H arry Parker, britannico, classe 1983, ha perso entrambe le gambe per aver messo il piede su uno IED durante una ronda notturna in Afghanistan. In Anatomia di un soldato ha scritto una storia molto simile alla propria, scegliendo di raccontarla dal punto di vista di una quarantina di oggetti, compresi un catetere, una bicicletta e una spora fungina.
Oggi Harry Parker si muove con disinvoltura grazie a due protesi bioniche genium, ginocchia metalliche che escono dagli shorts che indossa e terminano in scarpe da ginnastica nere. Nonostante il protagonista del suo romanzo, il capitano Tom Barnes, gli somigli molto nelle esperienze vissute come negli sviluppi drammatici, Parker è molto attento a definire fiction il suo romanzo. E non si sente parte della generazione di scrittori-soldato americani che negli ultimi anni hanno pubblicato storie ambientate in Iraq e Afghanistan. Phil Klay, Kevin Powers, Brian Turner sono gli ultimi esponenti di una lunga tradizione che, secondo Parker, ha origine con la guerra del Vietnam, ma che “per molte altre ragioni” non ha eguali in Gran Bretagna.
Una prospettiva inusuale
La scelta di raccontare le vicende di tre personaggi – il capitano dell’esercito britannico Tom Barnes e i due giovani civili Faridun e Latif – dal punto di vista degli oggetti che li accompagnano o ne modificano le esistenze è, sostiene Harry Parker, di natura personale. Ma essendo “la guerra un’esperienza così incomprensibile per le persone che non l’hanno vissuta”, adottare nuove prospettive può essere utile per vederla in modo diverso, nuovo. Una questione di angolature, come se l’esperienza in prima persona del soldato non fosse abbastanza, o peccasse di affidabilità. “Uno dei principali motivi per cui ho scelto di scrivere fiction” dice Parker, “è che quando torni a casa, i ricordi di uno scontro a fuoco sono sempre diversi da quelli del compagno che, a due passi da te, era bersagliato dagli stessi proiettili. I ricordi sono materiale malleabile, specialmente quelli legati a esperienze così stressanti”.
Nel suo romanzo sono gli oggetti a raccontare i fatti. La scelta trasforma la narrazione in una dissezione scientifica, tecnica e anatomica di pochi eventi, snodi dell’intreccio che vengono raccontati più e più volte da differenti prospettive. Anatomia di un soldato è un romanzo di particolari, silenzioso e impersonale. Capitolo dopo capitolo il lettore prova la sensazione di essere un intruso, un microscopico drone in grado di entrare nel corpo di Barnes per assistere alle operazioni chirurgiche, o uno dei tanti pezzi dell’equipaggiamento che lo accompagna durante le ronde in territorio nemico. Parker racconta di essersi divertito nella stesura di alcuni capitoli: per descrivere la scena con gli “occhi” di una sega chirurgica o di un proiettile è necessario “sapere come funzionano, conoscerne pressione, velocità e caratteristiche”.
Sempre meno guerra
In “Storie di guerra”, uno dei racconti dell’acclamato Fine missione di Phil Klay, due veterani smontano, frase dopo frase, il mito delle narrazioni a tema bellico. Platoon, Black Hawk Down e The Hurt Locker non sono rappresentazioni veritiere, perché in esse “la guerra dovrebbe avere un ruolo minuscolo”. Anche Parker pone il fenomeno sullo sfondo e ritiene di non aver scritto affatto un romanzo di guerra. Infatti, nonostante più e più volte i capitoli del libro narrino di pattugliamenti e azioni di guerriglia in quello che, pur non essendo mai esplicitamente nominato, sembra l’Afghanistan, Anatomia di un soldato descrive tre esistenze, e uno scenario in cui “giovani diventano soldati in modi diversi e sono trascinati nel conflitto per ragioni non ideologiche”. Martina Testa, la traduttrice del romanzo, ricorda che in oltre trecento pagine alcuni termini che noi oggi associamo immediatamente ai conflitti in Medio Oriente non vengono mai utilizzati. Non ci sono riferimenti all’Islam e nessuno cita mai gli Stati Uniti; tuttavia ci sono i dollari, ci sono le preghiere e c’è il terrorismo.
All’interno di questo vuoto narrativo nasce la vera tensione del romanzo. Se in un capitolo Tom Barnes è poco più di una sigla identificativa stampata su zaini e mostrine, dall’altra è un figlio ricoverato in ospedale, in bilico fra la vita e la morte. Un’ambivalenza che Parker ha provato sulla propria pelle: “Vieni addestrato per lungo tempo e devi rispettare disciplina e gerarchia, ma al tempo stesso vivi l’intera esperienza all’interno di un gruppo, realtà in cui ci sono amicizia e amore. Si crea una forte tensione fra l’inquadramento militare e i sentimenti provati in alcune situazioni”. Nel suo Un terribile amore per la guerra, James Hillman indicava nella via emozionale, psichica e mitica un punto di accesso in grado di penetrare il fenomeno bellico nella sua interezza. “Se vogliamo far cessare l’orrore della guerra affinché la vita possa continuare, è necessario comprendere e immaginare” professava l’allievo di Jung al termine della sua carriera. Parker sembra aver raccolto questo invito, imboccando una strada differente ma affine negli intent.
I canti del ritorno
Anatomia è anche la storia di un ritorno a casa. Come molti autori prima di lui, per lo più americani, Parker ha raccontato il difficile passaggio dalla vita al fronte alla normalità quotidiana di un paese in pace. “Quando sono tornato dall’Iraq, sono passato da pattugliare le strade di Bassora a bere birra in un pub di Londra in un paio di giorni”, dice Parker. Quanto ha cercato di raccontare Phil Klay in Redeployment, vale a dire le difficoltà e le conseguenze di un cambio di scenario così traumatico, trova spazio anche in Anatomia di un soldato, dove il processo passa per una lunga serie di operazioni chirurgiche e un articolato percorso di riabilitazione. “La seconda volta che sono tornato, dopo l’incidente in Afghanistan, ho avuto più tempo per abituarmi” ammette Parker, sottolineando come l’ospedale e le cure mediche abbiano smorzato il trauma del ritorno, rendendolo più graduale.
Ma non per tutti è andata così. “In alcuni casi i reduci mostrano rabbia e una strana forma di arroganza” racconta Parker; “forse perché pensano che gli altri non possano capire quello che hanno dovuto affrontare”. Si tratta del medesimo gap comunicativo descritto da Klay in un articolo pubblicato sul New York Times un paio di anni fa. Se molti veterani si mostrano reticenti, rifugiandosi dietro a un “non vorresti mai sapere ciò che ho passato laggiù”, chi non ha mai avuto a che fare con la guerra non domanda nulla, preferendo mormorare un ringraziamento o, peggio ancora, attaccando un adesivo ideologico sul paraurti della propria auto. Il risultato, misero, è che la percezione della guerra, almeno nei paesi occidentali, si affida sempre meno alla testimonianza mediata. È di poche settimane fa lo streaming in diretta dal fronte siriano messo a disposizione degli utenti dai canali Al Jazeera e Channel 4: una rivoluzione nel campo della comunicazione che, unita alla crisi del reporter di guerra, rende il racconto del conflitto un mestiere in lento declino, se non avviato alla scomparsa.
Il meglio deve ancora venire
Da alcuni anni ormai ci si interroga sulla mancanza di grandi opere narrative ambientate durante le guerre del nuovo millennio. Alcuni sostengono che il ritardo sia fisiologico, mentre altri ancora mettono in luce l’avvento, per lo più recente, di romanzi in grado di spezzare questa tendenza, inaugurando un nuovo corso. Il lavoro di Harry Parker condivide con alcuni suoi colleghi oltreoceano più di una semplice somiglianza. La frammentazione della prosa, lo spaesamento generato nel lettore (sia temporale sia spaziale) e la distanza nei confronti del classico “war novel” sono caratteri presenti anche nei lavori di Brian Turner (La mia vita è un paese straniero, da poco uscito per NN Editore) e Roy Scranton (il suo War Porn sta riscuotendo un notevole successo all’estero), tutti di recente pubblicazione.
Ora che la prima ondata di romanzi sulle guerre del nuovo millennio è stata assimilata, il pubblico interessato è pronto per nuovi libri in grado di lavorare per sottrazione e di raccontare non tanto l’evento bellico in sé ma le storie umane che lo costituiscono. Più che scrivere di proiettili, sembra dirci l’autore inglese, è meglio che siano i proiettili stessi a raccontare.