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a gattonato, vestita da unicorno, in mezzo agli spettatori per osservarli da vicino in Gentle Unicorn; li ha accolti in una minuscola casetta di legno, uno alla volta, in Goodnight Peeping Tom; in The Olympic Games si trasforma in atleta e rilegge, stella per stella, la bandiera di un’Europa in crisi. Oggi si paragona agli astronauti che si avvicinano alla Luna immaginandoli, in quel momento, “confusi, euforici e un po’ soli”.
Così si è descritta Chiara Bersani, attrice e performer piacentina, quando lo scorso 7 gennaio 2019 al Piccolo Teatro di Milano ha ricevuto il Premio Ubu 2018 come Miglior nuova attrice o performer under 35. Una vittoria che si è subito trasformata in un simbolo, il segno che nel teatro italiano qualcosa sta cambiando. Chiara Bersani, oltre che brava, è affetta da osteogenesi imperfetta e non era ancora successo che il premio più illustre del teatro italiano venisse assegnato a un’artista con disabilità. Insieme a lei, quest’anno, sono stati premiati anche Gianfranco Berardi, attore non vedente, che ha ricevuto il premio Miglior attore ex aequo con Lino Guanciale, e Antonio Viganò, Premio Speciale con il suo Teatro La Ribalta – Accademia Arte della Diversità.
Consapevole del suo ruolo e della novità, l’attrice ha tenuto alla cerimonia un discorso che in poco tempo ha fatto il giro dei social, condividendo la sua vittoria con tutti coloro che, prima di lei, sono stati capaci di “smussare gli angoli di un intero sistema”, consentendole di arrivare a questo importante traguardo ma soprattutto la possibilità di aprire nuove strade, di agevolare l’accesso alla formazione e alla produzione di arte e cultura anche a corpi non conformi.
Ed è il corpo il centro della ricerca che da oltre dieci anni Chiara Bersani porta avanti, un corpo che lei definisce “politico” e di cui esplora, portandole all’estremo, le implicazioni poetiche e relazionali, indagando, a partire dallo sguardo, ciò che in ciascuno di noi si muove nell’incontro con l’altro e con le manifestazioni della diversità. Il suo discorso, pensato anche per essere ascoltato in diretta dal pubblico di Rai Radio 3, ha reso la cerimonia di premiazione – diretta da Luigi De Angelis e condotta da Graziano Graziani e da Federica Fracassi – una serata storica per il Premio. Un momento in cui critica e artisti si sono assunti il rischio di svincolarsi dalle definizioni, come quella che in genere relega l’interprete con disabilità al circuito del teatro sociale o a tematiche affini. Un passaggio questa volta condiviso ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori, a ribadire, forse, la vocazione comunitaria dell’arte teatrale, ma anche a restituirsi un valore e una legittimità nello spazio pubblico nel delineare lo sviluppo e la crescita di nuove forme di pensiero.
Al Tascabile la performer si racconta, spaziando tra i bisogni delle origini e i desideri futuri, dagli esordi con la compagnia Lenz Rifrazioni all’incontro con il mentore, il coreografo Alessandro Sciarroni, e i maestri Jérôme Bel e Rodrigo García, per passare alle collaborazioni con le compagnie Babilonia Teatri e ZeroFavole fino alle ultime sperimentazioni autoriali con i performer e danzatori Marco D’Agostin, Matteo Ramponi e Marta Ciappina e la sorpresa totale, l’annuncio della candidatura. Felice della serie di riconoscimenti che ha investito il suo gruppo di lavoro (Alessandro Sciarroni ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale Danza 2019 e Marco D’Agostin l’Ubu 2018 come Miglior nuovo attore o performer under 35) Chiara Bersani anticipa i prossimi progetti in Italia e all’estero, impaziente di cimentarsi con Moby Dick e Il canto delle balene.
Che cosa hai pensato quando hai scoperto di essere stata candidata? Te lo aspettavi?
No, è stata una sorpresa, e anche particolarmente bella per il modo in cui mi ha raggiunta. Ero a casa di mia madre, a un pranzo di famiglia con il mio compagno, e in quel momento stavo ascoltando la radio perché ero abbastanza convinta che un caro amico, Marco D’Agostin, sarebbe stato inserito nella rosa dei candidati, cosa che poi è successa – e ancor di più, Marco ha anche vinto come Miglior Performer Under 35. Quando è uscito il mio nome è stato davvero incredibile, a casa c’è stato un momento di silenzio e di imbarazzo, seguito subito da grasse risate e un po’ di facile ironia sulla mia età, dato che io di anni ne ho 34 e agli under 35, diciamocelo, ci sono arrivata per un pelo! I primi pensieri insomma, sul momento, sono stati molto basici; poi è arrivata la soddisfazione. Pur consapevole di fare parte di una categoria intorno a cui la giuria in genere si permette maggiore libertà, aprendosi alle sperimentazioni più nuove, è stato emozionante ritrovare tra le persone candidate con me artiste che mi piacciono molto, persone di cui conosco bene la ricerca, una ricerca di grande freschezza che tenta anche di riscrivere quello che oggi è il significato di parole come
attore e
performer.
Il terzo pensiero, ammetto, è stato “tanto non vincerò mai, godiamoci perciò questo mese di candidatura”, motivo per cui ho cavalcato divertita quest’onda senza preoccuparmi degli sviluppi. E invece… [ride]
Nonostante tu sia piuttosto giovane non sei certo un’esordiente, è più di una decina d’anni che lavori nell’ambiente teatrale. Quand’è che hai deciso di cominciare ad abitare questo mondo?
Le prime incursioni, a parte alcune esperienze adolescenziali nei laboratori scolastici, sono iniziate durante dei percorsi di formazione che ho seguito all’Università, che al principio non inseguivano una professionalità. Al tempo studiavo Psicologia, pensavo che da grande avrei fatto quello, la psicologa. Non so se questo valga ancora oggi, ma posso dirti che le persone con disabilità della mia generazione, cresciute quindi negli anni Novanta, sono state sempre spinte a partire dalla propria testa come unico strumento per trovare il proprio posto nel mondo, se non altro quelle con disabilità prettamente fisica e motoria. Presupposti sicuramente legittimi ma che a me facevano soffrire molto. Nonostante il mio fosse un corpo con l’osteogenesi imperfetta, un corpo quindi che viveva delle esperienze di dolore molto frequenti, ho sempre avuto un bellissimo rapporto con lui. Questa cosa che mi si chiedeva, di investire cioè prettamente sulla mia testa e che in qualche modo mi proponeva di premettere un “nonostante la malattia”, “nonostante la carrozzina” davanti a ogni possibilità che incontravo, anche quelle più significative, mi faceva stare male.
Così non appena ho trovato un percorso teatrale che mi piaceva, ho pensato che quella, finalmente, sarebbe stata l’occasione per godermi il mio corpo, uno spazio in cui poterlo davvero mettere in primo piano e cominciare a esplorarlo. Allora avevo 19 anni e la compagnia in questione, presso la quale studiavo, era Lenz Rifrazioni, ancora attivissima a Parma. A 21 anni la stessa compagnia mi ha proposto un ingaggio e da lì ho iniziato ad aprire ulteriori finestre sul mio corpo, benché sapessi di essere all’inizio e che c’erano ancora degli universi da scoprire. Tutto questo ha cominciato a risuonare in me molto di più degli studi teorici; ho preso così sempre più coscienza che il teatro era ciò che volevo fare, rimpossessarmi del mio corpo, lavorare con la poesia dei corpi, quello era il mezzo con cui desideravo comunicare. Sono stati certamente anni fondamentali.
Il tuo lavoro di autrice prosegue oggi di pari passo con quello di attrice, in collaborazione con compagnie affermate, registi e coreografi del contemporaneo. Chi sono stati i tuoi maestri? Pensi che abbiano influenzato i tuoi lavori successivi?
Sì, senza dubbio lo hanno influenzato moltissimo. Durante il discorso di premiazione ho scelto volutamente di non fare nomi. Una scelta ragionata perché credo che l’influenza di coloro che considero “maestri” sia iniziata molto prima che arrivasse il teatro. Sono riuscita ad arrivare a questo riconoscimento grazie, per esempio, anche alla maestra delle elementari che per la prima volta mi ha portato in gita sul treno. Tutto parte da lì, da quando qualcuno ha iniziato a dirmi che le cose erano possibili anche per me. Lo stesso è accaduto agganciandosi successivamente alla ricerca artistica di settore. Qui l’altro aspetto importante è che gli artisti che mi hanno formato sono tutti artisti che non lavorano direttamente sulla disabilità, artisti che mentre proseguivano una propria ricerca autonoma hanno pensato che, a un certo punto, anche io con il mio corpo avrei potuto entrare a farne parte.
Per me è stato quasi miracoloso che sia accaduto, perché accade molto poco. Ciò che questi maestri mi hanno insegnato più di ogni altro è che se tu nella tua ricerca autoriale resti aperto a ciò che incontri allora possono davvero accadere piccoli miracoli, capaci di farti sprofondare, di aprire paesaggi incredibili. Se invece ti approcci alla ricerca con rigidità diventa tutto molto più difficile, magari arrivi a prodotti artisticamente perfetti ma in cui manca la profondità, oppure la sorpresa, cosa che invece uno sguardo realmente aperto ti può garantire. E qui parlo di maestri come Alessandro Sciarroni, Rodrigo Garcia, Jérôme Bel, ma anche di miei coetanei come Marco D’Agostin, artisti giovani riusciti ad accogliere il rischio di lavorare con un corpo che, almeno fino a tre anni fa, non era così dichiaratamente accolto dalla nostra scena.
Rischiare, quindi. Credi di averlo fatto a tua volta?
Sicuramente la cosa che ho amato nel lavoro con questi autori è che chiedono al performer di assumersi anche una responsabilità autoriale, di portare quindi dei contenuti, delle proposte al di là delle loro indicazioni. Da questo punto di vista la mia presenza, così come quella degli altri colleghi, può aver dato un contributo alla creazione delle opere che poi sono nate, in che misura e in che termini bisognerebbe chiederlo a loro, non me la sento di spingermi oltre. Certo è che, nell’abbracciare la mia presenza, alcuni di loro si sono lanciati in una terra in parte ignota e questo scambio ha probabilmente lasciato qualcosa a entrambi.
Al centro della tua ricerca artistica c’è quello che tu chiami il “corpo politico”. Di che si tratta?
Il concetto di corpo politico affonda ovviamente le radici nella filosofia del Novecento, si potrebbe aprire una lunghissima discussione. Io lo declino secondo la sfera per me più interessante. Come posso far veicolare al mio corpo e alla mia immagine la mia idea di me? Facciamo un esempio. Un giorno esco di casa e incontro una persona con cui la relazione che passa da una prima occhiata durerà al massimo cinque secondi, il tempo di sfiorarsi e poi ognuno via per la sua strada. In quel brevissimo arco di tempo lei vedrà me come io vedrò lei, ed entrambi ci faremo istintivamente un’idea l’uno dell’altro. Io non posso, non voglio e non è di mio interesse, formulare un giudizio su quello che quella persona penserà di me, perché il mio giudizio, così come quello dell’altro, si baserà sicuramente su delle strutture cognitive, su una storia, dei pregressi, su cose su cui io non ho assolutamente alcun tipo di controllo, anche perché non le conosco. Sarebbe arrogante avere da parte mia un’opinione. Che cosa posso fare io, però? Lavorare sulla mia presenza, sulla mia figura, capire com’è che io posso decidere di modificare la mia forma e la mia immagine rendendomi apparizione di un’idea che a me interessa far emergere. Parliamo ovviamente a livello utopico: potrei passare la mia vita, e forse lo farò, a perseguire una ricerca in questa direzione e a cambiare ogni volta soluzione. L’estate scorsa ha debuttato
Gentle Unicorn, uno spettacolo che è il manifesto di questo pensiero e che forse, tra i miei lavori, rappresenta l’esperimento più radicale in questa direzione. In
Gentle Unicorn mi pongo infatti in una situazione di totale trasparenza.
Sono vestita ma le braccia e le gambe sono molto esposte, sono senza carrozzina, mostro quindi la mia motricità senza alcun tipo di ausilio, non ho niente in scena che mi ripari per cui l’occhio dello spettatore possa essere distratto. Un lentissimo avvicinamento al pubblico che, tanto quanto io sono visibile per lui, è completamente visibile per me. Un’esplorazione reciproca, un esperimento che serve a voi per capire quanto tempo vi ci vuole per abituarvi alla mia forma e iniziare a percepire qualcos’altro e a me per far passare la paura, quella più immediata, di una massa di occhi che mi sta guardando per cominciare, e iniziare a osservarvi veramente. Quanto tempo ci serve per guardarci davvero? La cosa che mi piace di questo lavoro è che con chi decide di entrarci, già dopo dieci minuti, un quarto d’ora di lavoro, diventa possibile far nascere delle vere e proprie storie. È una drammaturgia che si scrive sul momento, composta da tante micro-narrazioni che si intessono con tutti gli spettatori, uno per uno, un accadere tra me e loro che diventa parte di una scoperta reciproca. Ecco che cos’è per me il corpo politico.
In questa direzione la danza, con cui i tuoi lavori più recenti sono sempre più in dialogo, offre maggiori possibilità espressive?
Gentle Unicorn è tutto movimento, potrei definirlo una camminata nello spazio di quarantacinque minuti. Quello che apprezzo molto nella danza è che in questo momento è forse il mondo che sente più urgente il bisogno di allontanarsi dalle definizioni. I miei lavori prediligono lo sguardo, le presenze, il movimento, l’epidermide. I coreografi, i danzatori, i curatori, gli operatori della danza sono paradossalmente molto più aperti a questo genere di proposte. Non so dirti se faccio danza o no. Semplicemente ho dei desideri, delle intuizioni e delle visioni che stanno trovando risposta principalmente da loro. Rispetto poi al mio bisogno iniziale di ritrovare un corpo, la danza è sicuramente un ambiente in linea con questa mia esigenza di declinare all’interno del mio organismo e della mia fisicità una serie di termini, nozioni, studi, scoperte, ascolti. Adoro lavorare in teatro come interprete, sia chiaro. Non so da un certo punto di vista quanto senso abbia distinguere tra danza e teatro, che per me è lo spazio e danza è tutto ciò che ci avviene dentro, si aprirebbero disquisizioni enormi… La possibilità di mettere al centro il corpo, tuttavia, l’esplorazione fisica, è ancora la cosa che mi emoziona maggiormente.
Raccontaci qualcosa in più del sodalizio con Marco D’Agostin e Alessandro Sciarroni.
Con Alessandro l’incontro nasce all’alba dei tempi, è stato infatti un mio docente all’epoca di Lenz, proprio quando ho iniziato, e siamo rimasti sempre legati anche quando lui si è allontanato dalla compagnia. Poco dopo io l’ho seguito e insieme abbiamo fondato un’associazione, Corpo Celeste, che tuttora ci vede uniti ed è alla base della produzione dei nostri lavori. Nel corso degli anni, sia in quello che abbiamo fatto insieme o divisi, siamo sempre stati in fortissima relazione. Un continuo scambio in termini di ragionamento, opinioni, visioni.
Con Marco invece ci siamo intercettati in un momento particolare, un momento per me di grande dolore perché era appena morto mio padre e, nonostante al tempo ci conoscessimo a malapena, lui mi mandò una lettera davvero molto bella. Da lì si è imbastito il nostro rapporto, basato proprio sulle lettere, ci scriviamo tantissimo, un vero e proprio rapporto epistolare che quando moriremo potrebbe addirittura diventare un libro! Con lui, anche per vicinanza anagrafica, l’incontro è stato quello tra due autori che erano arrivati allo stesso punto, un rapporto più alla pari rispetto a quello con Alessandro che mi segue ancora quasi come mentore. Ci siamo incrociati facendo spesso dei lavori a quattro mani e, anche in quello che facciamo divisi, siamo sempre presenti come drammaturghi l’uno nel lavoro dell’altro. Ora stiamo vivendo un momento di grande gioia ed esaltazione, in cui improvvisamente tutti hanno vinto tutto e ciascuno di noi si sente partecipe dei premi dell’altro come del proprio. Non so ancora come sia stato possibile questo boom, di cui siamo grati e che nell’insieme ci appare ancora surreale e un po’ buffo.
Abbiamo parlato della drammaturgia dei corpi. Che rapporto hai invece con i testi? Come nascono i tuoi? Hai degli autori che prediligi con cui ti confronti?
Ti parlerò di me e in parte ancora di Marco. Io e Marco D’Agostin tendiamo a leggere tantissimo, libri e testi che in genere sono molto distanti dal teatro. Quelli che per noi poi si trasformano in ispirazioni sono elementi che provengono da sfere lontane, che ci permettono di scardinare e rivoluzionare costantemente il pensiero, l’idea e la forma. La maggior parte dei miei lavori sono senza testo ma nel momento in cui arriviamo a scrivere, scrivo prima tutto quello che verrà consegnato prima di cominciare, il che per me fa sempre parte dell’opera. Il foglio di sala, le note di regia non sono mai accessori, sono parte della creazione tanto quanto lo è il mio corpo, le luci; motivo per cui tento di usare la parola scritta, prima e dopo, con la stessa precisione. In questi casi la parola è relegata allo spazio, con una specifica funzione. In altri casi non è stato così. Nello spettacolo The Olympic Games, lavoro firmato a quattro mani da me e da Marco, ci sono invece dei testi e sono stati concepiti insieme, attraverso il nostro consueto rapporto epistolare da cui ricavavamo ciò che urgeva a entrambi e mano a mano cominciavamo a identificare i termini, i contenuti, le parole, ciò che ricorreva più spesso – così sono andati creandosi i testi dello spettacolo. Conoscendomi direi che se ci sentissimo tra un paio d’anni potrei darti una risposta completamente diversa… Mi piace pensare che ogni opera ti aiuti a trovare sempre nuove strategie di creazione.
I tuoi spettacoli instaurano spesso una relazione molto intima con lo spettatore. Una relazione che certe volte passa per lo sguardo, altre dalla parola, in alcuni casi, come in Goodnight Peeping Tom si spinge fino alla prossimità e al contatto fisico con il corpo dell’altro. Lo fai in un luogo deputato, protetto, ma allo stesso tempo esclusivo, una piccola casetta di legno in cui c’è spazio solo per due individui: spettatore e performer, e lì, da quell’interazione, tutto comincia… Chi è il tuo pubblico? Che cosa ti interessa di questo scambio?
Quello del pubblico è un tema che, detto brutalmente, mi spacca la testa… In
Goodnight Peeping Tom, mano a mano che abbiamo testato il dispositivo abbiamo capito che avrebbe potuto funzionare per un massimo di cinque persone alla volta, considerando poi questo apice di intimità, uno spazio per due. Ciò fa sì che chi vive il lavoro lo vive appieno, rendendolo però esclusivo, come sottolinei anche tu. Una questione che a volte mi mette in difficoltà, perché so che, anche nella migliore delle ipotesi, la vedranno sempre in pochi. Se dovessi indicare una pecca in
Goodnight Peeping Tom è proprio questa, la non fruibilità. Con
Gentle Unicorn sono migliorata ma non poi così tanto
(ride), la prossimità è ancora molto importante e un pubblico di duecento persone, per esempio, non lo potrei mai gestire. Sono una fan dell’arte e degli spazi accessibili a tutti, motivo per cui inizia a essere un problema il fatto che le mie opere richiedano spesso una tale intimità. Ci sto provando per il prossimo lavoro, in cui mi sto imponendo di immaginare una più classica divisione palco-platea, vediamo che cosa accadrà!
Il mio pubblico è un pubblico intelligente, che viene a teatro per i più disparati motivi ma con l’idea di essere aperto e di lasciarsi attraversare dalle domande, dalle inquietudini e dalle esperienze che gli vengono proposte. È un pubblico al quale io non devo dare uno spettacolo chiuso e perfetto ma che accoglie l’imperfezione, la sfida, la possibilità del fallimento, e che è capace di andare a casa con una domanda, con della fatica da fare. Non ho nulla contro gli altri pubblici ma quello che mi emoziona e a cui desidero parlare è questo, anche perché io stessa cerco questo come spettatrice. È così facile ora creare immagini esteticamente meravigliose, abbiamo mezzi, strutture, possibilità, ma a me interessa il terremoto, l’uragano… voglio uscire dall’incontro con l’arte piena di macerie, e a questo mi rivolgo, anche quando la produco.
C’è qualcuno o un episodio di cui conservi un ricordo particolare?
Devo ammettere che ne ho molti. In questo micro-mondo, che in Goodnight Peeping Tom viviamo con gli altri attori Marco, Marta (Ciappina) Matteo (Ramponi), è davvero come se avessimo costruito una sorta di comunità segreta con gli spettatori, di cui ogni tanto parliamo quasi come se fossero gli amici delle scuole medie (ride). Il primo ricordo che mi viene in mente tuttavia risale alle prove con il pubblico prima del debutto, quando una signora piuttosto anziana volle entrare nella casetta di legno con me, cominciando subito a parlare. Mi raccontò che le avevano diagnosticato una malattia degenerativa di cui non aveva ancora parlato con nessuno. Mi colpì ovviamente la natura del racconto, così come la scelta di questa donna di raccontare una cosa del genere a una persona sconosciuta che non avrebbe visto mai più, e fui pervasa da un forte senso di smarrimento. Quando uscii dalla casetta la donna era scomparsa ma capii che Goodnight Peeping Tom poteva essere quello che nessuno di noi aveva immaginato: un posto dove poter lasciare qualcosa, anche solo per un attimo. E qui ritorno a quello che mi hanno insegnato i miei maestri, l’importanza per un performer di essere disposto a tenere aperta la struttura, a rompere le regole, come quella che inizialmente c’eravamo dati con il resto del gruppo di evitare la parola. Devi essere in grado, nell’incontro con il pubblico, di ribaltare il tuo schema, di accogliere l’imprevisto, soprattutto se l’imprevisto è stato più furbo di te.
Spesso la persona con disabilità che si avvicina al teatro, sia come professionista che come fruitore o appassionato, vive la contraddizione tra l’incontro con uno spazio dove il suo deficit è finalmente risorsa creativa e il rientro in una società dove il limite è invece concreto, tangibile e ancora fortemente contenitivo. Come fare a portarsi dietro quanto dato e ricevuto nell’incontro con ciò che produce in noi un risveglio? Il teatro ha secondo te delle carte in più che può ancora spendere in questa direzione?
È una domanda molto bella e complessa. Non so se saprò risponderti ma ci provo. Tanto per cominciare chiaramente è diverso il ruolo di chi l’arte la fa e la propone e di chi la fruisce. Io credo che il teatro abbia in questo senso delle potenzialità enormi, che nessuna altra arte ha, nemmeno il cinema, che implica sempre delle forme di distanza; il teatro ha un potenziale carnale, se così si può definire, che non appartiene a nessun’altra disciplina, e questo può notevolmente ribaltare la vita di una persona disabile, la percezione di sé e tutto quanto. La cosa che può essere utile, a chi porta con sé dei limiti, è che il teatro praticato ti impone una disciplina da cui non puoi svincolarti: la puoi tradurre, compatibilmente con i tuoi tempi e capacità, ma una volta che hai trovato il tuo modo da quella regola non puoi fuggire.
Penso che la disciplina sia la prima cosa che può permettere alla persona con disabilità di ricavarsi o di imparare a ricavarsi uno spazio di autonomia e non solo a teatro. Ti parlo, voglio sottolinearlo, a partire dalla mia esperienza, la disabilità è un insieme di universi e io non ho l’arroganza di parlare a nome di altri. Sarei presuntuosa, il mio sguardo va a toccare prettamente un’area che riguarda la gestione del proprio corpo. In Purgatorio, tuttavia, spettacolo nato in collaborazione con Babilonia Teatri e la compagnia ZeroFavole di Reggio Emilia, in cui erano presenti ragazzi con disabilità, ho avuto modo di percepire chiaramente l’effetto che il teatro ha avuto sulla loro vita, portando con sé la precisione che avevano acquisito in scena. Per lo spettatore è diverso. Si aprono delle finestre, dei desideri magari, a cui dare spazio può diventare più difficile, così come l’autodeterminazione. L’ho visto anche a seguito della premiazione, grazie a numerosi dialoghi nati con molte realtà che abbracciano la diversità a teatro e che ora mi hanno contattato cercando un confronto. Restano sempre molte le contraddizioni tra il pensiero di una persona e le sue dinamiche di dipendenza, si tratta di processi lunghi, su cui l’arte può intervenire, toccando l’intimità del singolo ma solo in parte, lì sono altri i territori su cui diventa necessario lavorare ed è improbabile che la persona possa farlo da sola. Lo spazio del teatro però resta uno spazio in cui possono accadere delle cose, compreso ricavarsi uno spazio personale di libertà, che sia temporaneo o meno.
Il tuo discorso al Premio Ubu ha fatto il giro dei social, intercettando un target di lettori e ascoltatori ben oltre quello degli addetti ai lavori. È una cosa che succede raramente. Pensi che tutto questo avrà delle effettive ricadute? Potremmo definire la tua vittoria “politica”?
Partirei da un presupposto: i premi sono qualcosa di strettamente simbolico. Io non sono la più brava attrice under 35 d’Italia, assolutamente. Sono la persona a cui, per diverse ragioni, al momento è stato scelto di attribuire questo riconoscimento, ma è tutto molto relativo. Non lo dico per falsa modestia ma per realismo, siamo in mano alle scelte di persone, in base alle quali poi accadono o non accadono cose. La prima che ho pensato quando mi hanno comunicato che avrei effettivamente vinto il premio è stata che non era successo ancora, cioè che a un interprete con disabilità quel premio non era ancora mai arrivato. Questo di per sé era già simbolico.
A quel punto mi sono trovata davanti a due scelte: ritirare il premio, ringraziare e chiuderla lì oppure sottolineare che era avvenuto qualcosa di politicamente importante.
Nei giorni precedenti la cerimonia ho avuto un bellissimo dialogo con Luigi De Angelis dei Fanny&Alexander, che curava la regia dei premi Ubu, a partire dal mio desiderio di dichiarare che era avvenuto qualcosa di nuovo e che quel qualcosa era un segno. Luigi mi ha risposto sottolineando come i premi arrivano in genere a chi in quel momento rappresenta una certa corrente di pensiero, a chi milita in una direzione piuttosto che in un’altra. Io ero dunque una dei rappresentanti di quel pensiero e bisognava che rendessi onore al fatto che sarei presto diventata un simbolo. Sempre Luigi mi ha ricordato che questa premiazione sarebbe stata per la prima volta trasmessa in diretta radio su Rai Radio 3, che l’avrebbe ascoltata un pubblico estraneo a questo mondo, probabilmente ignaro del premio e che quindi era importante renderla accessibile. Così ha preso forma il famoso discorso, in cui ho cercato di rivolgermi anche a chi non aveva la più pallida idea di chi io fossi, né del fatto che fossi o meno in carrozzina, non potendomi vedere – e non è che Federica Fracassi, qui in veste di presentatrice, avrebbe mai potuto dire “E ora diamo il premio a Chiara Bersani, la disabile”! [ride] Dovevo dichiararlo, e al contempo non potevo nemmeno rispondere “Grazie, io e la mia disabilità ve ne siamo grati”, e da lì, insomma, è nato il discorso, concepito quindi per essere ascoltato e compreso davvero da chiunque. Di certo non avrei mai considerato la viralità del tutto, ma il web, ti confesso, non ho ancora imparato a capirlo.
E ora che il dado è tratto come ti senti? Come guardi al futuro?
Ammetto di essere piuttosto cinica, non credo la mia vita subirà chissà quali cambiamenti. Di certo ora godo di una visibilità che mi permette di saltare alcuni passaggi e di raggiungere certi interlocutori senza necessariamente dover spiegare esattamente chi sono e tutto il mio lavoro. Voglio invece sperare e pensare che il discorso intorno all’accessibilità dell’arte e della formazione non si esaurisca nel giro di un anno. Io in realtà ho solo dichiarato qualcosa di cui si sta parlando da tempo, persone più autorevoli di me lo stanno facendo. Spero che l’eco che è derivata dal mio discorso abbia fatto e faccia da rinforzo in quella direzione: questo è ciò che mi interessa sul serio.
Rispetto al lavoro sono pronta a mettermi in gioco subito. Gentle Unicorn era già entrato nel circuito Aerowaves 2019, un centro che si occupa di favorire la circuitazione della danza in Europa. Sono già partite tutta una serie di date in Italia e in Europa che ci vedranno impegnati e, probabilmente, anche fuori dall’Europa, insomma un anno di vita molto vivace per l’Unicorno. È poi in movimento un nuovo progetto che si articolerà in due spettacoli, la mia prima commissione da parte di una compagnia esterna, che in questo caso è la compagnia svedese Spinn di Goteborg (in collaborazione con il Festival OrienteOccidente). Uno degli spettacoli, Moby Dick, debutterà al festival nel 2020 mentre il secondo lavoro, per il quale al momento si sta definendo il piano produttivo ma che potrebbe essere presentato molto prima del previsto, si intitolerà Il canto delle balene.