H a gattonato, vestita da unicorno, in mezzo agli spettatori per osservarli da vicino in Gentle Unicorn; li ha accolti in una minuscola casetta di legno, uno alla volta, in Goodnight Peeping Tom; in The Olympic Games si trasforma in atleta e rilegge, stella per stella, la bandiera di un’Europa in crisi. Oggi si paragona agli astronauti che si avvicinano alla Luna immaginandoli, in quel momento, “confusi, euforici e un po’ soli”.
Così si è descritta Chiara Bersani, attrice e performer piacentina, quando lo scorso 7 gennaio 2019 al Piccolo Teatro di Milano ha ricevuto il Premio Ubu 2018 come Miglior nuova attrice o performer under 35. Una vittoria che si è subito trasformata in un simbolo, il segno che nel teatro italiano qualcosa sta cambiando. Chiara Bersani, oltre che brava, è affetta da osteogenesi imperfetta e non era ancora successo che il premio più illustre del teatro italiano venisse assegnato a un’artista con disabilità. Insieme a lei, quest’anno, sono stati premiati anche Gianfranco Berardi, attore non vedente, che ha ricevuto il premio Miglior attore ex aequo con Lino Guanciale, e Antonio Viganò, Premio Speciale con il suo Teatro La Ribalta – Accademia Arte della Diversità.
Consapevole del suo ruolo e della novità, l’attrice ha tenuto alla cerimonia un discorso che in poco tempo ha fatto il giro dei social, condividendo la sua vittoria con tutti coloro che, prima di lei, sono stati capaci di “smussare gli angoli di un intero sistema”, consentendole di arrivare a questo importante traguardo ma soprattutto la possibilità di aprire nuove strade, di agevolare l’accesso alla formazione e alla produzione di arte e cultura anche a corpi non conformi.
Ed è il corpo il centro della ricerca che da oltre dieci anni Chiara Bersani porta avanti, un corpo che lei definisce “politico” e di cui esplora, portandole all’estremo, le implicazioni poetiche e relazionali, indagando, a partire dallo sguardo, ciò che in ciascuno di noi si muove nell’incontro con l’altro e con le manifestazioni della diversità. Il suo discorso, pensato anche per essere ascoltato in diretta dal pubblico di Rai Radio 3, ha reso la cerimonia di premiazione – diretta da Luigi De Angelis e condotta da Graziano Graziani e da Federica Fracassi – una serata storica per il Premio. Un momento in cui critica e artisti si sono assunti il rischio di svincolarsi dalle definizioni, come quella che in genere relega l’interprete con disabilità al circuito del teatro sociale o a tematiche affini. Un passaggio questa volta condiviso ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori, a ribadire, forse, la vocazione comunitaria dell’arte teatrale, ma anche a restituirsi un valore e una legittimità nello spazio pubblico nel delineare lo sviluppo e la crescita di nuove forme di pensiero.
Al Tascabile la performer si racconta, spaziando tra i bisogni delle origini e i desideri futuri, dagli esordi con la compagnia Lenz Rifrazioni all’incontro con il mentore, il coreografo Alessandro Sciarroni, e i maestri Jérôme Bel e Rodrigo García, per passare alle collaborazioni con le compagnie Babilonia Teatri e ZeroFavole fino alle ultime sperimentazioni autoriali con i performer e danzatori Marco D’Agostin, Matteo Ramponi e Marta Ciappina e la sorpresa totale, l’annuncio della candidatura. Felice della serie di riconoscimenti che ha investito il suo gruppo di lavoro (Alessandro Sciarroni ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale Danza 2019 e Marco D’Agostin l’Ubu 2018 come Miglior nuovo attore o performer under 35) Chiara Bersani anticipa i prossimi progetti in Italia e all’estero, impaziente di cimentarsi con Moby Dick e Il canto delle balene.
Che cosa hai pensato quando hai scoperto di essere stata candidata? Te lo aspettavi?
Il terzo pensiero, ammetto, è stato “tanto non vincerò mai, godiamoci perciò questo mese di candidatura”, motivo per cui ho cavalcato divertita quest’onda senza preoccuparmi degli sviluppi. E invece… [ride]
Nonostante tu sia piuttosto giovane non sei certo un’esordiente, è più di una decina d’anni che lavori nell’ambiente teatrale. Quand’è che hai deciso di cominciare ad abitare questo mondo?
Così non appena ho trovato un percorso teatrale che mi piaceva, ho pensato che quella, finalmente, sarebbe stata l’occasione per godermi il mio corpo, uno spazio in cui poterlo davvero mettere in primo piano e cominciare a esplorarlo. Allora avevo 19 anni e la compagnia in questione, presso la quale studiavo, era Lenz Rifrazioni, ancora attivissima a Parma. A 21 anni la stessa compagnia mi ha proposto un ingaggio e da lì ho iniziato ad aprire ulteriori finestre sul mio corpo, benché sapessi di essere all’inizio e che c’erano ancora degli universi da scoprire. Tutto questo ha cominciato a risuonare in me molto di più degli studi teorici; ho preso così sempre più coscienza che il teatro era ciò che volevo fare, rimpossessarmi del mio corpo, lavorare con la poesia dei corpi, quello era il mezzo con cui desideravo comunicare. Sono stati certamente anni fondamentali.
Il tuo lavoro di autrice prosegue oggi di pari passo con quello di attrice, in collaborazione con compagnie affermate, registi e coreografi del contemporaneo. Chi sono stati i tuoi maestri? Pensi che abbiano influenzato i tuoi lavori successivi?
Per me è stato quasi miracoloso che sia accaduto, perché accade molto poco. Ciò che questi maestri mi hanno insegnato più di ogni altro è che se tu nella tua ricerca autoriale resti aperto a ciò che incontri allora possono davvero accadere piccoli miracoli, capaci di farti sprofondare, di aprire paesaggi incredibili. Se invece ti approcci alla ricerca con rigidità diventa tutto molto più difficile, magari arrivi a prodotti artisticamente perfetti ma in cui manca la profondità, oppure la sorpresa, cosa che invece uno sguardo realmente aperto ti può garantire. E qui parlo di maestri come Alessandro Sciarroni, Rodrigo Garcia, Jérôme Bel, ma anche di miei coetanei come Marco D’Agostin, artisti giovani riusciti ad accogliere il rischio di lavorare con un corpo che, almeno fino a tre anni fa, non era così dichiaratamente accolto dalla nostra scena.
Rischiare, quindi. Credi di averlo fatto a tua volta?
Al centro della tua ricerca artistica c’è quello che tu chiami il “corpo politico”. Di che si tratta?
Sono vestita ma le braccia e le gambe sono molto esposte, sono senza carrozzina, mostro quindi la mia motricità senza alcun tipo di ausilio, non ho niente in scena che mi ripari per cui l’occhio dello spettatore possa essere distratto. Un lentissimo avvicinamento al pubblico che, tanto quanto io sono visibile per lui, è completamente visibile per me. Un’esplorazione reciproca, un esperimento che serve a voi per capire quanto tempo vi ci vuole per abituarvi alla mia forma e iniziare a percepire qualcos’altro e a me per far passare la paura, quella più immediata, di una massa di occhi che mi sta guardando per cominciare, e iniziare a osservarvi veramente. Quanto tempo ci serve per guardarci davvero? La cosa che mi piace di questo lavoro è che con chi decide di entrarci, già dopo dieci minuti, un quarto d’ora di lavoro, diventa possibile far nascere delle vere e proprie storie. È una drammaturgia che si scrive sul momento, composta da tante micro-narrazioni che si intessono con tutti gli spettatori, uno per uno, un accadere tra me e loro che diventa parte di una scoperta reciproca. Ecco che cos’è per me il corpo politico.
In questa direzione la danza, con cui i tuoi lavori più recenti sono sempre più in dialogo, offre maggiori possibilità espressive?
Raccontaci qualcosa in più del sodalizio con Marco D’Agostin e Alessandro Sciarroni.
Con Marco invece ci siamo intercettati in un momento particolare, un momento per me di grande dolore perché era appena morto mio padre e, nonostante al tempo ci conoscessimo a malapena, lui mi mandò una lettera davvero molto bella. Da lì si è imbastito il nostro rapporto, basato proprio sulle lettere, ci scriviamo tantissimo, un vero e proprio rapporto epistolare che quando moriremo potrebbe addirittura diventare un libro! Con lui, anche per vicinanza anagrafica, l’incontro è stato quello tra due autori che erano arrivati allo stesso punto, un rapporto più alla pari rispetto a quello con Alessandro che mi segue ancora quasi come mentore. Ci siamo incrociati facendo spesso dei lavori a quattro mani e, anche in quello che facciamo divisi, siamo sempre presenti come drammaturghi l’uno nel lavoro dell’altro. Ora stiamo vivendo un momento di grande gioia ed esaltazione, in cui improvvisamente tutti hanno vinto tutto e ciascuno di noi si sente partecipe dei premi dell’altro come del proprio. Non so ancora come sia stato possibile questo boom, di cui siamo grati e che nell’insieme ci appare ancora surreale e un po’ buffo.
Abbiamo parlato della drammaturgia dei corpi. Che rapporto hai invece con i testi? Come nascono i tuoi? Hai degli autori che prediligi con cui ti confronti?
I tuoi spettacoli instaurano spesso una relazione molto intima con lo spettatore. Una relazione che certe volte passa per lo sguardo, altre dalla parola, in alcuni casi, come in Goodnight Peeping Tom si spinge fino alla prossimità e al contatto fisico con il corpo dell’altro. Lo fai in un luogo deputato, protetto, ma allo stesso tempo esclusivo, una piccola casetta di legno in cui c’è spazio solo per due individui: spettatore e performer, e lì, da quell’interazione, tutto comincia… Chi è il tuo pubblico? Che cosa ti interessa di questo scambio?
Il mio pubblico è un pubblico intelligente, che viene a teatro per i più disparati motivi ma con l’idea di essere aperto e di lasciarsi attraversare dalle domande, dalle inquietudini e dalle esperienze che gli vengono proposte. È un pubblico al quale io non devo dare uno spettacolo chiuso e perfetto ma che accoglie l’imperfezione, la sfida, la possibilità del fallimento, e che è capace di andare a casa con una domanda, con della fatica da fare. Non ho nulla contro gli altri pubblici ma quello che mi emoziona e a cui desidero parlare è questo, anche perché io stessa cerco questo come spettatrice. È così facile ora creare immagini esteticamente meravigliose, abbiamo mezzi, strutture, possibilità, ma a me interessa il terremoto, l’uragano… voglio uscire dall’incontro con l’arte piena di macerie, e a questo mi rivolgo, anche quando la produco.
C’è qualcuno o un episodio di cui conservi un ricordo particolare?
Spesso la persona con disabilità che si avvicina al teatro, sia come professionista che come fruitore o appassionato, vive la contraddizione tra l’incontro con uno spazio dove il suo deficit è finalmente risorsa creativa e il rientro in una società dove il limite è invece concreto, tangibile e ancora fortemente contenitivo. Come fare a portarsi dietro quanto dato e ricevuto nell’incontro con ciò che produce in noi un risveglio? Il teatro ha secondo te delle carte in più che può ancora spendere in questa direzione?
Penso che la disciplina sia la prima cosa che può permettere alla persona con disabilità di ricavarsi o di imparare a ricavarsi uno spazio di autonomia e non solo a teatro. Ti parlo, voglio sottolinearlo, a partire dalla mia esperienza, la disabilità è un insieme di universi e io non ho l’arroganza di parlare a nome di altri. Sarei presuntuosa, il mio sguardo va a toccare prettamente un’area che riguarda la gestione del proprio corpo. In Purgatorio, tuttavia, spettacolo nato in collaborazione con Babilonia Teatri e la compagnia ZeroFavole di Reggio Emilia, in cui erano presenti ragazzi con disabilità, ho avuto modo di percepire chiaramente l’effetto che il teatro ha avuto sulla loro vita, portando con sé la precisione che avevano acquisito in scena. Per lo spettatore è diverso. Si aprono delle finestre, dei desideri magari, a cui dare spazio può diventare più difficile, così come l’autodeterminazione. L’ho visto anche a seguito della premiazione, grazie a numerosi dialoghi nati con molte realtà che abbracciano la diversità a teatro e che ora mi hanno contattato cercando un confronto. Restano sempre molte le contraddizioni tra il pensiero di una persona e le sue dinamiche di dipendenza, si tratta di processi lunghi, su cui l’arte può intervenire, toccando l’intimità del singolo ma solo in parte, lì sono altri i territori su cui diventa necessario lavorare ed è improbabile che la persona possa farlo da sola. Lo spazio del teatro però resta uno spazio in cui possono accadere delle cose, compreso ricavarsi uno spazio personale di libertà, che sia temporaneo o meno.
Il tuo discorso al Premio Ubu ha fatto il giro dei social, intercettando un target di lettori e ascoltatori ben oltre quello degli addetti ai lavori. È una cosa che succede raramente. Pensi che tutto questo avrà delle effettive ricadute? Potremmo definire la tua vittoria “politica”?
Nei giorni precedenti la cerimonia ho avuto un bellissimo dialogo con Luigi De Angelis dei Fanny&Alexander, che curava la regia dei premi Ubu, a partire dal mio desiderio di dichiarare che era avvenuto qualcosa di nuovo e che quel qualcosa era un segno. Luigi mi ha risposto sottolineando come i premi arrivano in genere a chi in quel momento rappresenta una certa corrente di pensiero, a chi milita in una direzione piuttosto che in un’altra. Io ero dunque una dei rappresentanti di quel pensiero e bisognava che rendessi onore al fatto che sarei presto diventata un simbolo. Sempre Luigi mi ha ricordato che questa premiazione sarebbe stata per la prima volta trasmessa in diretta radio su Rai Radio 3, che l’avrebbe ascoltata un pubblico estraneo a questo mondo, probabilmente ignaro del premio e che quindi era importante renderla accessibile. Così ha preso forma il famoso discorso, in cui ho cercato di rivolgermi anche a chi non aveva la più pallida idea di chi io fossi, né del fatto che fossi o meno in carrozzina, non potendomi vedere – e non è che Federica Fracassi, qui in veste di presentatrice, avrebbe mai potuto dire “E ora diamo il premio a Chiara Bersani, la disabile”! [ride] Dovevo dichiararlo, e al contempo non potevo nemmeno rispondere “Grazie, io e la mia disabilità ve ne siamo grati”, e da lì, insomma, è nato il discorso, concepito quindi per essere ascoltato e compreso davvero da chiunque. Di certo non avrei mai considerato la viralità del tutto, ma il web, ti confesso, non ho ancora imparato a capirlo.
E ora che il dado è tratto come ti senti? Come guardi al futuro?
Rispetto al lavoro sono pronta a mettermi in gioco subito. Gentle Unicorn era già entrato nel circuito Aerowaves 2019, un centro che si occupa di favorire la circuitazione della danza in Europa. Sono già partite tutta una serie di date in Italia e in Europa che ci vedranno impegnati e, probabilmente, anche fuori dall’Europa, insomma un anno di vita molto vivace per l’Unicorno. È poi in movimento un nuovo progetto che si articolerà in due spettacoli, la mia prima commissione da parte di una compagnia esterna, che in questo caso è la compagnia svedese Spinn di Goteborg (in collaborazione con il Festival OrienteOccidente). Uno degli spettacoli, Moby Dick, debutterà al festival nel 2020 mentre il secondo lavoro, per il quale al momento si sta definendo il piano produttivo ma che potrebbe essere presentato molto prima del previsto, si intitolerà Il canto delle balene.