C on il premio Médicis assegnato nel 2014 al suo Terminus radioso e le molte traduzioni che hanno fatto seguito, Volodine è uscito dal decennale culto esoterico riservatogli in Francia da una motivata schiera di ammiratori, per rivelarsi agli occhi del pubblico internazionale come uno degli scrittori più singolari e affascinanti dell’attuale panorama letterario europeo. Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima è l’ultimo suo libro tradotto in italiano. Pubblicate in Francia nel 1998, le Lezioni sono, come ogni libro di Volodine, un testo incatalogabile: a metà strada tra finzione letteraria e scrittura saggistica, rappresentano la più completa ed elaborata trattazione teorica intorno al genere del post-esotismo prodotta dal suo inventore, nonché principale esponente. Nel libro è compresa una lista di una settantina di autori post-esotici scomparsi tra gli anni Settanta e i Novanta del Novecento, per lo più in maniera violenta, e una lista di 343 opere post-esotiche firmate da questi e da altri scrittori.
Alcuni di quei nomi e alcune di quelle opere le potete trovare nei cataloghi delle biblioteche; la maggior parte di essi, al contrario, non esistono o se esistono sono irreperibili. D’altronde anche degli autori di libri post-esotici realmente pubblicati, come Lutz Bassmann e Manuela Draeger, la biografia è congetturale e l’opinione comune è che si tratti di pseudonimi di Volodine (Volodine stesso è uno pseudonimo, il che spinge la questione dell’identità anagrafica così lontano da renderla a dir poco impertinente). Il genere del post-esotismo non sarebbe altro, dunque, che un parto dell’immaginazione, un prodotto fantomatico che tuttavia possiede un corpus reale, per quanto indeterminato. Niente di strano: come continuamente ribadito nelle Lezioni, il confine tra immaginazione e realtà fattuale, o quello tra esistenza e inesistenza, sono accidentali nel regno paradossale della letteratura post-esotica. Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima mette in scena la relazione tra intervistatore e intervistato: due giornalisti accompagnati da guardie carcerarie rivolgono alcune domande ad autori post-esotici reclusi (condizione, questa, tipica degli scrittori in questione), suscitando in questi ultimi molti dubbi circa la genuinità delle loro intenzioni. Niuki e Blotno (è il nome dei giornalisti) sono interlocutori attendibili? Lavorano al servizio di forze ostili? Possono realmente capire?
Ho chiesto ad alcuni ammiratori di Volodine di mandarmi qualche domanda da rivolgere allo scrittore. Non segnalare da chi provengono le singole domande è una scelta deliberata, anche se il lettore troverà qui sotto la lista in ordine alfabetico dei partecipanti. Non abbiamo titoli di credito superiori a quelli di Blotno e Niuki da avanzare a nostro favore: il fatto di porci come entità molteplice è l’unico strumento di cui disponiamo per entrare nello spazio di una lingua comune, per attraversare quello spessore infinitesimale che nella grammatica post-esotica divide la prima persone dalle altre. “Il vero lettore del romånso post-esotico – è scritto nella quarta lezione – è uno dei personaggi del post-esotismo”. Ho provato a immaginarci come personaggi post-esotici: Anna d’Elia (traduttrice di Terminus radioso e de Il post esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima), Lorenzo Flabbi (critico e editore di Angeli minori), Luciano Funetta (scrittore), Valerio Mattioli (critico e giornalista culturale), Carlo Mazza Galanti (critico e giornalista culturale), Veronica Raimo (scrittrice), Vanni Santoni (scrittore), Giorgio Vasta (scrittore).
Essere disorientati non è necessariamente l’opposto di orientarsi. Essere disorientati – perdere la bussola e non avere nessun desiderio di ritrovarla – può a volte coincidere con un modo di stare al mondo. Il culmine del disorientamento si dà, almeno nel mio caso, all’altezza della quarta lezione, quando “il narratore tenta di scomparire. Si nasconde, delega la propria funzione e la propria voce a uomini di paglia, a eteronimi che farà esistere pubblicamente in sua vece”. Ridotto (o forse elevato) in briciole, addirittura pulviscolare, il narratore non è un io ma un bisbiglio, un sussurro, un sottovoce che fra l’altro non intende in nessun modo andare al punto ma sistematicamente eludere, parlare d’altro. Proprio perché mi tocca personalmente, mi piacerebbe sapere qualcosa di più di questo desiderio di sparizione. Qualcosa a cui, mi sembra di dedurre leggendo, non si accompagna nessuna cupezza, semmai una specie di euforia: disorientarsi, fino alla sparizione di sé, sembra davvero essere un’immensa vitalissima occasione di conoscenza.
Quel sogno è anche un modo di vivere la propria parola staccandosene, ascoltandola da lontano come se si trattasse di una parola amica ma estranea. Non è possibile, senza sparire (almeno un po’), senza fare un passo a lato, senza abbandonare i propri abiti di autore ufficiale, sentire la propria parola come una parola fraterna. Un passo a lato significa prendere della distanza dalla funzione di autorità, cercare di non riprodurre il pessimo teatrino degli autori ufficiali, sforzarsi di restare modesti e indifferenti a ciò che è esteriore al testo. È anche lasciare parlare gli autori vicini, gli eteronimi. Come portaparola del post-esotismo, amo l’idea che alcuni testi post-esotici non mi appartengano in quanto firmati da altri, come Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer o Infernus Iohannes. Far sparire delle marionette mediatiche è un esercizio d’equilibrio che raramente ha successo. Ma è uno dei miei obiettivi. Dei nostri obiettivi.
Una cosa che colpisce molto in Volodine è il gusto di inventare nomi, spesso raccolti sotto forma di elenchi e cataloghi immaginari: che si tratti di nomi di persone, di titoli di opere mai scritte o di istituzioni, di oggetti culturali o naturali, una parte importante dei suoi libri è affidata al potere quasi biblico e battesimale di fare esistere il mondo nominandolo. Vorremmo chiederle un commento ulteriore, rispetto a quanto già scritto nelle Lezioni, su questo tratto così caratteristico della sua scrittura.
Per quanto concerne i nomi di persona, è anche presente lo sforzo di non rivendicare per i personaggi alcuna precisa appartenenza nazionale. Tutti i nostri autori, prigionieri e prigioniere che recitano collettivamente i libri dalla loro prigione, sono profondamente internazionalisti, cosmopoliti, apolidi. Odiano l’idea di rivendicare un’etnia, una nazionalità, una bandiera, e, a partire da quello, costruire testi che rifletterebbero la cultura o la poetica di una sola nazione. Cercano dunque di cancellare ogni riferimento troppo netto, di adottare una lingua generica, una lingua di traduzione che non tradisca la propria origine. Il primo tratto che s’incontra, e caratterizza una cultura, è proprio il modo in cui attribuisce nomi. Gli autori post-esotici cercano di creare dei nomi che siano foneticamente gradevoli e allo stesso tempo suonino improbabili: associazioni di nome-cognome che appaiano etnicamente inverosimili, o nomi inventati che suonino russi pur senza esistere nel mondo slavo.
È una prima tappa. Ma ne esiste una seconda. L’orrore degli incubi che hanno infestato il ventesimo secolo segna per sempre gli autori post-esotici: la Shoah, i gulag, appaiono in filigrana in ogni nostro testo. La lista dei morti diventa una litania in omaggio ai trapassati e (cosa ancora più importante) ai dimenticati. Nei nostri libri si troverà anche questo aspetto della nominazione: un omaggio alle vittime. Nell’opera di Lutz Bassmann “Les aigles puent” ricorrono liste di nomi (inventati) che iniziano con “Qui è bruciato…”. In “Scrittori”, sono enumerati nomi (reali) di un gruppo di sovietici assassinati, tutti lo stesso giorno, dai sicari staliniani. Molto spesso ho preso il cognome dei personaggi dagli annuari del Memoriale che recensisce i milioni di scomparsi durante il grande terrore degli anni trenta. Per me è un modo compassionevole, molto triste, di restituire loro un minuscola scintilla di vita e di memoria.
Nel 2014 alcuni di noi hanno avuto la possibilità di incontrarla a Roma, a Villa Medici. Era stata organizzata una lettura dei vostri testi alla presenza dei traduttori italiani di “Scrittori” e “Undici sogni neri”. Durante quell’incontro ricordo con precisione di averla sentita usare la parola “io”, per l’esattezza nel formulare la frase: “Questa è la storia di una donna. Non posso dire di non essere in un certo senso innamorato di lei”. Era la storia di Maria Trecentotredici. Ne è ancora innamorato?
Si può dire che i molti personaggi di donne presenti nella maggior parte dei nostri libri corrispondono a un’idealizzazione femminile del coraggio, della bellezza interiore, dell’indipendenza, del radicalismo politico. La nostra prossimità con esse è segnata da una tenerezza infinita, una compassione tale che spesso ci rivolgiamo loro chiamandole “sorelle”. Cerchiamo di accompagnarle il più vicino possibile nelle loro penose vicissitudini. Si tratta di un amore fraterno, dove la dimensione sessuale è solo un fantasma secondario. Senza allestire una galleria completa, vorrei citare come esempio di questo sentimento tra autore e personaggio: Maria Trecentotredici e Linda Woo in “Scrittori”, Djennifer Goranitzé in “Danse avec Nathan Golshem” (di Lutz Bassmann), Gabriella Bruna in “Dondog”, Ulke Ulrike in “Inferni da favola”, Maria Samarkande in “Vista sull’ossario”. Altre immagini di donna corrispondono più nettamente a figure d’amanti. Anche questo sono molte: Ingrid Vogel (“Lisbona, ultimo margine”), Gloria Vancouver (“Porto interno”), Sonia Wolguelane, Verena Becker (“Songes de Melvido”). Ne parleremo più avanti, o altrove.
Nei suoi libri ricorrono anche diverse figure di “nonne”: è segno di una società orfana di madri e padri, le cui radici vanno ricercate indietro nel tempo, saltando una generazione che ha forse tradito?
A parte rare eccezioni, le relazioni figli/genitori sono poco trattate nel post-esotismo, ma non per questo vengono rimpiazzate da relazioni nipoti/nonni. Le nonne presenti nei nostri romanzi sono soprattutto figure di vecchie donne politicamente legate alla loro esperienza rivoluzionaria di gioventù. Non credo esista un testo dove interpretano un qualche ruolo all’interno di una struttura di tipo famigliare. Quando si trovano davanti a bambini intervengono collettivamente in strutture simili a orfanotrofi (Undici sogni di fuliggine), o a case di riposo (Angeli minori), con un ruolo di educatrici o formatrici ideologiche. Perché prima di ogni altra cosa sono vecchie bolsceviche legate al loro sogno d’insurrezione, di dittatura del proletariato, di costruzione di una società egualitaria, di una morale proletaria, di eroismo e sacrificio.
Credo che si possa parlare, nei nostri libri, di figure mitiche. Effettivamente queste donne sono quasi immortali come Nonna Udgul di Terminus radioso, o come Gabriella Bruna in Dondog, o come le vecchie di Angeli minori, o le anziane bolsceviche di Songes de Mevlido, che organizzano manifestazioni notturne nel ghetto. Questa immortalità conferisce loro un carattere assai lontano dalla funzione famigliare che solitamente si attribuisce alla “nonna”: dolcezza, compiacenza, tolleranza, complicità con l’infanzia. Al contrario sono figure settarie, violente, che esigono dal loro interlocutore adulto un comportamento politicamente esemplare.
Spesso l’idea di tradimento percorre il sottotesto, ma è il tradimento degli ideali di una società rivoluzionaria (per esempio, in Terminus radioso, i tradimenti sono responsabili della caduta della Seconda Unione Sovietica). I traditori, i nemici, appaiono poco e mai in primo piano, o quando succede è in maniera molto estemporanea. Mostrarli sarebbe attribuire loro un ruolo nell’edificio romanzesco post-esotico e, in fondo, rendergli onore. Le vecchie hanno conservato la forza della gioventù, non hanno mai tradito, sono la proiezione diretta dei fantasmi degli autori post-esotici imprigionati e che, loro pure, non hanno mai fatto passi indietro. È senza dubbio da questo punto di vista che bisogna considerarle, non come le rappresentanti di una generazione specifica.
Tra i generi post-esotici descritti nelle “Dieci lezioni” si notano delle forti strutture formali, per esempio viene detto che “Angeli minori” è composto di 66666 parole, vengono fatti esempi di acrostici compresi nei romånce, di elementi matematico-numerologici ecc. Lei nega qualsiasi filiazione diretta rispetto alle correnti novecentesche della letteratura francese ma è difficile non pensare all’Oulipo e alla predilezione del gruppo fondato da Queneau per la letteratura cosiddetta à contrainte. Si può considerare quella post-esotica, almeno in parte, come scrittura à contrainte? e se sì, che significato attribuisce lo scrittore post-esotico all’uso di strutture formali?
Le contraintes fanno parte della creazione poetica post-esotica come strumenti molto più che come obiettivi. Usiamo l’espressione “contraintes discrete”. Queste vengono messe in opera per ragioni di musicalità, di architettura, e non rispondono a un bisogno di “struttura” da allestire prima della stesura del testo. Al contrario, s’impongono quando il testo è già in uno stadio avanzato, o finito. Lavoriamo moltissimo sui libri, ne facciamo diverse versioni, pazientemente, e nelle fasi di riscrittura un obiettivo cifrato diventa possibile, verosimile. Da un certo momento in poi, ci orientiamo verso un numero d’oro magico (numero di capitoli, di paragrafi, di parti, di parole, di caratteri spazi compresi o spazi esclusi). Per Terminus radioso ci sono volute diciassette versioni prima di arrivare a quei 777 777 caratteri. È stato un lavoro minuzioso di aggiustamento, su qualcosa di già edificato.
La contrainte legata al numero sette, ai suoi multipli (quarantanove, trecentoquarantatré) è quasi sempre rispettata da un quarto di secolo a questa parte. È un’allusione ludica al testo di riferimento poetico per ogni scrittore post-esotico, il testo buddista tantrico tibetano che ci ispira senza che ne abbracciamo il misticismo: Il libro dei morti, il “Bardo Thödol”.
Nella breve nota biografica che compare nell’edizione Gallimard del Il post esotismo in dieci lezioni, lezione undici, Antoine Volodine viene presentato come un traduttore. Per molto tempo la traduzione letteraria è stata dunque la sua principale attività professionale. In che misura la sua lunga esperienza di traduttore (dal russo e dal portoghese) ha contribuito ad alimentare le sue riflessioni sulla lingua in quanto “gigantesco territorio transnazionale”? E, nel caso specifico della lingua post esotica, su una lingua che consente di tradurre in francese una letteratura radicalmente straniera, una lingua in grado di veicolare una cultura estranea alle abitudini della società francese e del mondo francofono?
Ho tradotto una decina di opere romanzesche dal russo e dal portoghese, ma non è mai stata la mia attività principale. In compenso è un lavoro che costringe a riflettere continuamente sulla lingua, su due lingue e due culture contemporaneamente. Bisogna confrontarsi incessantemente con il testo d’origine e quello d’arrivo e questa ginnastica intellettuale non solo esige perseveranza ma anche uno sguardo critico affilato. Sulla formulazione e le scelte linguistiche, ma anche sul contenuto culturale veicolato dalle due lingue.
Gli autori post-esotici nel loro insieme mettono questa tecnica di traduzione al servizio della loro scrittura. Esercitano un controllo di ogni istante, di ogni scelta, affinché sparisca dalla lingua d’arrivo (il francese, per cominciare, poiché la nostra preoccupazione è di “scrivere in francese una lingua straniera”) tutto ciò che appartiene culturalmente a un’eredità specificamente francese o occidentale. Bisogna eliminare dal testo il vocabolario religioso e ideologico dell’Occidente, bisogna censurare, sopprimere tutto ciò che potrebbe rinviare a una tradizione letteraria francese o a una eredità occidentale. Nessun riferimento, ad esempio, ai maestri della letteratura: se proprio è necessario, inventiamo un maestro post-esotico. Nessuna impennata lirica che possa ricordare una qualche frase celebre del repertorio. Nessuna ricerca accademica della “bella pagina”, una delle preoccupazioni principali degli scrittori contemporanei di “letteratura ufficiale”. Nei nomi, sempre numerosi, nulla che possa rimandare a personalità esistenti. La nostra ginnastica traduttoria fa intervenire continuamente due macchine demolitrici: l’auto-censura, e la potente macchina che trasforma la realtà attraverso filtri onirici.
La lingua francese diventa uno strumento al servizio del post-esotismo, delle sue visioni, dei suoi deliri politici o poetici, dei suoi soprassalti d’amore, di violenza o disperazione. Una volta sbarazzata dei suoi retaggi culturali, spogliata del retroterra occidentale, religioso e imperialista, questa lingua non è impoverita, è solo leggermente diversa. Può accogliere delle liste di piante inesistenti, può lasciare emergere senza danni le nozioni di vita e di morte, di non-vita, di né-vita né-morte, ecc. Non risponde più alle esigenze che infestano la lingua “ufficiale”. Si avvicina forse, allora, a tradizione più marginali, non rifiuta le seduzioni linguistiche e immaginarie del surrealismo, e, più generalmente, della poesia.
Esistono, nell’ambito della letteratura ufficiale, degli scrittori o dei libri non post-esotici che il post-esotismo nonostante tutto riconosce come importanti per la sua fondazione? E crede possa esistere, o lo auspica, una qualche forma di proselitismo del post-esotismo al di fuori dei suoi esponenti ad oggi conosciuti? Oppure l’esperienza del post-esotismo si autoconcluderà al quarantanovesimo libro con le parole “Je me tais” (“Mi taccio”) che lei ha spesso indicato come le ultime che scriverà?
Quando il post-esotismo si definisce (una definizione tra le tante, ma che mi piace molto) come “realismo socialista magico”, dietro la battuta c’è un’affermazione reale. Nessun autore post-esotico pensa di creare ex nihilo. Non dichiariamo filiazioni ma siamo consapevoli della ricchezza che abbiamo ereditato. Ciò detto, ci rifiutiamo di stilare una lista degli autori che ci hanno più fortemente influenzato, anche se esistono. Anzitutto perché si rischia di dimenticarne sempre qualcuno. Inoltre sta ai critici, agli studiosi, parlare di influenze, vicinanza, prestiti. Quando degli autori post-esotici parlano di altri autori, si tratta sempre di poeti, poetesse, o romanzieri e romanziere post-esotici. E non mancano certo di farlo. Gli esempi sono molti ne Il post-esotismo in dieci lezioni, lezioni undici e altrove, ne dirò solo uno: Maria Kwoll con i suoi scritti femministi incendiari in Terminus radioso.
Per rispondere all’ultima parte della domanda: effettivamente l’oggetto in prosa composto da quarantanove titoli si chiuderà sull’ultima frase: “Je me tais”. E così facendo sarà al contempo sia fuori che dentro le mura.
Nella lezione undicesima diffida della critica tradizionale come strumento di analisi e interpretazione del post-esotismo, ma creare delle categorie critiche post-esotiche e ipotizzare una critica funzionale e omogenea all’opera non è proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere la critica?
La “Undicesima lezione” (l’undicesimo titolo pubblicato) era, in questo contesto, una tappa necessaria, poiché l’edificio post-esotico non era ancora apparso nettamente, chiaramente, nel paesaggio letterario. Esisteva un cantiere aperto, le fondamenta di un edificio di cui solo lettori e critici isolati coglievano il carattere non aneddotico. Bisognava far conoscere il cuore del post-esotismo, quel nocciolo essenziale a partire dal quale nascevano le storie e si fabbricavamo i romanzi, i libri: bisognava presentare ai lettori e alle lettrici ciò che si situava dietro ai testi: un mondo carcerario, un coro di prigionieri e prigioniere riuniti dopo la sconfitta politica, militare, ideologica; la speranza di concretizzare per sempre, nella loro poesia, la rottura con il mondo esterno.
Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici è una dichiarazione di dissidenza e assolutamente non una dichiarazione di guerra: in quanto tale, non si tratta del manifesto di una scuola o di un proclama avanguardista. Come spiega il testo, la dissidenza si esprime in molte direzioni, nei soggetti scelti, nelle forme originali inventate per raccontarli, in una poetica della schivata e della deviazione, nella rivendicazione del collettivo e dell’anonimato, nell’elaborazione di un sistema chiuso, totalitario, dove le voci di prigionieri e prigioniere si rivolgono anzitutto a se stesse (confondendo così le nozioni di lettore-lettrice e di creatore-creatrice, e riunendole).
Non potevamo sfuggire a un’affermazione di dissidenza verso la critica dei giornalisti letterari e degli universitari. La nostra intenzione non era, bisogna ripeterlo, stigmatizzare il loro lavoro, o assumere nei loro confronti un atteggiamento sprezzante. Come per lo sguardo che in queste lezioni rivolgiamo alla “letteratura ufficiale”, l’affermazione di dissidenza non è un giudizio di valore, piuttosto una constatazione: noi siamo chiusi dentro le mura, voi ne siete fuori. Noi viviamo nel nostro mondo, voi vivete nell’altro. Del tutto naturalmente, poiché parliamo di letteratura, seguiva un’altra constatazione: Abbiamo i nostri strumenti critici, la nostra sensibilità, il nostro approccio alla finzione, i nostri riferimenti. Voi avete i vostri. I due mondi non possono confondersi. È esattamente ciò che si vede nell’intervista di Niuki e Blotno: un dialogo impossibile.
Quanto alla coerenza e all’omogeneità della critica post-esotica all’interno del post-esotismo, non posso che immaginare mille approcci diversi, ma dentro le mura.
Se tutta la letteratura diventasse post-esotica, chi si troverebbe rinchiuso in un carcere?
Percepiamo nella voce dei post-esotici un velo d’ironia, di umorismo, di gioco, e allo stesso tempo una solennità di segno quasi simmetricamente opposto. A volte il lettore si domanda “Quanto ci crede”? a volte abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a una “soperchieria letteraria”, altre volte al contrario subiamo la fascinazione (o l’imbarazzo) che si prova di fronte a persone profondamente persuase. Ci può dire qualcosa di questa ambivalenza tra ironia e persuasione, tra gioco e fede?
Non penso che si possa parlare di “soperchieria letteraria” poiché l’edificio non è virtuale, occupa un posto nella letteratura, pubblicato da molti e buoni editori, tradotto, ecc. – poiché esiste. Non si tratta di “fare credere” qualcosa. C’è una coerenza ideologica e letteraria che permette questa esistenza da una trentina di anni. E la prima forma di coerenza consiste nel fatto che questa costruzione procede verso il compimento (il quarantanovesimo titolo).
L’umorismo è sempre stato necessario, per noi, ad affrontare gli orrori del mondo contemporaneo, ad affrontare le disfatte successive e sistematiche: è un umorismo del disastro. Lo applichiamo a ogni pagina e a ogni frase dei nostri libri, ma lo proiettiamo anche sull’insieme della nostra costruzione poetica. L’umorismo del disastro è parente prossimo dell’umorismo ebraico, è un’arma per sopportare le avversità, la disfatta, i fallimenti. Allora, ben inteso, quando tocca le nostre spiegazioni letterarie più solenni e persuasive, produce in chi le ascolta un’esitazione: “È serio, tutto ciò? Oppure no?” Fa parte della nostra tecnica di messa in guardia del lettore di fronte alle verità confezionate. Ma naturalmente la risposta è: sì, è molto serio; e: no, è tutto un gioco.
Il discorso anticapitalista, così presente nell’immaginario post-esotico, è solo un sogno, una parodia di parole di altri tempi proiettate su cronologie fantastiche, o ha qualche base di reale teoria critica nei confronti della realtà che viviamo? Non voglio necessariamente portarla sul terreno della cronaca politica, ma viene da domandarsi che luogo occupa la sua scrittura, così nutrita di vocabolario e immaginario politico, in una situazione come quella attuale.
I guerrieri e le guerriere imprigionati che recitano i poemi e le storie, non hanno rimpiazzato le mitragliatrici con la penna o la parola teatrale. Lo dicono e lo ripetono, e lo sottolineano costantemente nelle loro narrazioni: la lotta armata non è riuscita a cambiare il mondo, le rivoluzioni sono state tradite o non hanno portato a nulla… Allora, oggi, la parola non ha alcun senso, ed è inutile contare su di essa per cambiare la realtà in qualsiasi suo aspetto. Amareggiati, vinti, gli scrittori post-esotici combattono dal carcere non gli orrori che si consumano fuori dalle mura, ma il reale nella sua totalità: costruiscono un mondo parallelo, letterario, dove vagano follia e disperazione, e lo abitano, ci si muovono, alla ricerca della bellezza e della memoria collettiva. In poche parole, alla ricerca di un incubo migliore. Tutto ciò porta a libri, non ad azioni politiche.
Lei o qualche altro scrittore post-esotico conoscete i romanzi di Laszlo Krasznahorkai? Le interessano?
E questo mi dà l’occasione per parlare di arti diverse dalla creazione letteraria e poetica. Il difetto, quando si parla di romanzi e letteratura e di ciò che li suscita, è che si riduce il campo delle influenze a fonti libresche. All’origine della scrittura post-esotica, oltre all’esperienza politica e alla ruminazione sugli abomini del ventesimo secolo, ci sono violente emozioni artistiche che non si riassumono nella letteratura. Il cinema ha un ruolo centrale nella costruzione della nostra estetica, cosa che spiega la nostra pretesa di produrre una letteratura fatta di immagini più che di testi che smuovono idee. Le migliaia di film che abbiamo visto hanno segnato per sempre il nostro gusto per le narrazioni immaginarie, per le sequenze narrative organizzate come sceneggiature di film, per i dialoghi ridotti all’osso e per l’azione. Terminus radioso comincia come potrebbe iniziare un film e a più riprese le immagini cinematografiche prendono il sopravvento, come nella lunga sequenza dell’amok, dove Kronauer tiene tutta la strada sotto la minaccia della sua pistola. Il paesaggio è innevato, ma potremmo trovarci in uno strano western notturno. Parlo del cinema ma potrei ugualmente parlare di musica e teatro. Diciamo che sarà per la prossima volta.
In quale momento della sua produzione ha cominciato a capire che poteva costruire tutto quel grande apparato intercomunicante?
E che “l’umanismo” del secondo secolo contemplava caratteri aracnoidi e mostruosi. Quel libro già conteneva, concretamente, l’idea di una letteratura collettiva, disseminata, sovversiva, clandestina, del tutto estranea alla realtà storica e poetica del nostro ventesimo secolo, ma le cui preoccupazioni (le domande sull’umanismo, sull’umanità, sulla guerra, sulle menzogne e le manipolazioni di una società totalitaria) corrispondevano alle mie domande sul ventesimo secolo. Era già presente una prima forma della struttura generale del post-esotismo. In seguito sono usciti molti libri, e cinque anni dopo ho ripreso quell’antologia di testi del Rinascimento in Lisbona, ultimo margine, stabilendo un ponte tra il fantastico del primo progetto e un reale letterario che metteva in primo piano un’eroina uscita direttamente dalla Germania della Rote Armee Fraktion.
Se si considera il prototipo (compiuto) dell’Antologia, possiamo dire che l’idea della struttura post-esotica, il sistema di narrazione, di scrittura corale, collettiva e politica, preesistevano e hanno preceduto la comparsa del mio primo romanzo pubblicato.
Dopo Lisbona, ultimo margine, si è affermata l’idea di una vasto edificio poetico, è apparsa la parola “post-esotismo”. Il cuore del post-esotismo, la prigione, si è manifestato in maniera sempre più chiara. La proclamazione di una dissidenza poteva essere considerata. Ma era necessario che il progetto riposasse su qualcosa di veramente solido, di esistente, ed è soltanto dopo avere pubblicato dieci titoli che mi è stato possibile scrivere Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima. L’edificio non era compiuto, ma iniziava a essere visibile. La pubblicazione di quell’undicesima lezione è stata una svolta nella concretizzazione del progetto post-esotico. E la polifonia, che si traduce nell’esistenza di eteronomi pubblici, ne è stata la logica conseguenza. Aggiungo che l’esistenza letteraria di Elli Kronauer e di Manuela Draeger è stata volontariamente discreta, che è soltanto pubblicando per le edizioni Verdier un libro di Lutz Bassmann, Con i monaci-soldato, che finalmente le “voci del post-esotismo” si sono svelate in tutta la loro varietà: una sorta di coming out post-esotico, che dava corpo all’insieme dell’edificio romanzesco.
La costruzione del post-esotismo si è dunque compiuta in maniera intuitiva, a tastoni, in diverse tappe, il tutto preceduto da un oggetto letterario non identificato che era l’Antologia, e che forse ha funzionato come un essenziale punto di origine.
Terminus radioso si dipana in una prospettiva temporale talmente altra e ampia da risultare aliena, inconcepibile e be’, a questo punto direi anche anche irraccontabile, perlomeno da una prospettiva prettamente umana; in fondo, gli stessi protagonisti del libro sono ombre di individui già morti che a loro volta si muovono in un pianeta estremo, inospitale e ridotto a fantasma di se stesso, e in questo senso mi viene da accostare il romanzo a tutto quel filone “ecologista post-umano” che va dal Jeff VanderMeer della trilogia dell’Area X al lavoro di filosofi come Timothy Morton. Conosce questi autori? si sente vicino alle suggestioni del pensiero post-umano?
In termini generali, siamo molto lontani dalla problematica contemporanea del post-umano. Quando bisogna mettere in scena delle creature che ha fatto seguito all’umano, pensiamo più che altro a ragni e scarafaggi.