L o and Behold: Reveries of the Connected World è l’ultimo documentario di Herzog, e parla di internet. È un film diviso in dieci capitoli, struttura che si allinea alla natura episodica degli ultimi documentari dell’autore. Come ispirazione, passo e ambientazione è un’opera che può ricordare From One Second to the Next, il mediometraggio realizzato nel 2013 in collaborazione con AT&T, un gigante telefonico statunitense. La sponsorizzazione, in effetti, è un altro fattore che accomuna i due lavori: in questo caso in gioco c’è NetScout, un’impresa che si occupa di network management. Particolare da non sottovalutare.
Superata la mezz’ora infatti, il documentario vira decisamente sulla nostra dipendenza da internet. Per dipendenza qui non si intende quella dei gamers sociopatici muniti di pannolino mostrati nel film, ma l’inarrestabile digitalizzazione di qualsiasi livello produttivo, educativo, amministrativo; la dipendenza dalle corporation simili a quella che ha reso possibile un lungometraggio dai toni apocalittici. Lo and Behold ignora programmaticamente quella che potremmo definire web culture (in una parentesi: i social, gli youtubers, i podcast, i meme), concentrandosi invece sugli aspetti macroscopici del fenomeno internet. Il motivo non è da ricercarsi esclusivamente, e banalmente, nella natura dello sponsor; il motivo è Werner Herzog, la sua alienità rispetto a tutto quello che viene considerato “di moda”, il suo sconfinato interesse per la natura umana. La natura umana, come dire, non passa mai di moda. Cercare di capirci qualcosa è sempre stata l’ossessione di un regista che nei decenni si è affidato a una serie limitata – perché profondamente interiorizzata – di espedienti.
C’è l’empatia totale nei confronti dell’outsider, del sognatore, cristallizzata da subito nell’intesa creata con Ted Nelson – un pioniere dell’informatica, epitome dell’idea di Genio Incompreso, catturato in un monologo che accarezza il delirio. C’è il finale scollegato dall’andamento della pellicola, la solita nota dissonante e stridula e molesta pronta a conficcarsi nel cervello dello spettatore – il fuoco e il racconto. C’è quella che si potrebbe definire la Herzog Face, ovvero il puzzle delle espressioni facciali su cui il regista tedesco indugia ogni volta che l’intervistato finisce di parlare e viene abbandonato, lasciato sospeso nel vuoto.
La natura umana non passa mai di moda. Cercare di capirci qualcosa è sempre stata l’ossessione di un regista che nei decenni si è affidato a una serie limitata, e profondamente interiorizzata, di espedienti.
A proposito, un personaggio indimenticabile è Joydeep Biswas, un informatico della Carnegie Mellon dal nome meraviglioso. Joydeep è profondamente innamorato di Robot 8, uno dei tanti – apparentemente identici – robotini che lui e il suo team sono riusciti a trasformare nei campioni del mondo di calcio tra robot. “Do you love it?”. Joydeep risponde: “Yes, we do”. Non abbocca all’esca: non è solo lui, ad amarli. Li amiamo tutti.
Avendo ormai familiarità con l’idea di verità aumentata cara all’autore – l’innesto di minimi elementi di fiction in grado di restituire una realtà più reale – non sappiamo se l’antropomorfizzazione dell’androide sia un virus inoculato dal regista. Studiando il punto luce negli occhi di Joydeep, viene da pensare che si tratti di un virus inoculato in ogni essere umano. Abbiamo delle preferenze, degli innamoramenti capaci di trascendere ogni stretta logica evoluzionista, come le tinte barocche di certe farfalle. Forse esiste una bellezza che trascende la funzione.
Verso la fine
L’impressione è che il regista sia, più che affascinato, turbato dalle proporzioni e implicazioni dell’età dell’informazione. Per essere un uomo rivolto a un’unica divinità, l’Esplorazione, (chiamiamola Curiosità se la porta a fare un film su Gesualdo, Coraggio se la porta a barattare la sua vita con dei bambini soldato), non è chiaro se Herzog abbia intuito le dimensioni dello scibile che lo aspetta sul web. Rimane un poeta di settantaquattro anni, sospeso tra l’ammirazione per le possibilità del presente e l’orgoglio nel respingerle. In una della miriade di interviste concesse in occasione dell’uscita del film, così tante da pensare si tratti di una richiesta dello sponsor, a Herzog viene raccontato di una colonia di pinguini sudamericani in cui è stato accettato un esemplare robotico. L’intervistato non nasconde la sorpresa: “My goodness. I’m missing a lot, apparently”. Mi sto perdendo molto, a quanto pare – e lo intende davvero. Sollecitato a salutare i lettori con un consiglio, però, il bambino bavarese torna da dove era partito, in montagna, nella Natura: “Cucinatevi un pasto almeno tre volte a settimana. Suonate uno strumento. Leggete libri e camminate”.
I pinguini vengono citati, comunque, perché sono uno degli animali feticcio di Herzog. Come gli orsi, o gli alligatori albini, tornano spesso nelle interviste – e nelle sue poesie. L’herzogiano non ha dubbi su quale sia l’animale che ricorre più spesso, però, nell’immaginario del regista. Il pollo. “Una delle ragioni per cui è sempre stato il mio regista preferito”, dice un collega, Harmony Korine.
Guarda negli occhi di un pollo e vedrai la vera stupidità, una stupidità senza fondo.
C’è chi lo chiama il Male. In un’intervista a Osvaldo Ferrari – in realtà parte di una lunga serie di interviste radio, un format simile agli incontri di Cronin e Herzog – Borges racconta di quando venne accompagnato da Alfredo Doblas, un collega bibliotecario, ad assistere a un combattimento tra galli. L’immagine di Borges, in completo, con il giornale sulle gambe “per non macchiarsi di sangue” è… indelebile. L’argentino racconta di come inizialmente le bestie si studino e, una volta toccatisi i becchi, vengano possedute da una frenesia che le porta all’annientamento. “Ho visto galli che non erano più galli ma come uccelli scarlatti privi di penne; […] erano ciechi e continuavano a combattere. I galli sono animali molto semplici; non so quale frenesia giunga a possederli.” Animali guidati da un istinto – da un comando. Oltre a quello, il nulla.
Lo sguardo ossessivo, la furia scatenata dalla supremazia dei gangli della base: una coazione a ripetere che ricorda una delle metafore più celebri nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale, il Paperclip Maximizer di Nick Bostrom. Si tratta di un esperimento mentale nato per inquadrare la minaccia di un’ipotetica macchina programmata senza includere una qualsiasi bussola etica – senza considerare il valore della vita umana. Se, per assurdo, a questa macchina venisse chiesto di produrre delle graffette (le paperclips), la macchina lavorerebbe solo in vista dell’obiettivo, annientando tutto quello che le si para davanti. Uomini compresi. Proiettare le nostre ombre antropomorfe su dei computer ha lo stesso senso di proiettarle su un pollo?
Herzog non è interessato a comprendere e tramandare lo stato dell’arte datato 2016, perché la tecnologia muta di continuo. Fissare la sua forma nel tempo ci dice qualcosa, certo, ma fino a un certo punto: da lì in poi inizia il territorio dei sentimenti tra gli uomini, del rapporto interpersonale, l’illusione nel distinguerci dagli animali, l’orgoglio nel distinguerci dalle macchine. Vivere nel 2016 e ricevere l’onore di essere raccontati da un visionario, è qualcosa che vale la pena ricordare. La cifra stilistica di chi ha diretto Lo and Behold, in fondo, è la stessa di chi ha diretto La Soufrière: sono tutti incontri alla fine del mondo.
La dipendenza totale dalle macchine e la precarietà della dipendenza stessa, l’intelligenza artificiale, questo orizzonte che si avvicina ogni ora di più – più tangibile del riscaldamento globale, più sensuale degli squilibri geopolitici – sembra essere l’incontro definitivo, il mostro finale designato dal regista. Come ricordano i versi di un poeta tedesco, famoso per i suoi film:
Così disse il Re: bambini miei,
abbiate pazienza. Dovremo aspettare
Centinaia di migliaia d’anni,
fino a quando le pietre vagheranno nei campi
e forse qualcuno, almeno una volta, piangerà.