M ark Cousins è uno scrittore, critico cinematografico e regista irlandese. Nella sua opera più nota, il lungometraggio del 2011 The Story of Film: An Odyssey, Cousins tracciava in quindici ore la propria storia della cinematografia mondiale.
La sua ultima fatica, Storia dello sguardo, saggio di recente uscita in Italia per Il Saggiatore, parte dalla stessa necessità di compilare un’enciclopedia personale sul tema. Il gesto di osservare viene declinato nelle varie fasi e geografie della storia secondo un principio selettivo ben preciso, che è anche una dichiarazione di intenti: osservare prima di tutto l’uomo che guarda l’uomo.
Quando è cominciata questa tua ricerca sullo sguardo?
Se devo essere onesto, tutto è cominciato quando ho fatto un test del DNA. Ho scoperto diverse informazioni interessanti sulla mia salute: non ho nessun gene relativo al cancro, o alla cardiopatia, ma in compenso ho scoperto di avere uno dei geni legati allo sviluppo della degenerazione maculare, quindi in futuro potrei diventare cieco. Mi è sempre piaciuto osservare e ho sempre pensato che questa mia capacità fosse in qualche modo legata alla mia salute mentale – mi rende vivo, mi rende felice. Tutto il mio lavoro riguarda la visione, ma la scintilla da cui è nato il progetto è questa.
Immagino che questo abbia influenzato parecchio il tuo punto di vista a riguardo: mi puoi dire qualcosa di più sull’idea che sta alla base del saggio?
Molta della mia ricerca ha a che fare con lo sguardo scientifico, con l’immaginario, con il modo in cui guardiamo allo sport, o all’architettura. È diverso, per dire, dal libro di John Berger (Ways of Seeing, ndr). C’è tanta pittura, tanto cinema, ma il punto principale per me è il nostro sguardo nei confronti degli altri esseri umani. Per fare un esempio, dal mio punto di vista Cristoforo Colombo era un pessimo osservatore. Ha incontrato culture e identità sconosciute, affascinanti, ma è stato sostanzialmente cieco rispetto a tutto questo. Mi affascinano i pessimi osservatori.
Citi anche moltissimi “buoni osservatori”.
Certamente. All’esatto opposto di Colombo abbiamo lo sguardo di Copernico, con il suo dubbio se l’uomo sia o meno al centro dell’universo, o il grande imperatore indiano Akbar, che era un grande osservatore e che tra l’altro era dislessico, come anche Martin Scorsese. Trovo che molte persone dislessiche siano ottime osservatrici. In Occidente i genitori si preoccupano che i figli leggano piuttosto che passare il tempo davanti a uno schermo. Io ero un ragazzino che faceva molta fatica a leggere, e per me è importante trasmettere il messaggio che la cultura visiva, il contatto visivo con il mondo è esteticamente, eticamente e socialmente interessante quanto un libro stampato.
A questo proposito, che percentuale della tua giornata dedichi a guardare immagini virtuali?
Sono un regista, quindi passo molto tempo davanti allo schermo – diciamo il 20% della mia giornata. In compenso di recente mi hanno fatto notare che uso raramente il telefono, e effettivamente provo a usarlo il meno possibile. Sicuramente non lo guardo mentre sono con una persona, anche fosse per controllare il nome di un artista che non ricordo. D’altronde guardare il mondo reale mi emoziona tantissimo, vado a letto presto la sera perché amo vedere l’alba.
Hai delle strategie per migliorare la tua attenzione?
Sì, ne ho, anche se forse “strategia” è una parola un po’ forte. Quando vado in un posto che non ho mai visitato faccio una specie di elenco mentale delle immagini che ho di quel posto, dei miei pregiudizi visivi, in modo da cercare di scartare i cliché visuali e concentrarmi su quello che ho davvero davanti agli occhi. Per esempio, quando sono andato in Iran le mie opinioni visive preconcette erano di incontrare tante donne in chador o completamente coperte, gruppi di persone cantare, soldati americani… Sapevo che avrei visto alcune di queste cose, ma con la mia lista in mente ero sicuro di riuscire a guardare oltre e essere più oggettivo.
C’è qualcosa che può predisporre una persona a essere una buona osservatrice?
Mettiamo caso che tu non sia un ragazzino popolare: te ne stai un po’ defilato, ma in compenso sei molto attento a interpretare la situazione – anche solo per capire se sei “in pericolo”. Quando ho cominciato la mia ricerca ero incuriosito dalla possibilità di capire chi fossero i buoni osservatori e se fosse possibile cogliere un pattern, e spesso effettivamente erano degli outsider. Se invece dovessi parlare di una categoria, quando ho cominciato questa ricerca pensavo che i pittori fossero ottimi osservatori, mentre sono giunto alla conclusione che lo sguardo migliore sia quello scientifico, perché è un tipo di visione che tende a smentire ciò che ha davanti agli occhi.
È interessante come nel mondo scientifico da una parte la rappresentazione sia riduttiva, mentre le immagini originali sono spesso bellissime ma controintuitive.
Esatto. Il microscopio elettronico è incredibile, le immagini sembrano paesaggi lunari. Secondo me è la visione migliore di sempre, anche se è improprio parlare di visione, perché non riguarda la luce ma gli elettroni. Gli affezionati alla tradizione postmoderna parlerebbero di relatività della visione, di scetticismo, di struttura, ma per me il microscopio elettronico è una specie di momento primigenio, un modo completamente nuovo di vedere, perché permette di scoprire che ciò che è solido non è solido, ma è principalmente spazio vuoto. È davvero psichedelico. Durante le ricerche per il libro ho anche scoperto una cosa che non sapevo, cioè che la doppia elica del DNA è stata una scoperta visiva, merito della Photo 51, un’immagine a raggi X ricavata da Rosalind Franklin – che, per inciso, non fu nemmeno nominata per il Nobel.
Tornando all’immagine virtuale, tu stesso nel libro sostieni di essere preoccupato dal fatto che il contatto con una grande quantità di immagini virtuali ci renda meno sensibili alla realtà – quindi naturalmente ti chiedo qual è il tuo rapporto con la realtà, cosa intendi esattamente.
Stamattina stavo passando per strada e ho visto un ragazzo che chiedeva la carità. Ho incrociato il suo sguardo ma non mi sono fermato, ho tirato dritto, e me ne vergogno. In Scozia, dove vivo, c’è una donna rumena senzatetto. L’ho vista per la prima volta un paio di anni fa e mi sono fermato, ho chiesto il suo nome, l’ho guardata negli occhi, nel tempo l’ho anche aiutata economicamente. Questo per me è reale, questa elettricità dell’incontro con un’altra persona per strada: possiamo tirare dritto, possiamo atteggiarci a flâneur, oppure possiamo fermarci di fronte all’umanità di un’altra persona. Certo, se vuoi possiamo metterci a dissertare su cosa sia per me il reale in senso filosofico, possiamo discutere di realtà e rappresentazione, sono tutte questioni teoriche che naturalmente ho assorbito, ma questo non ha la minima influenza sulla mia esperienza di vita, sulla mia decisione di dare del denaro o meno a una persona che chiede la carità.
Quando cammini per la strada fai foto o video?
È vent’anni che porto la mia macchina fotografica sempre con me, scatto ogni giorno. Avrò una decina di migliaia di foto sul mio computer. Detto questo, preferisco riprendere con la videocamera, mi rende più felice. Gli sportivi descrivono la sensazione di essere in partita – ecco, quando riprendo io mi sento in partita. Sono una persona piuttosto ansiosa, ma quando sono dietro alla macchina da presa la mia ansia scompare completamente, sono perso, ipnotizzato da quello che sta succedendo nel mondo e che io non sto dirigendo. A volte mi metto a riprendere qualcosa anche solo per calmare i nervi.
Hai un soggetto preferito?
Mi piace il campo largo, non mi interessa poi tanto avvicinarmi alle situazioni. E amo riprendere i bambini perché sono completamente imprevedibili, anarchici davanti alla macchina da presa.
Come ti regoli con la postproduzione?
Lavoro con lo stesso montatore da tredici anni e non manipoliamo le immagini più di tanto – pochi effetti visivi, poca color-correction: ho cominciato a girare film in 16 millimetri e per me riuscire a catturare la luce ideale è quasi una questione di orgoglio. Poi il cinema iperestetizzante mi piace, anche se è manipolato, ma io non sono per niente aggressivo, non voglio avere il controllo totale sull’immagine, anzi, sono piuttosto passivo. In una scena di vita quotidiana per strada succede già un sacco di roba, non ha molto senso renderla più complessa.
Il libro è pieno di immagini, mi racconti del processo di selezione? Sono arrivate prima le immagini o il testo?
Ho cominciato a lavorare al libro raccogliendo una enorme quantità di immagini in una cartella, e poi ho cominciato a suddividerle e a metterle in sequenza basandomi sulla pura sensazione. Così è nata la struttura grezza del libro, e lavoro così anche sui film – guardo un’immagine e mi dico “questa potrebbe stare negli ultimi venti minuti”. Quindi sì, sono arrivate prima le immagini del testo. Poi lavorando al testo ho scoperto delle cose nuove che ho approfondito mano a mano.
C’è un periodo storico che ti ha colpito più di altri?
Mi affascina tutto il XIX secolo, e in particolare la figura di Paul Cezanne. Il suo sguardo è davvero meraviglioso. Ha dipinto sua moglie una enorme quantità di volte, e l’ha dipinta come si dipinge un oggetto: era interessato a lei allo stesso modo che a una tenda o una sedia. Non è una questione di misoginia, è il suo sguardo che era così intenso da vedere la bellezza del Mont Saint-Victoire quanto quella di una mela. Traeva alcune informazioni dal mondo visuale, ma poi aggiungeva tantissimo altro prescindendo dalla visione. La sua creazione è un continuo rimbalzare tra la tela e il mondo.
C’è un’immagine che ti ha particolarmente emozionato nella tua ricerca?
L’architettura è il mio primo amore. Il convento di Sainte Marie de Latourette di Le Corbusier a Éveux è un edificio in cemento, non ha niente di troppo delicato o di critico, eppure per me è travolgente per il modo in cui Le Corbusier è stato in grado di capire la morbidezza e la geometria della luce. Ho studiato matematica, questo tipo di regolarità mi commuove. Un’altra immagine che mi emoziona particolarmente è l’autoritratto di Rembrandt alla National Gallery di Edimburgo. La prima volta che l’ho visto avevo vent’anni, mentre Rembrandt quando l’ha dipinto ne aveva 51. Ora ne ho 52, e devo dire che è molto commovente. Per me le immagini sono come una piscina in cui mi immergo, a volte mi sembra quasi di annegare. In tutte le immagini c’è qualcosa al di là della facciata, sono sempre profonde. Per questo le amo così tanto.