo d’Orsay, poi hai fatto questo, secondo me tu hai paura a far vedere dove stai andando come romanziere dopo L’intervista. Io ho questa idea: che all’inizio il tuo modo di raccontare era un po’ più sentimentale, e poi hai trovato questa vena molto alta, quasi gotica nell’Intervista, che tra l’altro mi viene un po’ di collocare nel discorso sull’architettura, con quel mondo visto molto dall’alto, le geometrie, l’urbanistica, il design, e mi sono chiesto: chissà se non sta aspettando a pubblicare il prossimo perché allora dovrà far vedere ai suoi lettori il suo vero volto.
Non ci sono tempi allora, è inutile chiedere.
Puoi dire qualcosa sulle tecniche? Parto da una citazione che avevo segnato.
“L’illustrazione di una serie per ragazzi di storie di pirati ha rappresentato una bella palestra per il colore acrilico, quello che ho poi utilizzato in Cinquemila chilometri al secondo. Per quanto le immagini sembrino coloratissime, non sono mai realizzate con più di tre colori, in questo caso una terra bruciata, un blu indigo e un arancione. Sostituendone solo uno alla terna, l’atmosfera cambia radicalmente e per questo lavoro penso veramente di aver sperimentato tutte le combinazioni possibili. Oggi all’acrilico preferisco la tempera, più riflessiva e meno schiamazzante, ma non escludo che le cose possano di nuovo cambiare”.
Tu qui hai rivisto tutti i tuoi lavori per curare il libro. Quali sono le tecniche che ti hanno colpito di più?
Chi arriva fino in fondo all’intervista è interessato alle cose tecniche. Vabbè, è Picasso, ma è anche la tecnica che usa che gli permette di fare questa cosa. Io ho una visione molto giocosa del disegno, per cui ammiro molto quelli che si votano per esempio al pennino, a una tecnica, tipo Paolo Bacilieri, che è un virtuosissimo del bianco e nero. Ammiro moltissimo chi riesce a rimanere su una tecnica e poi con piccole modifiche ad affinarla anche nel corso di decenni. Io per adesso invece, come dire, apro il cassetto e cerco le cose che mi servono. Se, per esempio, ho voglia di fare una storia con grandi nuvoloni o cieli scuri, tiro fuori il carboncino perché è la tecnica che mi permette di arrivare più velocemente a quel risultato. Se invece dovessi farlo con la matita diventerei pazzo. Ho questa maniera di cercare scorciatoie ovunque perché penso di avere un rapporto abbastanza giocoso con le tecniche.
E ritorniamo al senso di questo ultimo libro: raccogliere tutti i tuoi esperimenti con le varie tecniche.
Nel prossimo libro c’è una tecnica mista?
L’intervista era china nera?