P rima che il lockdown mettesse in pausa le città del mondo, chiedevo a Stefano Boeri come gli è venuta l’idea del Bosco Verticale. “Ero a Dubai, nel 2006. Guardavo i grattacieli della città scandalosamente conficcati nel deserto. Fuori il clima era torrido, ma dentro quei gusci di vetro e acciaio i condizionatori alitavano un freddo artificiale. Mi chiedevo se quei colossi verticali potessero essere rivestiti di vegetazione e avvolti nella sua frescura naturale, all’ombra della canopia”.
Gli ci sono voluti otto anni di lavoro, sperimentazioni snervanti e numerosi insuccessi per trasformare quella visione da fata morgana in realtà: dall’ottobre del 2014, 850 alberi, 5.000 arbusti e 15.000 piante rampicanti hanno preso a crescere sulle pareti di due torri alte rispettivamente 120 e 90 metri, ai margini del quartiere Isola di Milano. “Quello del Bosco Verticale è un progetto che all’inizio sembrava impossibile e che invece oggi c’è, esiste, ed è diventato un caso di grande interesse”.
Dice Boeri che “è stato un mix di paziente ricerca, spregiudicatezza e forse anche incoscienza a far sì che si riuscissero a collocare così tante piante sulle superfici esterne di due edifici nel cuore dalla città più densamente abitata, cementificata e inquinata d’Italia”. Oggi Boeri lavora a nuovi progetti di vertical foresting un po’ in tutto il mondo e dirige il Future City Lab della Tongji University di Shanghai, un programma di ricerca post-doc che prova ad anticipare le traiettorie di sviluppo delle metropoli del futuro. Il prossimo passo sarà quello di creare da zero una Città Foresta, fatta interamente di Boschi Verticali. Due progetti di questo tipo, in Cina e in Messico, sono già stati approvati.
Come il precursore dell’architettura organica Frank Lloyd Wright, anche Boeri professa l’ibridismo e la scomparsa della città nella natura, ma alla nostalgia per le abitazioni unifamiliari predilige l’intensività del grattacielo. La ricerca che sta conducendo al confine tra urbanistica e dendrologia rientra in una più ampia riflessione sulla città al tempo del riscaldamento globale: un movimento internazionale di progettisti impegnati a immaginare opere architettoniche per la mitigazione dei – o l’adattamento ai – cambiamenti climatici.
Il paesaggista dell’Università di Pechino Kongjian Yu, per esempio, prende spunto dalle tecniche di canalizzazione anticamente adoperate in Cina per realizzare “città spugna” a prova di inondazioni, con la creazione di bacini imbriferi periurbani e di pavimentazioni permeabili. La professoressa di urban design dell’Università di Harvard Julia Watson ha invece recentemente pubblicato Lo-Tek: Design by Radical Indigenism, una ricerca ventennale in cui raccoglie esempi di architettura vernacolare, economica, resiliente e a basso impatto ambientale. In Regno Unito, l’architetto Andrew Waugh ha da poco concluso la realizzazione del più grande edificio al mondo interamente costituito di legno lamellare a strati incrociati (cross-laminated timber). All’Università del Colorado lavorano alla progettazione di “biomattoni” composti da colonie di batteri mentre la scienziata naturale Janine Benyus ha fondato il Biomimicry Institute per diffondere anche nella ricerca architettonica i principi della “biomimesi”, l’imitazione di soluzioni estetiche e funzionali della natura per lo sviluppo di tecnologie ed edifici con una maggiore efficienza energetica.
E pensare che la città era nata proprio come il luogo dell’affrancamento dalla natura, uno spicchio di terreno lastricato e sottratto alla foresta per la convivenza civile degli umani, che si riteneva morale proprio perché denaturalizzato e marcatamente disgiunto dai pericoli grandi e piccoli della selva circonvicina. L’emergenza sanitaria su cui ancora fluttuiamo non ha però cancellato il bisogno di problematizzare i limiti ecologici della vita urbana, ma l’ha anzi accentuato. Oggi è stato un virus a paralizzare le città, domani potrebbe essere una catastrofe climatica.
Si stima che per contrastare il riscaldamento globale causato dall’emissione di gas serra dovremmo piantare complessivamente mille miliardi di alberi, grosso modo 150 per ogni abitante della Terra. Quale contributo possono dare i suoi progetti Bosco Verticale e Città Foresta, e più in generale la filosofia della forestazione urbana che li sottende?
Si badi però che quando parliamo di forestazione urbana facciamo riferimento a qualcosa di molto più ampio, che include non solo gli edifici “verdi” ma anche boschi orbitali, tetti verdi, orti urbani, giardini di comunità, corridoi ecologici e così via. È tutta una nuova idea di città che cerca di aumentare in modo assolutamente consistente le proprie superfici vegetali per assorbire CO₂ e polveri sottili, ridurre il calore e il consumo energetico, aumentare la biodiversità e la qualità della vita. Il Bosco Verticale è una delle espressioni della forestazione urbana, ma non è certo l’unica. Per rendere l’idea del contributo che può dare cito il caso di un progetto messo a punto per la municipalità Manhattan: abbiamo calcolato che basterebbero 25 Boschi Verticali per raddoppiare il numero degli alberi di Central Park, che è uno dei parchi urbani più grandi degli Stati Uniti. Tra le tante articolazioni dell’urban forestry, direi che la vera forza del Bosco Verticale risiede in questa sua intensività.
Per certi versi gli alberi possono essere considerati strutture architettoniche naturali, impareggiabili nel sequestro dell’anidride carbonica e alimentate ad energia solare, belle a vedersi e capaci di adattarsi a ogni tipo di clima. Per quanti progressi facciamo, la natura è sempre un passo avanti a noi: il design naturale rimane ancor oggi più efficiente di quello artificiale. A parità di struttura e funzione, impiega meno materiali ed energia…
E quindi io credo che gli alberi, da presenze diciamo “invisibili” e “indifferenti” che fanno da sfondo alla storia degli esseri umani, siano destinati a diventare protagonisti della nostra vita. È bene saperlo ed è bene promuovere questa coabitazione, ovunque e in tutti i modi possibili. Un po’ tutto il lavoro che cerchiamo di fare va in questa direzione, persegue cioè l’obiettivo di capire se e come si possono trovare nuove forme di convivenza tra l’umano e il vegetale, la città e la foresta. Il Bosco Verticale ne è un esempio, che ora stiamo cercando di affinare ulteriormente in termini di prestazioni energetiche e di accessibilità. Negli edifici che realizziamo, prima viene la selezione degli alberi endemici da parte dei botanici con cui collaboriamo e poi la progettazione dell’architettura: la costruiamo come se gli alberi fossero “utenti” al pari degli esseri umani. Teniamo conto delle esigenze e delle traiettorie di crescita di ciascuno degli “inquilini arborei” che includiamo nei nostri progetti. E questa è certamente una forma di convivenza. Mi piace poi ricordare che gli alberi hanno anche una funzione psicologica che non è certo secondaria a quella estetica ed ecologica. Ma hanno anche una funzione politica: se cinquant’anni fa piantare un albero era “solamente” un investimento sul futuro, oggi è diventato anche un gesto capace di aggregare consenso.
Lo scorso 4 gennaio è ricorso il decimo anniversario del Burj Khalifa di Dubai, il grattacielo più alto al mondo (830 metri), emblema della surmodernità e delle capacità ingegneristiche raggiunte in questo antipasto di terzo millennio. Lei stesso ha tuttavia dichiarato che il Burj Khalifa “non è un esempio per l’architettura futura. Nel prossimo decennio occorrerà costruire dialogando con la natura, non dimostrando di poter sopraffare le sue leggi”. Dopo due secoli di divaricazione e contrapposizione crescenti, dice lei, città e foreste dovranno tornare a crescere assieme. È una svolta epocale nella storia dell’architettura: cosa serve e quanto tempo ci vorrà per realizzarla?
È un tema appassionante e complesso, a mio avviso una delle principali sfide del secolo che abbiamo davanti. Se in Europa e in Nord America la questione è oggi quella di smettere di cementificare e di consumare suolo in favore del recupero edilizio e della riforestazione, in Asia, Africa e Sud America i processi di urbanizzazione sono ancora così forti che diventa urgente progettare da zero nuovi insediamenti con un impatto ambientale ridotto. Città che fin dall’inizio accolgano la sfida di pensare alla natura non tanto come a un elemento accessorio, ma come a una componente costitutiva irrinunciabile di qualsiasi spazio, pubblico o privato, centrale o periferico che sia. In Cina ci hanno approvato un progetto di Città Foresta per 30.000 persone, dove gli edifici saranno tutti indistintamente ricoperti di vegetazione. In Messico, vicino Cancún, c’è l’ipotesi di realizzare un’altra Città Foresta per più di 100.000 persone e 7 milioni di alberi e piante, il più possibile autosufficiente con pannelli solari, impianti eolici, sistemi di recupero dell’acqua e coltivazioni urbane.
L’estate scorsa, con il Climate Mobilization Act, la città di New York ha reso obbligatoria per tutti gli edifici di nuova costruzione o ristrutturazione la dotazione di tetti verdi, ricoperti cioè di piante, pannelli solari, impianti mini-eolici o le tre soluzioni assieme. Misure analoghe sono state introdotte anche nelle municipalità di Toronto, San Francisco, Portland e Denver. Cito questi esempi per chiederle qual è a suo avviso il peso delle amministrazioni locali nei progetti di forestazione urbana…
Bosco Verticale e Città Foresta nascono per ridurre l’impatto ambientale delle città concependo la vegetazione quale elemento essenziale dell’architettura. Un altro filone di ricerca che si muove in questa direzione è quello delle abitazioni in legno, che hanno un impatto ambientale nettamente inferiore a quello degli edifici in cemento (fino al 75% di emissioni in meno a costruzione conclusa). Qual è la sua opinione sulla bioedilizia in legno?
Come si concilia la filosofia del Bosco Verticale e della Città Foresta con il diritto all’abitare? So che entro il 2021 dovrebbe concludersi la Trudo Vertical Forest di Eindhoven, la prima applicazione del Bosco Verticale all’edilizia sociale.
A Eindhoven il costo di costruzione è intorno ai 1500 euro al metro quadro, il che permette agli investitori di gestirlo in social housing e di darlo in affitto a giovani residenti, con un taglio di spazi intorno ai 60-70 metri quadri e un costo molto ridotto. La stessa cosa avverrà a Nanchino, dove è in corso di realizzazione il primo Bosco Verticale cinese, sempre nell’ambito dell’edilizia popolare. Ma oggi stiamo anche lavorando alacremente per la riduzione dei costi di manutenzione del Bosco Verticale di Milano creando di fatto una nuova professione, che è quella dei “giardinieri volanti”, arboricoltori specializzati che si calano dalle coperture per potare e concimare le piante quando serve. La storia del Bosco Verticale, per altro appena cominciata, è se vogliamo il susseguirsi di queste continue innovazioni, che oggi anche altri studi di architettura cominciano a fare proprie. Un fatto che, alla lunga, abbasserà ulteriormente il costo di questo tipo di edifici.
Nel 2015, in occasione di una lectio magistralis alla Columbia University, Renzo Piano affermò che “durante gli Anni Sessanta, Settanta, anche Ottanta, in Europa la missione [di architetti e urbanisti] era salvare i centri storici. Ci siamo riusciti, e l’abbiamo fatto bene”, disse allora Piano. “Ora, però, la missione di questo secolo deve essere salvare le periferie”. Quale pensa possa essere l’impatto della forestazione urbana sul futuro delle periferie?
Prima citavo il caso di Tirana: il progetto di riorganizzazione complessiva della città che abbiamo concordato con l’amministrazione locale ha previsto – tra le altre cose – la costruzione di 22 scuole pubbliche, aperte a tutte le ore del giorno, tutti i giorni dell’anno e per tutte le età. Volevamo che le scuole tornassero a essere luoghi di incontro e di scambio culturale soprattutto in periferia, un po’ come in passato lo sono stati qui da noi le parrocchie e gli oratori, oggi purtroppo in grande difficoltà. Quando parliamo di città, poi, bisogna ricordare che circa un terzo della superficie urbana mondiale è costituita da subtopie precarie e fatiscenti come favelas, slums e baraccopoli. Indipendentemente dai progetti di forestazione urbana, è dovere di ogni urbanista tenerne debito conto.
Giovedì 25 giugno alle 18 a Piazza della Enciclopedia, il festival digitale di Treccani, Stefano Boeri parlerà del rapporto del singolo con la collettività e dell’uomo con la natura, di esperienze del passato e proiezioni del futuro, di piccoli centri e grandi città. Con lui, Massimo Bray, Marco Boschini, e Fiorella Favino.