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e Monde, che puntualmente segue i suoi lavori nei palchi d’oltralpe, l’ha definita “marathon woman” quando la scorsa stagione a Parigi è andata in scena con quattro lavori diversi. In Italia, nel 2012, è stata consacrata come “migliore attrice” dai Premi Ubu. Di recente la sua voce ha fatto vibrare le parole di Anna Frank e il suo Diario sulle frequenze di Radio 3. Daria Deflorian è una degli artisti più rappresentativi della scena italiana, con un trascorso nella ricerca più radicale e un approdo alla drammaturgia e alla recitazione che hanno sancito uno stile di scrittura e di interpretazione inconfondibili. Ma la sua parabola artistica, con il successo arrivato a cinquant’anni, è anche la biografia di un mondo del teatro italiano refrattario all’innovazione ma dove ancora la grinta e l’ostinazione poetica sanno trovare il loro spazio.
Daria Deflorian ha attraversato il teatro immagine e ha collaborato con diversi grandi della scena, da Rem & Cap a Pippo Delbono, fino a uno dei maestri indiscussi del teatro europeo, il regista lituano Eimuntas Nekrosius. Ha più volte collaborato con l’Accademia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri, con cui ha gettato le basi di una recitazione informale, intensa ma preziosamente sgonfiata dalle enfasi manieriste in cui a volte incappa l’accademia – un modo di stare in scena più in linea con lo spettacolo contemporaneo, che proprio a Roma – dove l’attrice risiede – ha trovato uno dei suoi principali punti di incubazione. E poi, dal 2008, ha creato un duo stabile con l’attore e performer Antonio Tagliarini, con cui ha scritto e allestito i suoi spettacoli più riusciti e apprezzati.
Il teatro di Deflorian-Tagliarini è allo stesso tempo semplice e sofisticato. Si abbevera moltissimo alla letteratura – Petros Markaris, Marius Szczygel e più di recente Annie Ernaux – così come ha attraversato le opere di Pina Bausch e Andy Warhol, nella consapevolezza che l’esperienza diretta del mondo è oramai un retaggio romantico e che la stratificazione delle esperienze artistiche è, nella nostra testa, un fatto concreto quanto un tavolino o una porta (o un termosifone, per citare il loro ultimo lavoro, di cui potete trovare una recensione qui). E questo è solo uno dei motivi per cui, all’estero, il loro lavoro è molto apprezzato.
In una lunga chiacchierata Daria Deflorian si è raccontata a il Tascabile. Dagli esordi alle difficoltà di trasformare un lavoro artistico senza compromessi in un lavoro vero e proprio, fino al riconoscimento in Italia e all’estero. Croce e delizia di chi ha scelto il teatro come mezzo espressivo e poetico, un’arte che in Italia resta sempre in qualche modo “di frontiera”.
Come ti sei avvicinata al teatro? Come è successa questa disgrazia?
Questa disgrazia (sorride). Vengo da un piccolo paese in Trentino dove il teatro non arrivava, la prima volta che ci sono stata credo avessi quattordici anni. Tutto quello che mi circondava era molto lontano dal teatro, anche se poi ho scoperto che mio padre in passato aveva fatto l’attore per la Filodrammatica del paese e sembra che fosse molto bravo nei ruoli femminili. Vinse anche un premio come “miglior attrice”. Lui non era molto contento della mia scelta di fare teatro, eppure se qualcosa mi ha spinto verso questa direzione evidentemente deve averci a che fare anche lui. Fatto sta che, in modo molto istintivo, ho deciso di iscrivermi al Dams a Bologna. È stata certamente una grande apertura per me, erano gli anni di Eco, Fabbri, Celati e c’erano anche Ferruccio Marotti che insegnava Metodologia della critica dello spettacolo, e Franco Ruffini. Insomma, un po’ l’ur-dams che poi si è frammentato in mille rivoli e in mille facoltà.
Tuttavia quella dimensione teorica mi lasciava molto insoddisfatta. Così mi sono iscritta ad una scuola di recitazione, la Galante Garrone, una piccola scuola di matrice lecoquiana, non certo un’accademia. Nel frattempo andavo a teatro. In quegli anni a Bologna si potevano vedere cose meravigliose, da Pina Bausch a Carmelo Bene, e nel frattempo muovevano i primi passi compagnie come il Teatro Valdoca. A San Lazzaro vidi la primissima performance della Socìetas Raffaello Sanzio. Nel frattempo portavo avanti una tesi sul teatro-immagine, incentrata in particolare su Falso Movimento di Mario Martone. Avevo capito subito che non mi interessava un teatro – e quindi nemmeno una formazione accademica – che mettesse la realizzazione dello spettacolo come questione primaria.
E allora cosa ti interessava?
Il rapporto col presente. Non tanto dal punto di vista dei soggetti, dei testi, ma dal punto di vista del linguaggio: corpo, video, musica. La commistione, si chiamava allora. Erano i primi anni Ottanta e tutto stava cambiando molto velocemente, anche in direzioni impreviste. Quando i registi che studiavo per la mia tesi cominciarono a entrare nei Teatri Stabili ebbi un momento di smarrimento. “Allora la ricerca è solo una gioventù del teatro, che quando diventa adulto prende un testo e torna alla prosa, magari con un carico in più di modernità?”. Mi facevo domande di questo tipo. Io, invece, credevo alla possibilità di un reale ripensamento del linguaggio, a una riscrittura radicale.
E oggi ne sei ancora convinta?
Probabilmente sono meno radicale di allora, ma in sintonia con un panorama che è cambiato e ha aperto nuove possibilità. Esistono tanti teatri possibili e tutti sono potenzialmente portatori di bellezza. E anche di necessità, a prescindere dalla loro matrice. Io, poi, nel mio percorso artistico continuo a fare delle scelte. Ma oggi mi sento di dire che questa diversità arricchisce. Quando ero giovane andavo a vedere solo certi tipi di spettacolo, frequentavo solo certi spazi teatrali. Col tempo tutta una serie di categorie si sono infrante, ci sono stati degli incontri, degli incroci, delle comprensioni che fanno bene a tutti.
Qual è il primo spettacolo che hai visto? E il primo che ti ha davvero segnata?
Il primo è stato «Il buon soldato Sc’vèik» nella versione di Brecht, ma non è quello che mi ha segnato. È stato uno spettacolo di Pino Micol su Stefano Pelloni, il brigante romagnolo detto “il Passatore”. Gli attori scendevano dal palco, rompendo la quarta parete, e recitavano in mezzo al pubblico. Io ero piccola e per me quella rottura del confine fu una grande sorpresa. Sentire la fisicità degli attori accanto alla mia mi fece comprendere immediatamente come entrambe le dimensioni, a teatro, siano fatte sostanzialmente di carne. Tuttavia, se devo dirti uno spettacolo che ha davvero inciso sulla mia scelta di intraprendere questo lavoro, senza alcun dubbio si tratta di «Wielopole, Wielopole» di Tadeusz Kantor. Era al CRT di Milano e forse ha giocato un ruolo l’ignoranza totale con cui mi sono avvicinata a quel lavoro. Entrai in teatro e prima che iniziasse la rappresentazione vidi questo piccolo uomo sistemare delle cose sul palcoscenico, degli oggetti di scena. Pensai fosse qualcuno del teatro e lo guardavo perché c’era qualcosa in lui che mi attraeva.
Quando si sono spente le luci e l’ho visto sul palco, ho capito che era Kantor. Quella dimensione informale aveva azzerato qualunque tipo di idolatria artistica, e io rimasi rapita dal vedere come lui “muovesse la sua memoria” sul palco scenico. Gli oggetti, le storie, erano evidentemente qualcosa che gli appartenevano, una sua emanazione, qualcosa che era successo a lui. La trovai una forma esaltante di narrazione. E molto aveva a che fare con la mia esperienza diretta. Ho sentito nella mia testa un click, come qualcosa che saltava, un limite che veniva infranto. Una visione che si schiude davanti ai tuoi occhi. È un processo che ha espresso molto bene Eimuntas Nekrošius quando diceva che, di uno spettacolo, puoi anche non comprendere tutto. Oggi invece siamo ossessionati dall’idea della comprensione e l’artista, se il pubblico non capisce ogni passaggio, si preoccupa. In quel momento, invece, non si trattava di capire: mi trovavo di fronte a qualcosa di più grande di me, di più complesso rispetto alle mie possibilità di diciottenne. Tuttavia fu un’esperienza fortissima e per me, ancora oggi, è un’imprescindibile lezione.
Invece, rispetto alla tua carriera, puoi dirmi i tre spettacoli più importanti per te?
Che domanda difficile… sono affezionata a molti lavori, perché ho fatto molte cose in molti ambiti diversi. Ma dovendo scegliere mi concentrerei sull’ultima fase della mia vita. Non posso prescindere da «l’Origine del mondo» di Lucia Calamaro, dove ero attrice, e non posso prescindere dai due ultimi lavori fatti con Antonio Tagliarini cioè «Reality» e «Ce ne andiamo per non darvi preoccupazioni». Dei lavori con Antonio te ne dico due perché sono lavori per me fondamentali e non riesco a scegliere. Ma poi c’è l’«Alcesti» di Massimiliano Civica è stato molto importante.
Quindi alla fine gli spettacoli sono quattro. E tutti molto hanno avuto grandi riconoscimenti: il premio Ubu alla regia per Civica, per il testo a Lucia Calamaro e per te come migliore attrice del 2012. In particolare il lavoro di Lucia Calamaro e il tuo assieme ad Antonio Tagliarini stanno avendo un buon successo in Francia. Come viene accolto, oltralpe, il vostro lavoro d’autori e attori?
Partiamo da Parigi. Ci siamo affacciati con grande timidezza in questa città dove tutto sembra più grande. La grandeur è appunto un termine francese, ma poi frequentandola abbiamo capito che anche lì la cultura teatrale – che è altra cosa rispetto ai grandi spettacoli commerciali – si muove in sale da cento o duecento persone, come da noi. Quello che è diverso, rispetto all’Italia, è la cultura dell’andare a teatro. È talmente diffusa che anche una compagnia che mette piede a Parigi per la prima volta ha pubblico. Un pubblico curioso, interessato a scoprire, a capire. È il pubblico, la cosa entusiasmante di Parigi. È gente che partecipa del lavoro, che dopo ti vuole incontrare e discutere, che ti ferma sull’autobus per dirti una parola sul lavoro che ha visto la sera prima. Un aspetto che mi ha fatto molto sorridere è stato il paragone che, alcune persone, hanno fatto tra il nostro lavoro e l’arte povera. Non hanno minimamente preso in considerazione l’ipotesi che in Italia, a volte, come nel nostro caso, si fa teatro con produzioni piccolissime. Noi cerchiamo il linguaggio adatto ai mezzi che abbiamo, ma per loro è una scelta di “arte povera”. Molto buffo.
Che rapporto hai con la lettura rispetto al tuo lavoro creativo? Ci sono dei libri che ti ispirano?
Il rapporto è molto stretto. Non solo mi capita di leggere molto e di cercare attraverso i libri quando stiamo lavorando, ma spesso mi capita di immergermi nella lettura come se fosse un luogo da esplorare. Per riflettere. È una cosa che puoi fare camminando, stando sotto la doccia a lungo, ma soprattutto leggendo. Poi in sala prove “si agisce”. Ma quell’azione si è caricata prima, come una molla, di tutto ciò che scaturisce dalla lettura.
Partire da un autore e ne seguite il suo pensiero, oppure scegliete un tema e poi cercate libri di riferimento?
Non ci sono regole. A volte la folgorazione arriva dalla lettura, come nel caso del reportage di Mariusz Szczygiel e il suo racconto su Janina Turek, la casalinga polacca che per oltre cinquant’anni ha annotato minuziosamente i “dati” della sua vita in 748 quaderni trovati alla sua morte dalla figlia, ignara ed esterrefatta. Da questa lettura di poche pagine siamo partiti per creare «Cose» e «Reality». Nel caso di «Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni», invece, siamo partiti dall’idea di ragionare sugli effetti della crisi economica sulla nostra vita; poi la lettura della prima scena del libro giallo di Petros Markaris ci ha fornito l’immagine giusta su cui lavorare. È stato ancora diverso per l’ultimo lavoro, «Il cielo non è un fondale», dove non siamo partiti da nessun libro in particolare, ma che ha dietro la nostra passione per l’opera di Annie Ernaux.
Parliamo invece dei tuoi esordi. Qual è stato il tuo primo spettacolo?
«Diluvio», un lavoro che ho fatto con Giorgio Podo e Leonardo Filastò, due miei compagni di lavoro. Lo abbiamo preparato a Roma, a Dark Camera, lo spazio di Marcello Sambati, e ha partecipato al Premio Narni, vincendo il premio come miglior spettacolo. Era un lavoro in cui si sentiva la forte impronta del teatro-immagine, ma aveva anche una vena narrativa: partiva da tre racconti di Garcia Marquez tratti da Occhi di cane azzurro. Era la metà degli anni Ottanta. Dopo abbiamo provato a proseguire su questo percorso, ma abbiamo fatto molta fatica a creare un secondo spettacolo. Ci siamo arenati e alla fine ci siamo separati.
Come hai prodotto quel lavoro? Dove hai trovato i soldi?
Era totalmente autoprodotto. Non abbiamo neppure cercato una produzione, lavoravamo immersi nell’ingenuità più totale, che però era anche gravida di una forte positività. Tutta quella ricerca la consideravo una dimensione in divenire, stavo ancora capendo come rapportarmi col pubblico, mi sembrava persino eccessivo che qualcuno mi desse dei soldi per fare questo. Oggi è tutto molto diverso. Qualunque compagnia giovane pretende di essere prodotta fin da subito. Non dico sia sbagliato, ci mancherebbe. Solo che noi, all’epoca, la vedevamo in modo molto diverso.
Ho sempre considerato normale il fatto di fare altri lavori, anche se questa cosa rallentava il mio percorso produttivo. Quello che davvero mi faceva soffrire non era la mancanza di produzione, ma la mancanza di distribuzione. La difficoltà ad avere accesso nei teatri e incontrare il pubblico.
Oggi la realtà produttiva del teatro ti sembra diversa?
Sì, molto. E come ti dicevo, mi stupisce la velocità in cui le giovani formazioni ambiscono a entrare nelle regole del mercato. Essere fuori dalle regole del mercato è una zona faticosa ma anche libera. Il problema, probabilmente, è che oggi mancano tutta una serie di realtà intermedie che, quando io ho cominciato a produrre i miei lavori, esistevano ed erano risolutive. Io non ho mai pagato un giorno di prove, ad esempio, come non ho mai avuto bisogno di noleggiare un faro. Essere appoggiati da uno spazio come Dark Camera era tutto sommato un grande lusso. Abbiamo potuto provare quando volevamo: Marcello, quando abbiamo dovuto costruire delle cose, ci ha sempre aiutato.
G: Raccontami la prima volta che qualcuno ha prodotto un tuo lavoro. Di che lavoro si trattava?
Forse la prima volta è stata quando ho partecipato al progetto “Petrolio” di Mario Martone con il mio lavoro «Tor Pignattara». Non si trattava di una produzione vera e propria, però ho avuto il mio primo budget abbastanza consistente, e il fatto di essere all’interno di quel progetto mi ha anche permesso di trovare altri soldi (un’altra parte del finanziamento è venuta dall’Istituto Svizzero di Milano, perché ho utilizzato un video realizzato da un documentarista svizzero).
Per me «Tor Pignattara» è stato un momento molto importante. Si trattava di lavorare all’interno di un disegno collettivo, che Martone aveva sviluppato a Napoli attorno all’opera di Pasolini. C’erano tanti artisti di sensibilità molto diverse, da Fabrizio Gifuni ai Motus, da Emma Dante a Emanuele Trevi. “Petrolio”, che è un po’ un’opera-mondo, veniva così affrontata da diverse angolature. Io presentai un progetto sul capitolo dedicato a Tor Pignattara. Avevo già lavorato su Pasolini molte volte, attraverso performance e altri elaborati, il mio era un percorso di lunga data e approfondito sulla sua opera, e questo a Martone interessava. Nel 1995 avevo realizzato “La passione – Pasolini al Mandrione”, un progetto per i vent’anni dalla morte.
Raccontami tre incontri che ti hanno segnato, non necessariamente nel teatro.
Pina Bausch, tantissimo e non aggiungo altro perché io e Antonio ci abbiamo fatto il nostro primo spettacolo. Claudio Morganti, anche se non ci ho mai lavorato insieme se non ospitandolo in una di queste stazioni de “La passione”. Devo a Claudio, ai suoi pensieri e al suo carattere un po’ brusco un rinnovato interrogarmi sulle mie posizioni artistiche ed etiche all’interno del mio lavoro. Lo nomino spesso anche quando insegno.
Infine, visto che letteratura è sempre stata fondante per il teatro che faccio, devo per forza di cose tornare a Pasolini. Pasolini è stata una figura che mi ha segnato dall’adolescenza e continua a farlo. Ancora oggi di fronte alla libertà di pensiero e di forme che ha Pasolini resto stupita. C’è ancora qualcosa che mi insegna, lui è un maestro sempre vivo. È una cosa che dico in «Rewind», appunto: considero Pasolini e Pina Bausch mio padre e mia madre. Mentre Claudio, forse proprio perché non ci ho lavorato assieme, rimane l’incontro più puro, più a distanza.
A parte Claudio Morganti, gli altri due non sono stati incontri fisici. O sì?
Ho incontrato Pina Bausch di sfuggita, l’ho solo sfiorata.
E parlando di incontri in presenza, chi citeresti?
Se devo parlare delle persone che mi hanno segnato, ti direi quelle che mi sono tutt’ora più vicine. L’incontro con Antonio Tagliarini è uno di quelli che avvengono una volta nella vita. Con lui condivido una dimensione continua di complicità, amicizia e di libertà che ci permette anche di fare altre cose, di perderci e di ritrovarci. È un confronto che io considero indispensabile per fare teatro. L’altra persona che mi è continuamente vicina da più o meno degli stessi anni in cui ho cominciato a lavorare con Antonio è Attilio Scarpellini. Al di là del rapporto sentimentale che ci lega, con Attilio ho un rapporto di nutrimento e discussione, di continuo confronto. Ci sono fasi del lavoro in cui senti che è meglio che nessuno ancora veda quello che stai facendo, che preferisci non mostrarti. Ma anche in queste fase esistono delle persone il cui sguardo ti torna utilissimo, il cui confronto è essenziale. Dei “primi spettatori”, primissimi in certi casi. Ecco, Attilio è quello sguardo lì. E io mi ritengo molto fortunata ad averlo.
Quando hai incontrato Antonio Tagliarini?
Ci siamo conosciuti dieci anni fa, lavorando come attori per Fabrizio Arcuri. Non c’era nessuna volontà iniziale di lavorare insieme regolarmente. Abbiamo creato il nostro primo lavoro per puro piacere, volevamo fare una dedica ad una nostra maestra comune. Così è nato «Rewind. Omaggio a Café Müller di Pina Bausch». Ci siamo divertiti molto, è stato un bellissimo modo di conoscerci. Poteva anche finire lì, Antonio aveva dei suoi lavori all’estero, io avevo dei miei progetti. Invece una serie di circostanze ci ha legato sempre di più, e non soltanto nella sfera professionale. Sono andata a vivere nello stesso palazzo dove vive Antonio, siamo diventati molto amici. E quando eravamo insieme (questo succede anche adesso) parlavamo in continuazione. Di tutto. Nonostante fosse una piccolissima produzione indipendente «Rewind» è andato molto bene, e così ci hanno chiesto di fare altre cose insieme. Sempre con la massima libertà di fare anche altro. Ma collaborare insieme è diventata una regola.
Torniamo al passato. Quali sono stati i luoghi della tua formazione?
Quando studiavo a Bologna è stato fondamentale il Teatro San Leonardo. Negli anni in cui sono stata lì lo gestiva Leo De Berardinis, prima di gestire il suo spazio, il Teatro di Leo. Frequentavo un po’ tutti gli spazi, ero abbastanza onnivora, però il San Leonardo era il “nostro spazio”, quello dove ad esempio ho visto Demetrio Stratos. Ecco, questa era una caratteristica importante: aveva un tipo di programmazione non puramente teatrale.
Quando sono arrivata a Roma per me è stato molto importante il Teatro La Piramide, che aveva aperto Memè Perlini. Frequentavo le rassegne curate Giuseppe Bartolucci, dove ho continuato a poter vedere Giorgio Barberio Corsetti, che avevo già frequentato per la tesi. Poi ho visto i primi lavori di Servillo, la prosecuzione della ricerca di Martone. Poi Roma cambia molto: il Teatro Vascello è stato un punto di riferimento, mentre verso la fine degli anni Novanta e il Duemila gli spazi sociali sono diventati centrali. Ci sono stati anni in cui non mi sono molto mossa dal Rialto Santambrogio, perché non era solo un luogo di spettacolo e di prova, ma anche un luogo di incontro.
Lì ho incontrato Daniele Timpano ed Elvira Frosini, i Muta Imago, i Tony Clifton Circus. È un peccato per Roma che questi spazi non abbiano mai avuto la possibilità di consolidarsi. Vivo a Roma da parecchi anni e so che è sempre così: le cose si spostano, ricominciano da capo, ci sono momenti di down e di vitalità, ma mai nulla che metta radici. Nell’ultimo periodo ho vissuto l’arrivo di Short Theatre, il festival diretto da Fabrizio Arcuri, come un momento importante. Non è uno spazio, è una manifestazione che inizia e finisce in un tempo limitato, però ha rappresentato molto per questa città.
Gli anni della tua formazione sono anche una materia di racconto per te. Ad esempio in uno spettacolo intitolato «From A to D and back again», ispirato alla filosofia di Andy Warhol, racconti di quando hai conosciuto Andrea Pazienza nella bologna degli anni Ottanta.
Il materiale biografico è sempre molto importante. Con Andrea Pazienza ci siamo conosciuti ad una festa. Lui mi aveva squadrato e mi avevo detto “Scusa, ma da quale bosco sei uscita cappuccetto rosso?”. Venivo dal Trentino, ero l’unica che stava bevendo una semplice birra e non mi facevo le canne perché mi facevano male. Ero vestita bene perché ero andata a quella festa come si andava alle festicciole del mio paese, Tesero. Ma nonostante questo l’ambiente mi piaceva, perché era frequentato da persone molto belle.
L’altro aneddoto su di lui che racconto spesso, ma che non è finito nello spettacolo, è l’ultima volta che l’ho visto. Ci siamo incrociati perché io stavo raccogliendo dei soldi per un amico comune che era in carcere per spaccio di eroina e Andrea voleva contribuire. Eravamo in macchina e lui, se ricordo bene, doveva venire a Roma, dove stava già lavorando con Fellini per il manifesto della Città delle donne. Ci siamo visti alle otto di mattina e ha cominciato a dirmi “Sono pulito, faccio un’altra vita, sto bene, sono cambiato, salutami tanto Nino”. Ero davvero molto contenta per lui, per quello che mi stava dicendo. Io non ho mai avuto a che fare con l’eroina e cercavo solo di aiutare questo amico. Ma poi Andrea mi guarda con la sua faccia da schiaffi, quella bellissima e sorniona che assomiglia un po’ a Zanardi e mi fa: “Senti, ma si vede tanto che mi sono che mi sono fatto uno schizzo?”.
Qual è la cosa più deprimente che ti è successa quando hai cominciato a fare teatro?
Un momento in cui stavo per rinunciare. Ho pensato tante volte di rinunciare a questo lavoro nei termini in cui volevo farlo, ovvero non come una carriera ma come la possibilità e la necessità di esprimere un mondo. Succedeva quando avvertivo il divario tra quello che volevo realizzare e quello che in concreto riuscivo a fare come qualcosa di devastate. Ricordo che quella sera andai al cinema Nuovo Sacher a vedere «L’amore molesto» di Martone. Io e Mario abbiamo avuto vite e carriere molto diverse, ma c’è una coincidenza che riguarda le nostre date di nascita: siamo nati lo stesso mese dello stesso anno. Io, per altro, mi ero laureata sul suo lavoro artistico, ovvero avevo scritto una tesi su qualcuno che aveva la mia stessa età. Confrontarmi col suo percorso mi veniva spontaneo. E quella sera, vedendo quel film che mi era piaciuto particolarmente e passando in rassegna gli scarsi risultati della mia carriera artistica, ho pensato seriamente “Io mi fermo qui”.
E la cosa più divertente di quel periodo?
Beh, ti racconto questa cosa. Sono sempre stata una spettatrice appassionata di teatro e continuo ad esserlo. Mi piace guardare il lavoro degli altri. Una volta partii da Roma in autostop per andare a vedere «Gli ultimi giorni dell’Umanità» di Luca Ronconi. Rimasi tre ore al casello senza riuscire a trovare un passaggio e pensavo che ormai non avrei più fatto in tempo ad arrivare. Poi, all’improvviso, spunta un tipo con una fuoriserie che mi porta velocemente dove dovevo andare. Fu una cosa inaspettata e un po’ avventurosa e pensai, guarda tu cosa non si fa per andare a vedere uno spettacolo!
Un’ultima domanda: il teatro salva da qualcosa? A te ti ha salvato da qualcosa?
Il teatro nel bene e nel male mi ha salvato dal fatto di avere un lavoro fisso. Ci sono momenti in cui realizzo questa cosa e ogni volta mi sembra un’immensa fortuna. Mi sono allenata tutta la vita per reinventare la mia esistenza in continuazione, una messa in discussione che è un meccanismo molto potente e ha bisogno di una forma di umiltà continua. Poi certo, ci sono alcuni aspetti di questo precariato artistico che sono estremamente pesanti. Ma il fatto che il teatro abbia reso la mia vita molto mobile, elastica, in continua ridefinizione, è stata per me una forma di comprensione del mondo molto maggiore di quella che avrei potuto avere con una dimensione più routinaria del tempo e del lavoro. Ovviamente questo vale per me, ma ne sono convinta fermamente.